venerdì 19 giugno 2009

Cari compagni di cella - dopo una settimana su Facebook



Cari amici compagni di cella, fratelli miei, nei pochi giorni che sto qua, divorando lamette e scagliando arance rosse tra le sbarre, attento solo a riprendermi la mano come quando da bambino imboccavo le marmotte a Saint Moritz, o in qualche altro posto da ricchi in cui mi portava il mio papà con la Prinz color paglia, ho imparato a fiutarvi a sentire l'odore da quando sto qua, quei pochi giorni, cari amici miei. E’ bastato grattare alla porta e mi ha avete fatto entrare con un sorriso grande e silenzioso. Ho detto buongiorno e avete taciuto, ancora. Solo mi avete fatto un cenno con la mano, e sono stato io a fingere di non vedervi, i miei amici, i miei fratelli. Bravo, hai capito, avete pensato come chi sa tenere un segreto. E io ho scoperto di essere bravo davvero come voi che siete bravi, a vostro agio, e invece di parlare di rispondere dare del tu, ho cominciato anche io a proclamare, a sentenziare e a profumare, almanaccando dentro il più rotondo tra i pronomi; o in alternativa dicevo noi, che poi è lo stesso che dire io. E più lo faccio, più dico io oppure scrivo noi, muovendomi obliquo contro le pareti della cella, più provo questa sensazione di eccitante disgusto, l'odore della carne degli uomini che si rincuccia sotto al lenzuolo dei deodoranti. Quindi vi osservo vi spio, fratelli miei. E vi vedo mentre battete la polvere dai tappeti – no, non voi: siamo noi che battiamo i tappeti - e quella vergogna che non provate è il mio diletto, la mia taciturna conquista e il mio segreto. Sono avido di vergogna, sì, di polvere. Una volta ho visto un film dove qualcuno faceva funzionare un aspirapolvere al contrario e mi faceva ridere da matti: sbuffava polvere e sporcizia in ogni angolo di mondo, un infinito starnuto. Ma forse ridevo perché ero molto piccolo e pensavo che lo sporco, come il cibo, deve finire dentro una pancia. Mentre lo sporco che esce dalla pancia si chiama vomito. Così adesso che sono vecchio come voi che siete vecchi, ma belli, mi sembrate tutti più belli di me che alle scuole medie e anche a quelle dopo, stava scritto su un foglietto a quadretti piccoli piccoli trovato sotto ai banchi delle compagne, giuro, ci stava scritto a maggioranza ed ero io quello più bello, di tutta la classe intera – non “carino”, attenzione: bello! La parola carino non si usava ancora e nemmeno la sua iperbole carinissimo, il sapone al posto dei deodoranti. Ecco, adesso in fondo era solo questa cosa qui, nemmeno più un segreto, ma temo di aver scordato il finale, la musica sui titoli di coda. Continuerò allora a fischiare alle marmotte e a parlare nel sonno ad alta voce, o ad alzare la voce per non prendere sonno, vinto dal gusto della bella frase, il gioco arguto e vanitoso di parole, infine il tepore della branda. Ma poi di nuovo a lanciare arance, scrivere sui muri, quanto sono grandi e spessi questi muri, avete notato, le mattonelle bianche per lo smisurato borbottio. Così grandi e pulite che si può scrivere anche due volte le stesse cose, come i matti veri, gli scemi di guerra, la parola arancia arancione vomito Prinz papà. Ogni tanto, ma raramente, capita anche di leggere qualcosa che hanno scritto gli altri; qualsiasi cosa, non è importante: basta che non sia stata scritta per te, diventeresti un Tu, con il tuo proprio odore. Come un inciampo, sì. Ma oggi quasi mi facevo male, quando sono inciampato in quelle parole che non bisognerebbe lasciarle in giro, qui, delle parole così:

"L'umanità si trova oggi davanti a una disgiunzione o, quanto meno, a un allentamento del vincolo che, attraverso il giuramento, univa il vivente alla sua lingua. Da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall'altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un'esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un'esperienza politica diventa sempre più precaria. Quando il nesso etico – e non semplicemente cognitivo – che unisce le parole, le cose e le azioni si spezza, si assiste infatti a una proliferazione spettacolare senza precedenti di parole vane da una parte e, dall'altra, di dispositivi legislativi che cercano ostinatamente di legiferare su ogni aspetto di quella vita su cui sembrano non avere più alcuna presa."

Giorgio Agamben (da Archeologia del giuramento, Laterza, 2008)

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