domenica 30 aprile 2017

Freedom & Cola, o sul godimento senza cimento



Il 28 ottobre del 1886 possiamo immaginare che a New York fossero già arrivati i primi freddi. Riusciamo perfino a sentire il vento che soffia, e si infrange su uno scoglio, o poco più, che affiora dalla corrente gelata del fiume Hudson, al centro della baia di Manhattan. Intanto, dalla costa, la folla intirizzita osserva nella stessa direzione, mentre il grande telo finalmente libera la sagoma ricoperta da giorni. Nessuno l'aveva ancora vista prima d'ora: un'enorme trionfale supposta, che leva al cielo il braccio a contenere una supposta più piccina. La Statua della Libertà. L’evo contemporaneo, si dice, inizia in quel preciso momento. "Miiinchia!" devono aver sussurrato i guaglioni, i giovani carpentieri siciliani a quell'apparizione.
Pochi però sanno che nello stesso anno, ad Atlanta, Georgia, il farmacista statunitense John Stith Pemberton mette a punto la ricetta di un efficace rimedio digestivo. La Coca-Cola.
Se colleghiamo come in un arco voltaico i due fatti, possiamo vedere la scintilla, la miccia che ha illuminato il secolo e mezzo appena trascorso, e che così potremmo forse sintetizzare: la libertà, o meglio una nuova e diffusa licenza. Quella di mangiare qualsiasi cosa in qualsiasi momento, inaugurando l’epoca della digestione infinita.
Pensiamo ai ricordi infantili in cui sempre più spesso ci rifugiamo. Abbiamo tra le mani un dolcetto, un ghiacciolo rosso, una focaccia. Ma è anche l'interminabile canicola del meriggio estivo, i nostri genitori ancora giovani, oscenamente giovani mentre sonnecchiano o fanno le parole crociate sotto l'ombra verticale dell'ombrellone, quasi fosse il perimetro di un sogno. Un sogno all'interno del quale anche noi siamo confinati, chiusi, imprigionati in quello che ci sembrava l'anticamera rovente della vita; dai nonna, almeno tu dammi il permesso... Niente da fare: dall'una alle quattro, nel periodo della digestione, era assolutamente vietato fare il bagno. La digestione, prima di tutto viene la digestione!
E così in automobile, o in pullman, nelle gite della parrocchia al Sacro Monte di Arona, per risalire in piccoli gruppi dentro le viscere metalliche del Sancarlone, anche lì c’era sempre qualcuno che prima diventava bianco, poi  giallo e quindi iniziava a vomitare sul sedile del bambino davanti. Perché non aveva digerito, si diceva.
La digestione è insomma stato uno dei temi principali del secolo appena trascorso, o perlomeno della sua seconda metà. Con Nicola Arigliano che faceva capolino dal Carosello del digestivo Antonetto, e schiacciando l'occhio aggiungeva"Lo potete prendere anche in tram."
Una circostanza che può essere vista, metaforicamente, come lo sforzo nell’elaborazione del dissimile, a cui ci si era iniziati ad accostare per la contrazione geografica che segue all'espansione tecnica (i confini nazionali si fanno sempre più piccoli e angusti, e con quelli le certezze culturali) o per semplice curiosità. Poi però più nulla, negli anni recenti nessuno sta più male in auto, il bagno si fa a qualsiasi ora. E' come se lo scibile fosse divenuto immediatamente assimilabile, predigerito.
Negli scorsi giorni cercavo il Diger Selz nel supermarket sotto casa mia. “Mah, prova a guardare nel reparto delle bibite…” mi dice la cassiera col nasino all’insù e le cosce che gonfiano jeans troppo attillati. “No no, cerca vicino alla maionese”, mi dice un altro. Macché, neppure lì, non si trovava questo stramaledetto digestivo. “E’ che ne vendiamo talmente pochi”, ammette mestamente il direttore che era stato nel frattempo consultato.
Ma se tutto è diventato digeribile, se la digestione non rappresenta più un problema, tocca concludere che non c’è nemmeno più nulla di indigesto, ogni cosa è diventata compatibile con la nostra arcaica biologia.
E invece non è così.
Nello stesso supermarket facevo caso al fiorire di scomparti con il cartello gluten free, le mozzarelle vengono suddivise tra normali, scremate e senza lattosio, i dolci sono presenti anche nella versione senza zucchero, dolcificati con l’aspartame. Perfino la Coca-Cola si separa in classica, verde, dietetica e oro, che significa senza caffeina. 
L'universo alimentare è come se avesse subito un impulso centrifugo, un big bang da cui si protende e frantuma in infinite sottocategorie, a cui minuscoli comparti umani sono rispettivamente attratti oppure avversi. 
A me sembra dunque che ciò che è avvenuto nell’ultima manciata di anni sia essenzialmente questo. E’ stato progressivamente rimosso l’attrito con le cose, la fatica, lo sforzo per la loro assimilazione. Ciò che non è a immediata portata dei nostri enzimi, dei nostri sensi, delle capacità di elaborazione critica e gastronomica, viene preventivamente rigettato. Un pasto senza la fatica della digestione, esperienza al netto del preambolo dell'inesperienza, con l'apprendistato che ne consegue. E in qualche modo anche la diversità – la cucina etnica, ad esempio – viene ricomposta dentro la figura dello stereotipo, che attenua la novità dentro la salsa dell’ovvio.
Ed è così che i ristoranti giapponesi sono gestiti da cinesi (tanto hanno sempre gli occhi a mandorla), mentre i giovani filosofi vengono chiamati in tivù solo se abbronzati e in completo Hugo Boss, e poco male se stigmatizzano sdegnati la globalizzazione turbocapitalista. Gioco delle parti, si potrebbe chiamare. Ma lo show è sempre quello.
Ciò che risulta è un mondo più facile e leggero, anzi light. Che non significa liquido, come ha suggerito qualcuno, al contrario: la realtà viene compartimentata in scaffali incomunicanti e sempre più specializzati nell’offerta, che in ultima analisi si risolve in una soltanto. Il godimento senza cimento.
Io mi limito ad acquistare una bottiglia di Fernet Branca, va bene così, non importa se non si trova il Diger Selz, grazie lo stesso. La cassiera con il nasino e le cosce grosse mi sorride quasi a volersi scusare. In un’altra occasione, un altro mondo, a un'altra età, l’avrei probabilmente invitata e bere un goccetto di Fernet assieme a me. Ma mi accorgo di aver fatto il mio tempo, quello della digestione.

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