sabato 27 giugno 2009

Vincere, quasi una recensione


Vincere, di Marco Bellocchio, cinema Excelsior di Sondrio. Ad Alessandra piace soprattutto l'interpretazione della Mezzogiorno - intensa, è questo l'aggettivo giusto? Io quando vado a cinema ho invece bisogno di credere, o forse lo credo davvero, che gli attori non siano attori, e quel che vedo sia una tra le tante possibili evenienze del reale. Per me John Wayne andava in bagno a cavallo, ecco. Un'attitudine che funziona molto bene con i film porno e meno con quelli di Marco Bellocchio: cinema di idee al massimo grado di concentrazione, qui ancora più che altrove. Eppure anche a me è piaciuto molto - estensione, è questo il sostantivo giusto?
L'estensione delle teorie di Foucault sulla rimozione dell'elemento emotivo e passionale come premessa alla fondazione simbolica del Potere, qualsiasi potere, in cui ritorna come sintomo o degradata sublimazione, in Vincere trova un correlativo perfetto che potrebbe essere didascalico o pedante. Invece non lo è. Ida Dalser è ombra viscerale alla retorica linguistica del fascismo, ma è anche una donna vera, che forse proprio perché vera e donna e viva, non riesce a conformarsi a un ordine del discorso fondato sullo sfasamento nominale. E' questo il gesto totalitario: spostare il dato di realtà a un orizzonte ulteriore, dentro un codice espressivo che non contempla il corpo e l’adesso? Se bisogna vincere, allora, vinceremo. Tempo futuro.
Ma andiamo per gradi. Ida Dalser è giovane e bella e trentina. Della bellezza che è presenza dentro il mondo, ne ha fatto anche una professione. Però all'improvviso vende tutto per offrire il ricavato ad un uomo. Lui ha bisogno di denaro, lei ha bisogno di lui. Una storia d'amore, punto.
Invece non è così perché abbiamo questo sfasamento: non nei sentimenti, ma nei codici discorsivi. Più che di ragione e sentimento, si tratta forse di corpo e immagine del corpo, narrazione. Lei, il suo corpo, sono conficcati in un'attualità di sangue e nervi. L'unica volta che lui le dice ti amo pronuncia la frase in una lingua straniera. Ida Dalser scopre quindi di essere difforme a un potere basato sull'iperbole narrativa, che porta a una sorta di disallineamento o diacronia esistenziale - il Re è nudo quando si espone sulla terrazza, ma l'uomo dentro il suo letto è velato e guarda altrove. Ne consegue che viene presto espunta, come errore grammaticale, da quella fabula che si è nel frattempo fatta sistema egemone e condiviso, dunque vocabolario. Il manicomio funziona così da parentesi linguistica, dove più tardi verrà internato anche il figlio, sintomo visibile ed "osceno" dell'infrazione al codice di differimento del Potere. Qui entrambi moriranno rispettivamente a 57 anni (1937) e 26 anni (1942).
Ma fino a questo punto siamo forse ancora all'elemento generale e di continuità sotteso al cinema di Bellocchio, soprattutto quello in collaborazione con lo psicanalista Massimo Fagioli: la follia come testo negato, che si ripresenta per mezzo di una diversa codificazione. La novità di contenuto, che si appoggia a scelte stilistiche controllatissime che la rilanciano, ossia la innalzano dentro una potente visione mai stemperata in sublimazione, sta forse nello sviluppo di un tema diverso seppure implicito, ugualmente dedotto dall'ultimo Foucault. Sto pensando alla "parresia", argomento che fu al centro del suo ultimo ciclo di lezioni (1983) all'università californiana di Berkley. Parresia, che significa semplicemente "dire la verità".
Ida dice la verità, l'afferma in continuazione. Ma non per convenienza, al contrario: per una necessità quasi corporea di far corrispondere il nome con la percezione della cosa, che è poi l'unica forma ammessa di esistenza sociale ("dammi un nome dammi un nome", implora l'insetto nella celebre poesia di Mandel'stam). Così la sconveniente verità da proclamarsi con ogni mezzo, è che lei è la prima e legittima moglie del Duce e madre di suo figlio Benito Albino Mussolini - ecco il nome finalmente, l'esistenza negata attraverso la rimozione manicomiale. E non è molto importante sapere se ciò sia effettivo - non esistono prove storiche al riguardo - perché la virtù della parresia non consiste in una verificabile certezza, ma nella titolarità morale a dire il vero. Che coincide con il rifiuto della retorica pubblica del Potere, della discrasia tra nome e corpo.
Gli italiani che alla fine si ribellano al fascismo e ne distruggono le icone, sono in fondo tutti dei Benito Albino, dei figli edipici che rivendicano il riconoscimento del proprio nome e della propria autonomia (libidica?), a cui avevano precedentemente abdicato in un'ebbrezza infantile: coincidere con il Padre, scindere il corpo dentro un'immagine proiettiva. Ed è commovente assistere, cioè letteralmente soggiornare dentro un’ impalcatura allegorica vertiginosa, al regista forse più lucido del cinema italiano che assume il tema caldo dell'emozione come verità "politica", ma anche cinematografica. Infatti è proprio il cinema che si è occupato, in epoca recente, di reintegrare l'elemento emozionale scisso, come la stessa pellicola ci ricorda per mezzo di numerosi inserti cinematografici. Perciò io trovo che Vincere sia un film politico ma solo in senso lato; non c'entra insomma nulla con una critica traslata all'attualità politica, come è stato suggerito, e direi quasi brechtiano o situazionista. Mostrando la responsabilità civile interna a ogni altro film - portare lo spettacolo a una piena consapevolezza e responsabilità del ruolo di "integratore emotivo", potremmo dire - o più in generale ad ogni enunciazione preverbale ed iconica.
Ma qui il discorso dovrebbe essere ovviamente esteso a quell'altro formidabile apparato iconico che è la pubblicità, rivelando la fondatezza dell'intuizione di Pasolini, quando la rubricava come "nuovo fascismo". Se c'è dunque una critica politica di Bellocchio rivolta all'oggi, non è a Berlusconi ma al berlusconismo. Qui inteso come codice linguistico con ambizioni totalitarie che si appoggia alla rimozione neofascista della vitalità naturale, interna e costituiva del sistema pubblicitario di promozione delle merci. In altre parole, al trasferimento della vita nella sua rappresentazione. Che porta a dire ti amo in tedesco o papi a un signore di settantatre anni suonati.

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