lunedì 29 giugno 2009

Il vero artista (intervento del marzo 2003)


Giovedì 13 marzo 2003, Canale 5. Mentre Andrea Francolino esce dalla casa del Grande Fratello ed entra nello studio televisivo, il padre gli corre incontro gridando: “Ecco il vero artista, ecco il vero artista!” Andrea Francolino è diplomato all’Accademia di belle arti di Bari, leggo su internet, sezione scultura. A parte qualche smilza recensione su riviste di settore, l’unico motivo di una sua certa fama è la partecipazione alla trasmissione di Canale 5. Come noto, in questo programma i concorrenti sono ripresi per ventiquattro ore al giorno. Ventiquattro ore in cui non fanno assolutamente nulla; eccetto parlare in continuazione, di nulla.

Forse nessuno meglio di Andy Wharol, nel secolo precedente, ha saputo interpretare la crisi che sta attraversando l’arte nella modernità. Le rappresentazioni in cui una comunità si riconosce e che costituiscono la sua identità non sono più, come nel passato, i grandi panneggi di arte e teologia, ma l’anonimo sottoprodotto del marketing pubblicitario. Anche se bisogna riconoscere che il Mercato non è privo di una certa filosofia esistenziale, tale senso è ciò che il Mercato stesso chiamerebbe valore aggiunto: uno stile di vita omogeneo all’espansione del Mercato stesso, semplicemente. L’artista viene così espropriato della sua funzione autenticamente “creativa”, ossia di generazione dentro un codice di segni condiviso, che può recuperare, solo in minima parte, ricamando all’orlo della rappresentazione allettante delle merci. Quello che l’arte pop rivela è così uno scarto di competenze, un gioco di seggiole. La pubblicità va a insediarsi nel posto occupato tradizionalmente dall’arte, che è appunto la creazione simbolica (sebbene per conto terzi: prima Dio, ora il Mercato), mentre l’arte a sua volta si muove verso il posto latitante della teoria critica; messa fuori gioco dalla pigrizia e dalla moltiplicazione dei codici di significato, che finiscono col produrre un effetto di elisione.

Con la modernità si impongono anche il cinema e l’iconografia politica, altri sistemi di rappresentazione e di riconoscimento sociale; ma la loro autonomia è fittizia, essendo entrambi motivati dalle stesse ragioni di propaganda e di consumo (l’anonima serialità delle immagini di Marylin e di Mao, si riflettono in quelle della Coca-Cola e della zuppa Campbell). Ciò che manca è in pratica una titolarità della visione, divenuta il risultato di invisibili strategie collettive, non necessariamente oscure. L’artista, per come siamo abituati ad intenderlo, cioè come colui che dice “io” (io vedo, io creo, io dico), succede in un tempo relativamente recente alle voci anonime della fabulazione mitica, ma verso quell’anonimato sembra venire ora ricacciato. Retroazione vissuta con disagio e senso di degradazione, e da cui si è ricavata la nozione di crisi. In realtà, se di crisi si può parlare, non è tanto relativa all’oggetto artistico quanto appunto al soggetto creatore: è la crisi dell’artista, non dell’arte. Se l’uomo si è ritrovato muto di fronte all’inaudito dei tempi moderni, l’arte si è riempita la bocca di tale assenza di parole, guadagnando una consapevolezza di sé che si è tradotta in eloquenza espressiva.

Altri nomi: Musil, Kafka, Beckett, Joyce, Ionesco o più recentemente Bernhard o Pynchon, in ambito letterario e a titolo di indicazione parziale. Sintetizzando, quindi anche banalizzando, si potrebbe dire che il discorso dell’arte della crisi sia una paradossale ammissione di impossibilità: creando, gli artisti ci dicono della impossibilità della creazione. In questo senso l’artista diventa ciascuno di noi. Espropriato dai sistemi di produzione e rappresentazione della società di massa della possibilità di creare la vita in modo autonomo e originale, ma a differenza che nelle narrazioni religiose del passato consapevole di tale impossibilità, l’uomo moderno può solamente tradurre questa esperienza in sintomo, cioè in “opera”, e dunque in indefinito e vano brusio psicologico. C’è un’imbarazzante continuità tra l’estenuata interrogazione di sé di Zeno Cosini, nel romanzo di Svevo, e l’accigliato psicologismo nelle rubriche giornalistiche della posta del cuore.

Sembrerebbe la condizione dello scacco tragico, un dover essere che si contrappone a una impossibilità a essere. Ma è quanto gli artisti della crisi si affrettano a smentire: l’epilogo tragico, la solennità dell’uomo che dignitosamente si appresta alla propria fine, sulla scena moderna incontra inevitabilmente un effetto grottesco. Il suicidio di Mishima, con la sua dolorosa ripulsa alla trasformazione sociale indotta dalla modernità, è forse l’esempio più evidente di kitsch tragico. Il dolore non trova più una rappresentazione credibile, a parte forse l’ellissi.

Della difficoltà di una rappresentazione credibile del dolore, l’artista, inteso nuovamente come generatore dell’ordine simbolico e non più come uomo comune, è ancora la vittima principale. Farsi titolare di una rappresentazione collettiva immagino voglia infatti dire, prima di ogni altra cosa, farsi titolare dell’unica esperienza originariamente collettiva: il dolore. Esperienza che non solo è stata espropriata, ma annichilita dal marketing politico-merceologico – lo scarto radicale tra eteronomia teologica e merceologica, sta proprio nella cancellazione del dolore come scaturigine della rappresentazione. Così senza il suo “oggetto specifico”, il dolore, e la sua soggettività esemplare, l’artista da creatore diviene “creativo”; cioè bizzarro, singolare, stravagante, buffo. In altre parole: ornamentale.

Fino alla trasmissione televisiva di giovedì 13 marzo, nel sentimento comune l’artista era dunque sinonimo di eccentrico, sorta di scimmietta dispettosa sulle spalle della modernità - l’emersione dello stereotipo che si fa emblema, possiamo ritrovarla nelle fenomenali caricature di pittori, musicisti e letterati offerte da Totò nei suoi film. Ma dopo l’urlo liberatore del padre di Andrea Francolino – “Ecco il vero artista, ecco il vero artista!” – si può dedurre che il gioco delle sedie abbia concluso la corsa in circolo. Non solo l’artista non è più uno sguardo visionario che, con le mani o il pennello o le parole, sa realizzarsi in “visione” compiuta: inaugurando mondi, focalizzando lo sguardo che altri dopo di lui avranno sulle cose e sul loro significato. Non solo questo primo depotenziamento, ma il ribaltamento che ha trasformato l’artista, il “vero artista”, nel prodotto della rappresentazione. Ed ecco allora che l’artista viene generato da una costola del nulla come, un tempo, dal nulla avrebbe generato la rappresentazione. In questo dobbiamo essere grati al signor Francolino: che mi risulti, è stato il primo ad aver affermato con tanta vigorosa chiarezza che il re è nudo. E che suo figlio non è propriamente suo figlio, ma nostro fratello.

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