mercoledì 31 luglio 2024

Propaganda, da che parte sta?

Gira sul web questa immagine, il cui sotto testo, a volte accompagnato dal sarcasmo di chi la sa più lunga degli altri, è che il mutamento climatico è una grandissima fregatura, o per la precisione si tratta di propaganda.

Come funziona la propaganda?

Semplice. Si prende una mappa climatica che riporta dei valori tutto sommato a norma per il periodo – e infatti a una comparazione con la mappa climatica dello stesso giorno, 29 luglio del 2018, le temperature non si discostano di troppo – e la si tinge di un drammatico rosso, a evocare le torride fiamme dell’inferno. Il gioco è fatto.

Di prima battuta mi viene da riconoscere che la critica possiede un qualche fondamento, e che l’iperbole, anche visiva, ha guadagnato spazio negli ultimi anni. L'utilizzo è certamente strumentale, ma più che di complotto politico (anche basta con i complotti politici...), nella maggior parte dei casi si tratta di attrarre un’attenzione sempre più distratta dal proliferare degli stimoli – ne fanno fede le notifiche sullo smartphone, dove tutto viene ingigantito: tempesta solare, cosa ne sarà di noi?!

Io però aggiungerei un paio di integrazioni, a ricollocare in forma dubitativa il lato da cui pende la propaganda:

1) vorrei vedere una comparazione non con il 2018, ma con il 1978, meglio ancora con la media delle temperature della seconda metà del secolo scorso, sempre al 29 luglio. Un singolo anno situato a così breve distanza è irrilevante ai fini statistici, quando di cambio climatico si inizia a parlare da dopo il 2003;

2) mi rendo conto che nemmeno i miei ricordi giovanili fanno statistica, ma quando ero bambino, metà degli anni Settanta o giù di lì, per dire che la macchina di papà correva si diceva cento all'ora ("andavo a cento all'ora a trovar la bimba mia"), e gli altri bambini rispondevano cacchio, cento all’ora! Mentre per dire che una giornata era stata calda si diceva trenta gradi, e di nuovo giungeva l'eco del coro delle voci bianche: Cacchio, trenta gradi!

Oggi un'auto deve andare minimo a duecento allora, e se dici che nel luogo dove sei ci sono trenta gradi ti rispondono cacchio, trenta gradi, e dove stai, in Svezia?

martedì 30 luglio 2024

Diffamazione

"C'è in giro della gente... questo qui me ne ha fatte di tutti i colori... e allora: diffamazione, andava in giro a dire che io qua e io là, mi metteva i bastoni tra le ruote... me ne ha combinate... insomma, andava in giro a dire che non mi piacciono le Marlboro!"

Renato Pozzetto, dalla trasmissione televisiva Il poeta e il contadino, 1973

lunedì 29 luglio 2024

Amichettismo, lobby, club e clan, proviamo a fare un po’ di chiarezza

C’è un tratto della mia personalità infantile che ritrovo immutato sui social. Mi compiaccio quando qualcuno mi richiede l’amicizia su Facebook – specie se è una giovane donna graziosa, confesso – ma di più quando mi accorgo di essere stato stralciato dai contatti di Tizio o Caio, e senza che tra di noi ci fosse stato alcun diverbio.

La sensazione che ne ricavo è di essere un prodotto di nicchia, diciamo pure e fuor di metafora che sono abilissimo a stare sul cazzo alla gente, ma ho assoluto bisogno di essere amato da un piccolo numero di miei simili, potremmo chiamarlo clan, come quello di Celentano. Sono anche in grado di assegnargli un numero: il mio clan corrisponde a una quindicina di elementi, la quantità di like che i miei post ricevono in media.

Ma è anche il numero di componenti della squadra di basket di cui facevo parte da ragazzo, riserve comprese. C’erano gli altri – i Forti e liberi di Monza, la Posal Ford di Sesto San Giovanni, il Pezzini di Morbegno – e poi c’eravamo noi che eravamo la Sondrio Sportiva di basket, sponsorizzata dalla centrale del latte Colavev.

Quando il mio amico Fulvio Abbate parla di amichettismo, credo non si riferisca all’umano sentimento di far parte di un clan, ma di non possedere il senso della misura, immaginando squadre di basket composte da duecento, trecento, anche mille persone. E pretendere che tutti ti passino la palla, tu poi la ripassi a loro, senza mai osare un tiro da tre punti. Una partita fatta di soli passaggi, e se arriva un vero avversario gli rispondi La palla è mia tu non puoi giocare.

Ma quello non è un clan, è una cazzo di lobby, un fottuto club. Groucho Marx diceva che non avrebbe mai fatto parte di un club dove accettassero uno come lui tra i suoi membri, e nel dirlo si riferiva a un concetto molto simile all’amichettismo culturale denunciato da Fulvio Abbate, a trazione sempre più femminile.

I club esistono da tempo immemore, esistono le lobby, le famiglie mafiose, e fanno tutti mediamente schifo. Fanno schifo anche quando composti da fini intellettuali che non farebbero mai esplodere l’auto di un magistrato, è il principio che conta.

Bon, ciò che avevo da dire l’ho detto, ora posso tornare al mio piccolo clan. E coloro a cui queste parole dovessero stare sul cazzo possono esercitare il loro diritto di tiro al piccione. Come sempre saprò farmene una ragione, una ragione di piacere.

sabato 27 luglio 2024

Travestimenti del nulla

Mi sono sempre accostato alle immagini come a un sistema organizzato di segni, segni da decifrare, un testo composto di sole figure. Per dire: se vedo la fotografia di un gruppo di studenti che fa il saluto romano, è successo nei giorni scorsi all'Istituto superiore Pirelli al Tuscolano, non penso, come il professore, che sia solamente una postura gogliardica connaturata all'età, senza provare nessun imbarazzo nell'essere incluso nello scatto. No, penso che sia apologia di fascismo.

Ugualmente, se una ragazza prosperosa posta un selfie su Instagram, la fotocamera dello smartphone è puntata sulla linea che discrimina i seni, la camicetta sbottonata quanto basta, sono portato a credere che stia cercando di provocarmi sessualmente, e lei ciò che i francesi riassumono con il termine di allumeuse (accenditrice).

La differenza è che l’apologia di fascismo, oltre a essere un reato, mi fa schifo, al contrario delle tette che mi piacciono molto – ma quando vengono usate come strumento di potere sul desiderio maschile, mi piacciono meno. Tutto ciò, in ogni caso, lo pensavo fino ieri. Oggi mi è tornato alla mente un vecchio saggio di Jean Baudrillard (Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, 1979), in cui assimilava la cultura postmoderna al sistema della moda; un’associazione ripresa da Roland Barthes, se non sbaglio.

Sulle passerelle della settimana milanese moda, ci dice Baudrillard, si consuma la scissione definitiva tra significante e significato, forma e sostanza. Sfilano con lunghe falcate le modelle mentre il senso si defila. Chi ha rivestito i loro corpi filiformi cita il casto perbenismo degli anni Cinquanta, scarpe basse, abiti scampanati con stampe floreali, oppure lo spirito sbarazzino e libertario della Swinging London, stivaloni in pelle, mini gonna, o ancora lo stile dark punk underground, che non si capisce cosa diavolo voglia dire. A ogni tornata – avanti indietro, avanti indietro, e anche questo muoversi senza direzione è probabilmente sintomatico – la narrazione cambia involucro, ma a ben vedere si tratta solo di ornamento, o come dice Baudrillard di simulacro. Il simile si è però convertito nel medesimo, non c'è un altro a cui il segno rimandi, è il tripudio dell'intransitivo.

Un falso movimento, un gattopardesco mutare di continuo per essere qualcosa – l'antropologo Ernesto De Martino la chiamava crisi della presenza, ma forse è più chiaro con Stan Lee e la sua Donna Invisibile dei Fantastici Quattro – qualsiasi cosa di cui i social possano farsi riflesso. Forse solo Facebook ha ancora un piede nel vecchio mondo del significare, ma con quello che avanza si è sbarazzato da ogni cascame realistico, ha ragione lo sciocco a guardare il dito e non la luna da esso indicata. Ed è così che il segno incontra sé stesso, si auto segnala, dice guardami cazzo, la mia quota di realtà è proporzionale agli sguardi che ricevo, mettimi un like! Scriveva Osip Mandel'Stam in una poesia del 1923:

Minimo con minime ali

un corpicino ruota nel sole,

minuscola nell’empireo

brilla una lente ustoria.

 

Un niente di zanzara

allo zenith sibila in pianto

e, fioco ronzare di càribi,

geme una scheggia nell’azzurro.

 

«Non dimenticarmi, puniscimi,

ma dammi un nome, dammi un nome!

Si sta meglio, sai, con un nome

nel profondo, gravido azzurro!»


Quel nome è l'ultimo residuo di realtà a cui oggi abbiamo accesso, un nome che si è convertito in forma, in emoticon, ribaltati i tradizionali ruoli a nascondino: ci si sbraccia per essere visti, sono qui, ehi sono qui!, nella speranza che qualcuno, nominandoci, faccia tana, pazienza se al prossimo giro dovremo stare sotto. Perciò mi dispongo a una maggiore indulgenza anche verso chi fascisteggia o allumeggia sul web, intuendo che sono entrambi travestimenti di un tautologico nulla.

venerdì 26 luglio 2024

McGuffin, o sul processo creativo

 

Nei giorni scorsi ho pubblicato due micro racconti, a pochissimi giorni di distanza li ho inseriti qui e anche su Facebook. Entrambi sono passati un po’ in sordina, ma va bene così, non ne rivendico il valore; in fondo li ho scritti solo per poter arrivare al ragionamento che sto per fare. Oltretutto, nemmeno 3000 like ti assicurano della bontà di un testo, altrimenti Fedez sarebbe meglio di Dostoevskij.

Ma torniamo ai due racconti, che in realtà erano la medesima storia. La prima versione narrava una vicenda realmente accaduta (il corvo di due miei conoscenti imitava le voci degli operai intenti nei lavori di ristrutturazione della casa dei vicini), restituita attraverso un lavoro di scrittura limitato alla forma, e cioè alla selezione dei vocaboli, al loro rapporto, ordine cronologico dei fatti, in questo caso del tutto lineare. Nella retorica antica avrebbero detto che si era saltata la fase dell'inventio, passando direttamente alla dispositio e all'elocutio.

Nel secondo racconto quella stessa vicenda viene rielaborata e mescolata con altri eventi reali, fino al punto di occultarla agli occhi del lettore. Si tratta, in parte, di materiali personali (avevo un amico che negli anni Ottanta andava in vacanza a Sanremo, e quando tornava diceva Diofà) e in parte collettivi (Portobello). La loro fusione fa imboccare al racconto una strampalata direzione onirica, del tutto opera di finzione.

Lo sceneggiatore Angus MacPhai chiamava questo espediente compositivo McGuffin, un termine, poi ripreso e reso popolare da Alfred Hitchcock, che non sta a significare nulla di definito, e piuttosto un generico evento che ha funzione di innesco, da cui la trama successiva si può anche svincolare. Tradotto in metafora, abbiamo un seme piantato nella terra, che da lì in poi prende a generare: può essere un fiore, una carota, un albero stortignaccolo o una maestosa sequoia. Ma fermiamoci qui, non entriamo nel complesso problema della qualità artistica, del gusto, anche del talento.

Ciò che voglio arrivare a dire è che come esiste un McGuffin drammaturgico – quello utilizzato da Hitchcock  probabilmente esiste anche un McGuffin mentale, connesso all'invenzione di cui già abbiamo accennato. Può essere qualcosa che abbiamo vissuto oppure letto, sognato, copiato, manomesso, ingerito, annusato, intravisto dal finestrino di un treno in corsa, ma si deve sempre partire da un'esperienza affinché l’impulso creativo venga attivato, la pura fantasia non esiste. Possiamo guardare alla terra come alla mente, senza semi la mente è un deserto di sabbia, o come diceva il mio compagno di scuola Corrado Lapsus un deserto di piastrelle, in quarta elementare sosteneva che nel deserto ci fossero le piastrelle.

A tutto ciò viene dato il nome di processo creativo, ci sono molte teorie al riguardo, io prediligo la versione di un altro regista. Jim Jarmush la vede così: “niente è originale. Ruba da tutto ciò che suscita l’ispirazione o che alimenta la tua immaginazione. Divora vecchi film, nuovi film, musica, libri, dipinti, fotografie, poesie, sogni, conversazioni casuali, architettura, ponti, segnali stradali, alberi, nuvole, distese d’acqua, luce e ombre. Delle cose da cui rubare, prendi solo quelle che parlano direttamente alla tua anima. Se lo fai, il tuo lavoro (e furto) sarà autentico. L’autenticità è inestimabile, l’originalità non esiste. E non preoccuparti di nascondere il furto.”

Di seguito i due micro racconti a cui ho fatto riferimento.

1) The Raven, a true story

Avevo un'amica che aveva una sorella che aveva un marito che aveva un corvo. Il marito parlava, il corvo no. Un'estate, nella casa accanto alla casa della sorella della mia amica dove viveva con il marito e con il corvo - ma il corvo stava fuori, una spaziosa voliera lo ospitava in giardino - fecero dei lavori di ristrutturazione. La sorella della mia amica e il marito e il corvo abitavano in Valtellina, e non si capisce per quale ragione (ammesso che ve ne sia una) i vicini si affidarono a una squadra di muratori bergamaschi. Probabilmente perché sono più bravi dei muratori valtellinesi, e anche di quelli mantovani, varesotti, livornesi, bolzaneti o bolzanini o bolzanesi, non so come si scrive. Insomma i muratori bergamaschi sono più bravi, non c'è storia per nessuno. Così dicono almeno. Al termine dei lavori, che coincise con il termine dell'estate, i muratori bergamaschi se ne andarono. Avevano fatto un buon lavoro, onorato la loro fama. Tutti gli altri rimasero: i vicini, la sorella della mia amica, suo marito e pure il corvo, che all'improvviso si era messo a parlare. Diceva porco di qua, porco di là, per lo più riferendosi a santi e madonne e con inequivocabile accento bergamasco. Diceva anche pota pota pota. A me sembra una bella storia, peccato solo che sia vera. Avrei voluto inventarla io.

2) Portobello, o sull'happy end

Penso a una storia con protagonista un uomo nato intorno alla metà degli anni Sessanta, ha un sogno ricorrente. Tutte le notti sogna Portobello, il pappagallo dell'omonima trasmissione condotta da Enzo Tortora tra il 1977 e il 1983, e poi per un'unica stagione nel 1987, dopo le tristi vicende giudiziarie.

Il sogno compare nel suo teatro onirico alle 2.47, un orario che per la cabala ebraica e la numerologia significherà forse qualcosa, ma non per questa storia. 2.47 precise precise, lo sa perché alle 2.48, puntualmente, si sveglia. E dice: “Diofà!”

Un tipico motto di sorpresa piemontese, strano perché il nostro personaggio non è piemontese, probabilmente ha sentito l’espressione da ragazzo a Sanremo, dove si ritrovava con un gruppo di coetanei di Asti. Tornato a Sondrio al termine delle vacanze (il nostro personaggio è dunque valtellinese) la ripeteva con gli amici del Bar Sole, compiacendosi per l’esotismo del suono. Ma ci voleva, allora come adesso, una ragione per sbottare.

In questo caso coincide col fatto che Portobello ha finalmente parlato – un evento che ha dell'inverosimile, accaduto una sola volta con Paola Borbone. Peccato che nel sogno non abbia detto Portobello, come richiesto dal programma, ma anch'esso Diofà. Cosa fare…?

Enzo Tortora si consulta con gli autori, in studio è presente un notaio, sentono il suo parere e poi decidono di assegnare comunque il premio al concorrente, un bel gruzzoletto in gettoni d’oro. Alle 2.49 il nostro personaggio può così riprendere a dormire. Sì acciambella come un gattone sul lato sinistro, un mezzo sorriso a baciare il cuscino. Perché questa è una storia che finisce bene.

The Raven, a true story

 

Avevo un'amica che aveva una sorella che aveva un marito che aveva un corvo. Il marito parlava, il corvo no. Un'estate, nella casa accanto alla casa della sorella della mia amica dove viveva con il marito e con il corvo  ma il corvo stava fuori, una spaziosa voliera lo ospitava in giardino fecero dei lavori di ristrutturazione. La sorella della mia amica e il marito e il corvo abitavano in Valtellina, e non si capisce per quale ragione (ammesso che ve ne sia una) i vicini si affidarono a una squadra di muratori bergamaschi. Probabilmente perché sono più bravi dei muratori valtellinesi, e anche di quelli mantovani, varesotti, livornesi, bolzaneti o bolzanini o bolzanesi, non so come si scrive. Insomma i muratori bergamaschi sono più bravi, non c'è storia per nessuno. Così dicono almeno. Al termine dei lavori, che coincise con il termine dell'estate, i muratori bergamaschi se ne andarono. Avevano fatto un buon lavoro, onorato la loro fama. Tutti gli altri rimasero: i vicini, la sorella della mia amica, suo marito e pure il corvo, che all'improvviso si era messo a parlare. Diceva porco di qua, porco di là, per lo più riferendosi a santi e madonne e con inequivocabile accento bergamasco. Diceva anche pota pota pota. A me sembra una bella storia, peccato solo che sia vera. Avrei voluto inventarla io.

Portobello, o sull'happy end

 

Penso a una storia con protagonista un uomo nato intorno alla metà degli anni Sessanta, ha un sogno ricorrente. Tutte le notti sogna Portobello, il pappagallo dell'omonima trasmissione condotta da Enzo Tortora tra il 1977 e il 1983, e poi per un'unica stagione nel 1987, dopo le tristi vicende giudiziarie.

Il sogno compare nel suo teatro onirico alle 2.47, un orario che per la cabala ebraica e la numerologia significherà forse qualcosa, ma non per questa storia. 2.47 precise precise, lo sa perché alle 2.48, puntualmente, si sveglia. E dice: “Diofà!”

Un tipico motto di sorpresa piemontese, strano perché il nostro personaggio non è piemontese, probabilmente ha sentito l’espressione da ragazzo a Sanremo, dove si ritrovava con un gruppo di coetanei di Asti. Tornato in valtellina al termine delle vacanze (il nostro personaggio è dunque valtellinese) la ripeteva con gli amici del Bar Sole, compiacendosi per l’esotismo del suono. Ma ci voleva, allora come adesso, una ragione per sbottare.

In questo caso coincide col fatto che Portobello ha finalmente parlato – un evento che ha dell'inverosimile, accaduto una sola volta con Paola Borbone. Peccato che nel sogno non abbia detto Portobello, come richiesto dal programma, ma anch'esso Diofà. Cosa fare…?

Enzo Tortora si consulta con gli autori, in studio è presente un notaio, sentono il suo parere e poi decidono di assegnare comunque il premio al concorrente, un bel gruzzoletto in gettoni d’oro. Alle 2.49 il nostro personaggio può così riprendere a dormire. Si acciambella come un gattone sul lato sinistro, un mezzo sorriso a baciare il cuscino. Perché questa è una storia che finisce bene.

giovedì 25 luglio 2024

Santa Lucia, un'ordinaria storia di malasanità

 

Immagina di avere un distacco della retina ai suoi primi sintomi, li riconosci perché già ne hai avuto uno all'altro occhio. Immagina di andare subito da un famoso oculista che ti dice: Non è niente, stia tranquillo. Immagina, dopo alcuni giorni, di avere sintomi ancora più manifesti. Corri al pronto soccorso e ti senti dire da una dottoressa di origini rumene: Si prenda una bella vacanza, glielo ha già detto il collega che non è nulla. (In questa storia immaginaria non abbiamo pregiudizi contro i rumeni, sia chiaro, ma è importante immaginarla rumena). Immagina quindi di tornare dal famoso oculista – ormai sono già trascorse tre settimane, nelle quali il tuo occhio ospita i più bizzarri eventi: lampi di luce, ragnatele, ombre, puntini luminosissimi in caduta libera, come le stelle a San Lorenzo – e sentirsi questa volta dire: Lei ha una lacerazione della retina a ore due, deve fare immediatamente il laser. Le scrivo l’impegnativa con la richiesta di procedura d’urgenza. Immagina di presentarti di nuovo al pronto soccorso, e ritrovare la dottoressa di origini rumene. Ti riconosce. Ma non doveva essere in vacanza? No, legga qui. D'accordo, aspetti. Dopo mezz'ora arriva un medico sui settant'anni, sembra avere qualcosa di strano: voce impastata, andatura a tratti incerta a tratti scattosa, ricorda certi miei amici del Bar Piero – se non conosci il Bar Piero, immagina pure qualsiasi altro bar. Continua a immaginare l'uomo del Bar Piero (o di qualsiasi altro bar) armeggiare con l'apparecchio laser. Suda, sudate entrambi, nel locale ci sono 32 gradi, il reparto di oculistica non ha l'aria condizionata. Immagina ora che un'infermiera ti riconosca. Troviamole un nome, ecco, fingiamo si chiami Lucia, come la santa protettrice degli occhi, la figlia è stata alunna di tua madre. Lucia fa segno di volerti parlare. No, non qui. La segui e, fatti pochi passi, si ferma all'improvviso, ti posa una mano sulla spalla. Scappa, scappa! dice con un volume di voce bassissimo, quasi un sussurro. Non ti sei accorto che è ubriaco? Ogni tanto succede, viene al lavoro in questo stato. Che fai, la prendi in parola? Ci pensano le cose a cavare le castagne dal fuoco. Il medico alza le mani alla maniera di un soldato che si arrende, o più verosimilmente di un bambino che subisce toppa a nascondino. Non riesco a fare funzionare il laser aggiunge con la sua voce biascicata, aspettiamo la mia collega, che è poi sempre la rumena andata nei poliambulatori a operare. Va be', aspettiamola in corridoio, sempre 32 gradi. Quando ritorna dopo tre ore ti comunica sbrigativamente: L'apparecchio è rotto. E io ora cosa faccio? Boh, veda lei – no, forse non ha usato il verbo vedere, ma il senso è quello. Fortuna che conosci il manutentore degli apparecchi medicali, stiamo sempre immaginando, stiamo sempre parlando dell'ospedale di una piccola città di provincia, mettiamo Sondrio. Gli telefoni la sera e ti risponde che Sì, in effetti oggi abbiamo avuto segnalazione di un guasto Ma a un controllo il laser funzionava perfettamente, quei due idioti (ndr: la rumena e l'ubriaco) non riuscivano a fare un normale settaggio operativo, roba che te la spiegano il primo giorno che entri in oculistica. Dai, uno non era idiota avresti voglia di ribattere, aveva solo alzato un po' il gomito. Ma dalla bocca ti esce solo: Ah. Il giorno dopo ti fai portare da un altro amico all'ospedale di una graziosa località lacustre, si trova a un'ora circa di auto. Qui ti viene finalmente fatto il laser, più di cento colpi, Mi raccomando non si muova, guardi il mio orecchio. La dottoressa che ti sta parlando (castana, minuta, sui quarant'anni; è pure simpatica e molto carina: quanto ti senti fragile basta poco per innamorarsi, e io ci stavo già cascando...) alla fine chiede: Ma perché non è venuto prima? Il suo occhio è da giorni che sanguina, era messo maluccio. Possibile che non si è accorto di nulla... Io ho fatto quel che ho potuto, l'intervento è andato bene. E immagina infine anche la risposta da darle. La mia risposta di stamattina, ospedale Moriggia Pelascini di Gravedona, ore 11.16, infrangerebbe il galateo di Internet, oltre alla sensibilità del mio nuovo amore. Quindi meglio immaginare anche quella.

martedì 23 luglio 2024

Il Genovese

 

Lo chiamavano il Genovese per la stessa ragione per cui il Venezia viene chiamato il Venezia. Con i forestieri, da queste parti, la fantasia nell’assegnare i soprannomi è ai minimi termini. Prima di conoscerlo ne avevo sentito parlare: C’è un tizio di Genova che dorme tra i cespugli ai giardinetti, mi era stato detto al Bar Corona. Poi dei giovani erano venuti a molestarlo e aveva cambiato posto, ma questo l’ho saputo in seguito direttamente da lui.

Dietro al monumento ai caduti della Prima guerra mondiale, in piazzale Valgoi, aveva scovato una nicchia, con qualche cartone riusciva a farci anche l’inverno. Qualcuno aveva cercato di aiutarlo a trovare una sistemazione, io stesso l’avevo accompagnato da un avvocato che assiste gratuitamente le persone in difficoltà, ma si era presentato al colloquio completamente ubriaco. Non voleva andare a dormire dal parroco, diceva. Ma ci sono i letti, i materassi, il riscaldamento, insistevamo entrambi. No, dal parroco non ci vado… Ci stanno i negri.

Così non se ne era fatto nulla, era difficile fare qualcosa per lui, c'erano anche dei precedenti con una diffida a risiedere a Sondrio – roba da poco, aveva rubato dei farmaci durante un ricovero in ospedale. Soffriva di problemi cardiaci, un giorno ha avuto una crisi in un locale pubblico e l’hanno fatto uscire, temevano che gli morisse lì. Mia madre, vedendolo sdraiato su una panchina, gli si era avvicinata: Tutto bene? No. Può chiamare un’ambulanza, signora.

All’inizio mi piaceva parlarci assieme, avevo intuito che non sempre era sincero – raccontava di avere avuto tre bar a Chiavari, dieci dipendenti, una moglie, due figli – ma amavo la sua cadenza ligure, l’incrollabile fiducia dei giocatori d’azzardo che prima o poi sarebbero usciti i numeri vincenti. Non era nemmeno il fatto che mi chiedesse ogni volta dei soldi, ma il modo ingenuamente furbo come lo faceva. Così ero diventato un po’ sbrigativo: alla panzana che mi avrebbe raccontato, avevo già bella e pronta una panzana di segno uguale e contrario.

Negli ultimi tempi una donna l’aveva preso a vivere a casa propria, una donna più vecchia, sapevo solamente questo e che già era in pensione, lui aveva un anno più di me. Quando ne parlava coglievo un residuo di sincerità, non gli ho mai sentito dire la mia fidanzata. C’è questa donna, diceva, ci si dà una mano a vicenda.

Chissà perché, mi aveva fatto tornare alla mente l’ultima intervista concessa da Enzo Jannacci. Rispondendo a una domanda politica, il cantante, nel suo solito modo un po’ balbettante, aveva detto di non sapere più come collocarsi nell’arco parlamentare, ma che avrebbe voluto riuscire a essere come suo padre, mio padre aveva a cuore i poveri cristi – i poveri cristi, ha usato proprio queste parole.

Il Genovese alla fine era solo un povero cristo, forse anche la proprietaria di casa lo era, poveri cristi che si danno una mano a vicenda, non avrebbe potuto trovare un modo migliore per dirlo. È durata poco, dopo un anno era già morto. Continuava a bere, mi ha rivelato un altro povero cristo che frequenta il Bar Corona, i medici gli avevano detto di smettere ma lui, insomma, sai come era fatto... e ha mimato il gesto della mano che si porta il bicchiere alla bocca.

Tu sei andato al suo funerale? mi ha chiesto dopo un momento di contrizione un po’ teatrale. No, non lo sapevo, ho risposto. Nemmeno io, ha detto lui. Me la offri una Ceres?

lunedì 22 luglio 2024

Morire è come staccare una figurina

 

A volte ho l'impressione che morire sia come staccare una figurina dall'albo su cui era stata precedentemente incollata. Non so se qualcuno ci abbia mai provato, è difficilissimo! Ieri sera ho visto per la prima volta Il castello errante di Howl. Lo spirito della protagonista, Sophie, transita tra i vari involucri fisici che di norma si succedono in una vita – bambina, adolescente, giovane donna, matura, anziana, vecchia – qui scombinati rispetto all'ordine cronologico consueto. Penso a come sarebbe stata l'estate del 1982 con il mio corpo attuale. Avevo allora sedici anni e trovato lavoro come aiuto bagnino sulla spiaggia di Lacona, Isola d'Elba. Quando Altobelli segnò il terzo gol, nella finale dei campionati mondiali di Spagna, mi infilai nella Cinquecento color pomodoro di un certo Stefano, lui guidava e io stavo seduto sul tetto a sventolare la bandiera italiana, le gambe a penzoloni dentro il foro del tettuccio. Stefano intanto suonava il clacson, ammesso che così possa essere chiamato il vagito della sua Cinquecento, non il suono pieno che proveniva dalle altre automobili che incrociavamo diretti a Porto Ferraio, al primo spiazzo si raggrumavano in chiassosi vortici attorno a un nulla tangibile, lo stesso movimento che fa il torero prima di conficcare l'estoque tra le scapole dell'animale stremato, io sempre a sventolare il tricolore. Continuo a pensare al corpo che mi fa ora da inattendibile specchio, quasi un intruso (smagrito, pallido, i capelli diradati), con in mano quella bandiera, e dietro si profila la copia in scala diminuita appartenente al Circo Americano. Mio nonno mi ci aveva portato nella primavera del primo anno di scuola, quando puntuali arrivano le giostre insieme alle rondini; i cartelloni sgargianti del circo, a coprire il volto di politici democristiani col broncio, comparivano invece senza preavviso, alternandosi nell'estrema provincia settentrionale con grandi cetacei imbalsamati, acrobazie nella guida di motrici di autorimorchi, ma niente foto con il leoncino in braccio aveva sentenziato il nonno, si prendono i pidocchi; un cinquantottenne che sventola la bandierina in plastica del Circo Americano, che strana sensazione... Morire è come staccare una figurina dall'albo dei calciatori. Tutte le notti lo apro e mi ritrovo: giovane, forte, abbronzato. Anche bello, sì. A furia di stare in spiaggia ed entrare in acqua per noleggiare i pedalò, mi venne un ciuffo biondo che possedeva qualcosa di artificioso, sembravano i colpi di sole sulla folta chioma di John Taylor, il bassista dei Duran Duran. Avrei potuto capitalizzare il nuovo aspetto con le ragazze, ne osservavo i capezzoli con un desiderio misto a timore, la moda del topless aveva reso manifesto ciò che fino a poco prima era consegnato all'immaginazione, oppure ricavato dai film con Anna Maria Rizzoli e dai fumetti di Lando. La parte superiore del bikini pendeva inerme dalle stecche dell'ombrellone, non veniva occultata nella borsa da spiaggia assieme alla Settimana Enigmistica, un pacchetto di Muratti Ambassador, i tamburelli e la crema solare, il walkman azzurro della Sony aveva preso il posto delle biglie con l'effige dei ciclisti, poi alla ragazza veniva voglia di un Calippo e il costume era già lì, pronto per essere indossato. Chissà perché, all'interno del bar dell'Hotel Lacona (ma in fondo qualsiasi altro interno non faceva differenza), i capezzoli continuavano a essere dei minacciosi pungiglioni pronti a iniettare il loro veleno, mentre sulla battigia diventavano biberon. Collegavano il fuori col dentro le note delle canzoni che si irradiavano dal juke-box, Celeste Nostalgia, Just an Illusion, Tanz bambolina, Bravi Ragazzi, ma erano queste eccezioni rispetto ad Eye in the Sky, la vera colonna sonora dell'estate. Le sue basi elettroniche carezzavano la parata di bottiglie dei liquori, scavallavano il frigorifero dei gelati con la scritta Eldorado, uscivano dai due ingressi spalancati per monopolizzare lo spazio sonoro mescolandosi alla risacca del mare, dove si spegnevano provvisoriamente fino a quando un nuovo turista non infilava cinquanta lire: clic, il 45 giri viene agguantato delicatamente dal braccio meccanico per essere posato sul piatto, I'm the eye in the sky, looking at you, I can read your mind, I'm the maker of rules, dealing with fools, I can cheat you blind, and I Don't need to see anymore to know that I can read your mind, I can read your mind, I can read your mind... Non so se fu per via della frezza bionda, ma alla fine anche io limonai con una mia coetanea tedesca; più che i suoi capezzoli puntati su di me come l'indice dello zio Sam (I want you!), fu il piacere maschile di poterlo raccontare al rientro a Sondrio: Allora come sono le tedesche? mi avrebbero chiesto gli amici di fronte ai videogiochi del Bar Paninoteca Number One, a cui io avrei replicato con un'alzata di spalle molto blasé, tacendo sul fatto che la prima volta che due lingue si toccano scorre una corrente elettrica micidiale, simile a quella degli esperimenti con gli arti guizzanti delle rane. Morire è come staccare una figurina. Ma, cantava Caterina Caselli, si deve morire, almeno un po', per poter vivere.

sabato 20 luglio 2024

Son tutte belle le mamme del mondo, specialmente su Facebook

Son tutte belle le mamme del mondo, lo cantavano Giorgio Consolini e Gino Latilla al Festival di Sanremo del 1954, da loro vinto con Tutte le mamme. Che non sono solamente belle, ma, continua la canzone,grandi tesori di luce e bontà \ che custodiscono un bene profondo \ il più sincero dell'umanità.

Forse dovremmo iniziare a considerare la canzone popolare, insieme a quel generatore di figure gigantesche e luminose che irradia a partire dalle colline di Hollywood, l’equivalente su scala collettiva dei sogni e dei lapsus freudiani, a fare da specchio segreto in forma più attendibile che non nell’arte colta, troppo sorvegliata per poter mostrare la nudità del re.

Ma allora tocca prendere in considerazione anche una canzone del 1928, Balocchi e profumi, fu scritta da Giovanni Ermete Gaeta e da principio interpretata dal tenore Fernando Orlandis, a cui sono seguite decine di versioni – più celebre quella di Luciano Tajoli, ma strepitosa la maniera con cui Peppe Barra la trasformò in un pezzo di teatro d'avanguardia. Qui pure si parla di una mamma, ma non propriamente un tesoro di luce e di bontà, e poco importa che nel finale avvenga il cattolico pentimento, per renderla compatibile all'Italietta con rosario e moschetto. A rimanere in testa è il refrain: “mamma, mormora la bambina \ mentre pieni di pianto ha gli occhi \ per la tua piccolina \ non compri mai i balocchi \ mamma, tu compri soltanto i profumi per te."

Un’immagine di madre opposta e complementare a quella che emerge dalla canzone di Consolini e Latilla: vanitosa, egoista, o come suggeriva Lacan una madre coccodrillo che ingoia i propri figli, e per occultarne gli appetiti sparge profumo sopra al gesto di cannibalismo. Per la psicoanalisi la madre è questa e quella, non diversamente dal padre, a un tempo Crono e Odisseo, in un arco teso che coniuga gli opposti psichici, per quanto i singoli individui possano protendere da uno dei due lati.

Ma allora non è vero che i social network, almeno quelli di vecchia generazione come Facebook, sono un luogo in cui poter finalmente vuotare il proprio sacco, non possedendo un padrone (come nella stampa tradizionale) che stabilisce la linea editoriale ed è pronto alla censura. Sono piuttosto l’equivalente di un’altra funzione psichica che Jung chiamava persona, ossia maschera, dal nome che prendevano le maschere indossate dagli attori nel teatro greco. Io almeno non ho mai letto il post di una madre che scriva qualcosa del genere: “Ieri avrei dovuto acquistare i libri scolastici per mia figlia. Ma poi sai cosa ho pensato: ha già troppi libri, sta tutto il tempo a leggere. Massì, al diavolo, con gli stessi soldi mi sono presa l’ultimo profumo di Chanel  una vera favola!”

Anche Chiara Ferragni e Fedez, che pur nella separazione continuano a essere uniti dalla menzogna spettacolare, quando ci sono di mezzo i figli sono pieni di amorosa sollecitudine. La progressiva perdita di interesse dei giovani per i social orientati alla parola credo dipenda in buona parte da questo: attraverso la scrittura è più facile travestire le emozioni primarie (sedurre, essere sedotti, ossia transitare tra le opposte polarità di un desiderio che non ammette interferenze, quali i figli rischiano di essere), in una messa in scena del privato che è più scena che privato; e questo non è necessariamente negativo, mantenere delle zone psichiche in ombra evita la dispersione del nucleo centrale con cui ci identifichiamo. Un paravento chiamato discrezione, un tempo era la virtù borghese per eccellenza.

Ma borghesia e gioventù non sono mai andati troppo d’accordo, ed è tratto comune alla gioventù l’essere devoti a ciò che viene percepito come vero – la propria verità, ovviamente. Loro la cercano, e a volte la trovano, più nelle immagini che nei testi; nei selfie ad esempio, secondo l’antico adagio che il corpo non mente. Ma anche nelle parole delle canzoni indirizzate al mercato giovanile ci sono verità a cui noi abbiamo smesso di prestare ascolto, considerandole oscene. Nel tormentone musicale dell’estate, Tony Effe ci comunica che “vengo da Roma centro, è pazza del mio accento \ vuole un figlio con me solo per farlo ricco e bello \ sto contando milioni, mi dispiace, non ho tempo.”

Viene un dubbio… non sarà l’equivalente attualizzato e coniugato al maschile di Balocchi e profumi?

Se anche Tony Effe avesse un figlio – certamente fatto ricco e bello come la matrice originaria, nel rap ogni pensiero deve trovare piena espressione, non sono ammessi impliciti e giri di parole, al bando la discrezione – ci dice che non avrebbe tempo per lui, per lei, per nessuno. Come la mamma del 1928, impegnata ad acquistare profumi e non balocchi per la propria bambina, il padre virtuale che si impone sull'estate 2024 è impegnato a contare milioni. Non mi pare sia cambiato molto.

Poi possiamo anche dire che tutto ciò ci fa schifo, ma se non altro è uno schifo vero, uno schifo autentico, basi ritmate nuove per vecchi sentimenti. O per essere più precisi: il riflesso di quel composto di luci e ombre che da sempre va a comporre l’umanità; più ombre che luci in effetti, almeno nei tempi ombrosi in cui per nominare una borsa da donna si usa la metonimia del brand  "seh, metti tutto nella Prada" continua Tony Effe, "ti porto con me in una villa a Copacabana." Ed è qui che incontriamo lo scarto epocale con la cassettina in periferia, da combinare con una mogliettina giovane e carina, agognate da Gilberto Mazzi in un'altra canzone del ventennio.

Al primo dubbio ne segue a questo punto un altro, e cominicio a sospettare che quella che incontro verbosa sui social (e di cui faccio parte) non è l’umanità, ma una sua versione riveduta e corretta a fin di bene, ben figurare nella fattispecie, come i baci tagliati nei cinema parrocchiali durante gli anni Cinquanta. Un rimosso che emerge e travolge il protagonista nella sequenza finale di Nuovo Cinema Paradiso. La nuova domanda così diventa: quanti baci rubati dal parroco ci stiamo perdendo perdendo tempo sui social? Speriamo che anche a noi, prima o poi, qualcuno li restituisca…

giovedì 18 luglio 2024

Ci vuole un fiore

All’angolo del condominio in puro stile anni Settanta accanto al mio, da un paio di anni hanno aperto un negozio di parrucchiere. È gestito da una donna cinese sulla cinquantina, naturalmente non è molto alta e ha i capelli lisci e neri e gli occhi a mandorla; a differenza della letteratura, la natura non disdegna gli stereotipi. Il suo nome è Anna, o così almeno si fa chiamare, un’altra pratica diffusa tra i cinesi, come se noi trasferendoci in Svezia e ci facessimo chiamare Björn.

Mia madre va sempre da Anna a farsi fare i capelli, le ha portato anche molte amiche ("Si spende poco" è l'argomento definitivo con cui le convince), e la sua gratitudine si è trasformata nel tempo in un rapporto di confidenza e simpatia, in seguito esteso a me per via dei cani – entrambi possediamo dei cani, non è vero dunque che i cinesi mangiano i cani, non sempre almeno, giocano assieme ai giardinetti. L’ho incontrata lì anche oggi, ai giardinetti di fronte alla piscina con il suo cane, un incrocio tra un bassotto e un terrier: il corpo oblungo e il pelo ispido, si ostina a pettinarlo come fa con le clienti. Abbassando il tono della voce mi ha domandato: “Sai chi essele uomo di cinquantatle anni molto ieli?" Io non ne sapevo nulla e ho fatto spallucce. Lei ha aggiunto: "Abitava in mio condominio.”

Più tardi, parlando con mio padre, ho scoperto che si trattava una persona che conoscevo, come quasi sempre accade nelle piccole vie dei piccoli centri. Non un amico, per quanto ci si salutava all’uscita dall’alimentari chiuso all'arrivo del nuovo supermercato; prima ciao – da ragazzi – e una volta cresciuti si è trasformato in un più sussiegoso buongiorno, con i Sofficini Findus da correre a mettere in freezer. “Io volele mandale fioli alla familia”, ha ripreso Anna quando sono sceso per comunicarle l’identità della vittima, si tratta di un incidente di montagna. “Tu non mandale fioli?”

Una domanda che mi ha preso alla sprovvista – dei fiori…? Boh, da noi non si usa, ho pensato, mandare fiori a persone solamente intraviste nell'arco di mezzo secolo, un campo visivo in cui occupavano la periferia. In Cina evidentemente la pensano in modo diverso. Non importa se non conosci la mano che li afferrerà, le narici in cui penetrerà il profumo del crisantemo così simile alla camomilla, ma più agrumato. Il fatto di abitare entro le stesse mura perimetrali lo prevede, forse perfino impone, rappresentando il primo nucleo di quell'edificio esteso che si chiama confucianesimo.

Quando sento paventare l’invasione cinese, d’ora in poi mi verranno in mente i fiori di Anna – certo, c’è anche l’invasione del Tibet e altre beghe poco edificanti, ma le comunità umane esistono fin tanto che qualcuno ti riconosce come parte di un tutto, a cui si cerca di dare forma di giardino. Cantava Sergio Endrigo, su testo di Gianni Rodari, che “per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare il legno ci vuole l'albero, per fare l'albero ci vuole il seme, per fare il seme ci vuole il frutto, per fare il frutto ci vuole il fiore…”

Nel mio orizzonte psichico i fiori sono però destinati a un numero limitato di persone, non arrivano a coprire le dita di due mani. Il resto è convivenza, perlopiù subita, non comunità. E cioè terra arsa da concedere volentieri ad altri perché la possano bonificare, pazienza se non sanno pronunciare la erre di ramarro. Per fare tutto, sì, ci vuole un fiore.

martedì 16 luglio 2024

Un Premio Strega al giorno leva la morte di torno


Ho notato che quando sui social non si offre un tema del giorno – può essere il Festival di Sanremo, un’importante manifestazione sportiva come i campionati europei di calcio, oppure la pubblicazione, da parte del New York Times, di una classifica letteraria in cui svetta un titolo italiano (giudizio accolto dalla maggior parte degli utenti della mia bolla con ligure mugugno), o ancora la gaffe di un politico a caso, vanno bene anche risultati di elezioni e vittime "collaterali" di un altro conflitto a caso, di cui scordarsi il giorno successivo incalzanti da nuovi spunti per dire la propria – in quei giorni di magra, dicevo, il famigerato algoritmo diffonde post di compleanni e matrimoni, commosse parole accompagnano la morte di persone o animali amati; non molto diverso il format tra un cocker spaniel e il vecchio zio che era stato compagno di scuola di Tarcisio Burgnich, a ogni ricorrenza famigliare lo ricordava a fine pasto, una punta di vibrato nella voce. È come se l’accadere di eventi reali spesso dilatati nella percezione degli stessi – resta infatti da capire se un cantautore incanutito dedito al revenge porn sia davvero un evento... – finisse col sospendere l'esperienza del tempo biografico, con i suoi lutti, le sue gioie e intermedi stati d'animo, sostituita da una repentina alternanza tra tigna rabbiosa e garrulo sarcasmo; in ogni caso, sempre meglio del nulla che si intravede al termine della sabbia dentro la clessidra, controfigurazione occidentale del nirvana. E così, pensavo, per realizzare il mito transumano di vivere in un eterno spensierato presente, sarebbe sufficiente istituire un Premio Strega per ogni giorno dell’anno.

mercoledì 10 luglio 2024

Tronchi e pagliuzze e donne cannone, ancora sul caso di Alice Munro

E poi, ecco, mi torna all'improvviso in mente una vecchia storia di tronchi e pagliuzze, da non vedere – i primi – nei propri occhi, mentre giganteggiano le seconde in quelli degli altri.

Era il 1988, io avevo ventidue anni e una relazione con una donna di sette anni più vecchia di me. La cosa mi inorgogliva parecchio, e nel parlare con i miei coetanei cercavo di introdurre quel dettaglio anagrafico: "Sto con una donna matura" rispondevo a chi mi chiedeva se fossi fidanzato; in realtà lo dicevo anche a chi non chiedeva – sotto testo: "Non come voi che andate a letto con ragazzine scipite."

Ci vedevamo raramente, al termine di un intenso amore estivo lei era tornata nella città lontana dove aveva un lavoro, io frequentavo ancora l'università. Oltre allo scambio di lettere scritte su carta rosa o azzurrina, svelte telefonate in teleselezione, mi raggiungeva a Sondrio almeno una volta al mese, magari aggiungendo qualche giorno per i ponti festivi. Durante una di queste visite mi aveva portato un profumo appena uscito, era contenuto in una boccetta color porpora e odorava di mirra, violetta e buco del culo di castoro.

“Grazie grazie” avevo detto sbrigativamente, lei forse si attendeva maggiore entusiasmo – se non altro per rispetto verso i castori, da cui veniva estratta una preziosa essenza chiamata castoreum – ma ero tutto preso dall'organizzazione di uno spettacolo tratto da un testo di Cechov; non recitavo ancora, ma mi ero improvvisato nel ruolo di impresario teatrale.

La sera della prima, oltre alla mia compagna, erano venuti a teatro anche mia madre e l'uomo che frequentava; un bell'uomo devo riconoscere, somigliava un poco a Raul Gardini, e come lui consapevole dei denti bianchissimi da esibire come il gran pavese sul veliero. Unico problema, era sposato. Io stavo dunque tra le quinte, e Manuela, così si chiamava, si era seduta in platea assieme a mia madre e a Raul Gardini. Lui aveva voluto pagare per tutti, anche se io avevo offerto tre biglietti omaggio.

Il giorno successivo Manuela mi prende in disparte, e dice con voce grave: "Sai cosa ha fatto ieri sera quel porco?"

“Quale porco?”

“Il trombamadri, dai, hai capito…"

"Cosa ha fatto?"

"Durante lo spettacolo mi ha infilato una mano tra le cosce."

"Ma sei sicura che voleva fare proprio quella cosa lì?"

"No, stava cercando l'accendino.”

"Ok ok, scusa. E tu?"

"Gli ho cacciato le unghie e rispedita sul bracciolo. Non volevo che tua madre si accorgesse di nulla."

Ho scordato cosa risposi alle ultime parole, probabilmente feci come con il profumo. Qualche anno dopo venni a sapere che il porco, sì, insomma, l'uomo di mia madre, aveva molestato due minorenni; i giornali locali non davano dettagli, ma parlavano di bambine con meno di dieci anni. L’età della figlia di Alice Munro quando è stata violentata dal patrigno.

Fortunatamente, la relazione con mia madre era già terminata da un pezzo, e anche quella con Manuela. A parte una generica sensazione di nausea, non dissi nulla. Solo un altro piccolo colpetto di scopa a nascondere la polvere sotto al tappeto.

Però oggi mi chiedo: se quando qualcuno – un intruso, un imbucato alla festa senza invito –, aveva cercato l’accendino tra le cosce della mia donna io mi fossi comportato diversamente? Avrei potuto affrontarlo, magari dargli due schiaffoni, non sarebbe stato meglio? Certo, in quel caso non c'era stato stupro, Manuela non aveva nove anni ma, come vantavo di fronte ai miei amici, era una donna matura, la lingua pronta e svelta dei toscani. Eppure rimane questo desiderio di rimuovere il perturbante, girare lo sguardo dall'altra parte.

In fondo, cosa c'è di più bello del difendere la dignità delle persone a cui si vuole bene? Tra l'altro, a quel tempo mi allenavo in palestra, praticavo arti marziali, avrei potuto infrangere il suo sorriso da copertina di Class, affondare il veliero con cui pensava di poter solcare qualsiasi mare. E invece niente.

Non voglio dire che quegli schiaffoni avrebbero dissuaso l’uomo dalle successive molestie, ma era la cosa giusta da fare, do the right thing, come dicono gli anglosassoni. O forse no. Avrei così rovinato l'amore tardivo di mia madre, poco importa se illusorio: di quale amore possiamo dire con certezza che sia pienamente realistico?

E poi anche Manuela – colpo di scena! – era a quel tempo sposata, ecco la ragione di telefonate sempre brevi e furtive, mai che fossi io ad andarla a trovare nella casa dove viveva con il marito. Una storia piena di ombre e compromessi, dove bene e male, giusto e sbagliato non raggiungono mai un punto di equilibrio (ci sono cattivi più cattivi di altri, e buoni più buoni), ma nemmeno si separano nitidamente come avviene nelle pellicole hollywoodiane.

A volte, nei titoli di coda di quei film è presente un espediente simile al tasto che nel pianoforte prolunga la nota, e alla parola fine si accompagnano brevi indicazioni sulle sorti dei personaggi. Partiamo dunque dal porco, che è morto dopo pochi anni di tumore alla prostata. Morta anche Manuela, a cinquant'anni, di infarto. Mia madre ora va tutte le mattine al bar Meetic con le sue amiche e le loro badanti, il resto del tempo lo trascorre a vedere i politici che litigano in tivù; non sono certo che capisca tutto ciò che dicono, anche se il volume è a palla.

Quanto a me, a parte tentare di curare una neuropatia che ha deciso di trasferirsi nel mio corpo – il nostro corpo dunque, più suo che mio – mi sento come un personaggio dello spettacolo che avevo organizzato nel lontano inverno del 1988, si era appena concluso il Festival di Sanremo celebrando la vittoria di Massimo Ranieri con Perdere l’amore. Prima che cali il sipario c’è sempre qualcuno che apre o chiude un ombrellino, dicendo La vita se ne è andata...

Penso così alla vicenda della figlia di Alice Munro con infinita pena. Come allora non seppi alzare la mano per dare uno schiaffo, ora non riesco, di più, non voglio levare il mio indice accusatorio e puntarlo contro la scrittrice canadese. Mi limito a osservare la polvere emersa da sotto il tappeto dei ricordi, concludendo che forse solo la donna cannone è riuscita buttare il suo enorme cuore tra le stelle, e a farlo scintillare di fronte ai maligni e ai superbi.

Ma era una canzone, era fiction, come le parole che scriveva Alice Munro, di cui i fatti ora emersi non intaccano il valore. Il punto non consiste infatti nell’impresa impossibile di separare la vita dall’opera, e piuttosto nel riconoscere una biforcazione: l’autore va verso la vita come può, il racconto come deve. Ma la sostanza è la medesima – ambigua, vischiosa, disperata. In una parola: umana.

martedì 9 luglio 2024

Alice Munro e i pensionati del Bar Corona

 

Sotto casa mia c’è un bar, piuttosto sciatto, su cui campeggia un'insegna luminosa rossa con la scritta Bar Corona. È gestito da una giovane donna cinese separata che si fa chiamare Monica; ho provato a chiederle il vero nome, ma ho capito che non ha tanta voglia di dirlo.

In ogni caso, Monica è molto simpatica. Ogni volta che la incrocio mentre porto il cane a fare pipì ai vicini giardinetti, riesce a fare, contemporaneamente, due cose per le quali gli snodi mandibolari caucasici non sono attrezzati. Mi sorride e intanto dice: “Ciao calo, ciao calo, salutami la mamma”, che ogni tanto si ferma lì a bere un caffè con la sua amica Luisa. Un giorno le ho chiesto se potevo fare recapitare al bar i pacchi di Amazon, almeno quando sono fuori casa. “Celto calo, celto calo, salutami la mamma” ha risposto Monica.

Questa mattina sono passato al Bar Corona a ritirare un paio di ciabatte ordinate su Amazon, trovando i soliti clienti: quattro pensionati, giocano a scopone divisi in coppie, consumano poco; un tizio sempre incazzato e vagamente tossico infila monete a ripetizione nel video poker; due ventenni kosovari al bancone, si dividono con millimetrica precisione una Ceres. Più in là, Lorenzo sorseggia il suo immancabile bianco, ride da solo, mentre un terzo kosovaro sta seduto fuori a fumare assieme al Venezia, così ovviamente chiamato per la sua provenienza.

Colgo i loro discorsi, stanno parlando – pensionati compresi – di quello che è successo ieri sera al bar. La moglie di un medico si è chiusa in bagno con uno dei kosovari, non ho capito quale, e gli ha fatto un lavoretto. Usano proprio questa espressione, lavoretto, a parte il Venezia che dice ghe te ta sboro. Lorenzo lo sente e inizia a ripetere: “Ghe te ta sboro, ghe te ta sboro”, e continua a ridere da solo.

Domani immagino che al Bar Corona ci sarà un nuovo argomento del giorno, ma oggi è questo, ghe te ta sboro. Come sono diversi da me, penso. Come sono uguali a me è il pensiero successivo. Il mio Bar Corona si chiama Facebook e oggi si parla di Alice Munro. Cosa faccio, non partecipo, non aggiungo la mia goccia di nulla al mare di niente? Massì, qualcosa mi inventerò… e comincio a scrivere.

Non credo che al Bar Corona, quello vero, sappiano chi sia Alice Munro, e cosa è successo alla figlia. Ugualmente, dubito che tutti i miei contatti Facebook conoscano il piacere clandestino offerto dal lavoretto della moglie matura di un medico, un noto nefrologo se non sbaglio. Ognuno dentro il suo mondo, ognuno con le proprie carte da giocare, Settebello, scopa! O in alternativa, costruire castelli che al primo soffio il vento spazzerà via.

A renderci simili e umani il gusto nel farci i cazzi degli altri. Non c’è niente di male, è così che nasce il senso di appartenenza a una comunità: nel pettegolezzo di cui la letteratura è solo una forma più articolata e dotta, mentre per altri il luogo in cui fondare la propria individualità. È l’una e l’altra cosa, lo so che sono in contraddizione, la letteratura sta forse nell’arco testo tra questi opposti inconciliabili.

Poi ritiro il pacco con le mie ciabatte dalla suola in sughero – “Ciao calo, ciao calo, salutami la mamma” ripete Monica – e rientro a casa con il cane.