martedì 3 gennaio 2012

2012, o sul come naufragar ci è dolce in un bicchier


Cambiamenti. 2012. Fine di un ciclo cosmico, secondo il calendario Maya, che è anche il nome con cui gli indiani chiamavano anticamente l'illusione, nella forma di un velo impalpabile che mantiene gli uomini separati dalla verità. Ma di quale verità stiamo parlando? L'apocalisse, intesa letteralmente come svelamento, ce lo dovrebbe indicare. E dunque eccoci finalmente qui, nel tempo che non ha più supplementari e si prepara al disvelamento del vero, di cui già si dovrebbero scorgere alcune tracce, i cosiddetti segni. Se non che, provando a sbirciare nella sabbia sottile della clessidra, a me sembra che l’unica cosa fino ad ora mutata, l'unico segno certo, riguardi la gastronomia. Sì, proprio la gastronomia: come il condannato a morte che indugia sulle volute di fumo dell'ultima sigaretta, in fondo anche negli abissi del palato si possono condensare i variabili destini, in attesa del definitivo striptease di Maya. Il Nero d’Avola, ad esempio. Chi se lo filava – a mala pena sapevamo che esisteva, da qualche parte laggiù in Sicilia – il vino che porta questo nome. Le donne, specialmente, ma anche le ragazze, le adolescenti con i pantaloni flosci e dalla vita bassa bassa sul sipario dei glutei, a conferma del fatto che la coperta la puoi tirare da una parte sola, tutte queste nostre belle femmine d'Occidente che entrano in un bar dove fino al decennio scorso avrebbero ordinato una Guinness alla spina, oppure un succo di pera corretto latte, una Coca Cola senza limone, no, ora ordinano Nero d’Avola. Con le più scaltre e audaci che si sincerano sulla zona di provenienza e il produttore, prima di congedare il cameriere con un gesto magnanimo della mano. Probabilmente è un sintomo di quella recente epidemia dell'inconscio gastronomico collettivo – l'ennesimo trucco di Maya? – che si chiama corsi di sommelier. Anche il pubblico femminile adesso li frequenta, e con grande convinzione. Così quando si trovano lì per lì con un calice di Nero d’Avola, le donne della terra del tramonto iniziano a rigirarselo commosse tra le mani, avvicinando con delicatezza l’orlo ancora illibato alle narici, per cogliere gli effluvi e i sentori e le fragranze ancestrali, prima di lanciarsi sulla disamina dei retrogusti: mela canterina, banana selvaggia, mandorla notturna... E se Omero guardando il mare lo vedeva color del vino, queste pozzangherine porpora sono diventate il nostro minimo oceano, in cui far veleggiare l'antico sogno di una totalità amichevole e docile. Mentre noi, noi maschi, intendo, espropriati dalle abituali rotte etiliche in cui abbiamo navigato con mestizia o euforia, il più delle volte di bolina, abbiamo finito col virare su una nuova forma di illusione alimentare: il cioccolato (rigorosamente fondente, ça va sans dire). Io stesso mi scopro a concionare intorno alla percentuale di cacao delle tavolette, che non deve mai – ma mai e poi mai, sia chiaro! – essere inferiore al 70%. Per il resto, 2012 e profezia Maya permettendo, a me sembra che siamo rimasti gli stessi italo-coglioni di sempre. E se naufragio ci sarà, sarà come sempre in un bicchiere.

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