Ancora sul Grande Fratello Vip, che per la prima
volta sto seguendo per la presenza del mio amico Fulvio Abbate. Oltre a lui ci sta
un tizio a me ignoto; si chiama, leggo, Tommaso Zorzi e fa l'influencer. Da
quel che ho capito di questo tempo, un influencer non è qualcuno che influenza
gli altri in una direzione per così dire edificante – quello è l'intellettuale organico, avrebbe detto
Gramsci, oppure il Maestro, il santo, il guru –, ma, al contrario, chi riesce a
intercettare un sentire diffuso e basso facendogli da specchio deformante, fino
a trasformarlo in cultura, ovviamente pop.
C'è dunque questo pop influencer che è dichiaratamente
omosessuale. Ora l'omosessualità è essenzialmente due cose: una pratica (avere
rapporti sessuali con altri uomini) e una percezione interiore, che si traduce
in atteggiamento pubblico. Ossia, nuovamente, cultura.
La cultura omosessuale ha alimentato alcune tra le
personalità più rilevanti di tutti i tempi, di cui evito il catalogo per limiti
di spazio. A tale cultura complessa e ricca e certamente eversiva – è in gioco
la rottura di un tabù ancora più radicato dell'incesto: quello della
riproduzione – la società ha reagito con un tentativo, riuscito, di
normalizzazione, che passa attraverso lo scherno, la parodia, le barzellette,
confluiti dentro la rappresentazione ilare degli omosessuali nelle commedie
cinematografiche, come il gioco di parole "occhio fino" pronunciato
da Gassman ne Il sorpasso. Ne è uscita una caricatura dell'omosessualità, in
particolare maschile, a cui molti omosessuali hanno finito con l'adeguarsi
(credo per pigrizia o convenienza) e di cui il concorrente del GF Vip è la
sintesi macchiettistica, ricevendo il testimone da quell'altra macchietta
omosessuale che è Cristiano Malgioglio; non a caso anch'egli concorrente della
stessa trasmissione.
Ciò che mi stupisce non è dunque il gesto della cultura
mainstream di parodiare, per zittire, la controcultura omosessuale, ma il
pressoché totale silenzio di quest'ultima, quasi l'accettazione, la condiscendenza,
la resa. Da eterosessuale assai poco orgoglioso della mia condizione, mi auguro così un moto di rivolta interno da parte
degli omosessuali, come quello dei commercianti siciliani nei confronti della
mafia.
Io non posso dirlo e non lo dirò, ma se sentissi un
omosessuale chiamare "frocio", "finocchio",
"ricchione" o, con più precisione lessicale, "checca"
Tomasso Zorzi, non solo non mi indignerei ma ne sarei quasi contento. Perché
saprei che non sta stigmatizzando un comportamento e neppure un sentire altro, ma la sua conversione grottesca
dentro la narrazione popolare, che con quei termini volgari e squalificanti
vorrebbe comprendere tutta la galassia omosessuale. Sarebbero insomma parole
boomerang, partorite dal peggiore conformismo piccolo borghese che, a un altro
conformismo a esso speculare, ritornano con gli interessi.
O per dirla con le parole di un omosessuale che
seppe non farsi ridurre a bomboniera kitsh, "beato chi è diverso / essendo
egli diverso, / ma guai a chi è diverso / essendo egli comune".
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