giovedì 23 marzo 2017

Moon Boot, o sulla nostalgia



La nostalgia è un sentimento negativo, così almeno suggerisce una lunga tradizione. Però è una parola bella. Viene dal greco nostos, ritorno, a cui si è aggiunto il suffisso algos, a indicare la sofferenza. Sofferenza del ritorno, in pratica. Dove però non si dice se il patimento sia dovuto al viaggio o alla sua difficile realizzazione, dunque al desiderio.
Il modello originario è il ritorno di Ulisse verso Itaca, che è sofferto nei due sensi: desiderio e travaglio. L'essenza dell'epos sta in fondo tutta qui, nell'intreccio di questi termini. Ma non sono meno epici i nostri piccoli o grandi ritorni.
Alle scuole elementari ad esempio, quando le ho frequentate io, ritornare a casa dopo una nevicata era sempre un’avventura. Non venivano i genitori a prenderti con l’automobile sul portone, il più vicino possibile, non si deve rischiare alcuna sofferenza per i nostri cuccioli, questo è il verbo attuale. Allora era diverso: Telemaco, già da subito, veniva lasciato navigare. L’unica eccezione avveniva per Rita, una ragazzina pallida e minuta con gli occhiali dalla montatura spessa, che era nata con il cuore a destra.
Il padre era un dirigente della Standa, un folto barbone scuro che lo rendeva simile a Gigi Vessicchio. Normalmente era la madre a venire a prendere Rita, ma, quando nevicava, si presentava lui a bordo di un'Alfa Romeo rossa. Era la sola automobile che sostava di fronte alle vetrate delle scuole di via Vanoni: il rombo cupo, la vampa vermiglio della Giulia Coupè nel silenzio bianco e ovattato tutto intorno.
Erano i primi anni settanta, Neil Armstrong aveva da poco posato il suo piedone yankee sulla luna, e forse per questo si era diffusa la moda di indossare degli strani doposci: i Moon Boot.
Tornare a casa con i Moon Boot – enormi, caldi, sofficissimi – era davvero come calcare il suolo lunare, e la città avvolta dalla neve acquistava forme nuove e impreviste (ricordo ancora il musetto esterrefatto del mio cane la prima volta che vide la neve, a cui seguì la gioia scomposta e arruffata nel rotolarsi tra i fiocchi che ancora stavano cadendo. Beh, la nostra espressione non doveva essere tanto diversa.)
Appena arrivati a casa i Moon Boot venivano sfilati su un tappetino di cotone intessuto in lunghe liste, quindi messi ad asciugare sotto il termosifone di cucina. A quel punto, iniziavano a rilasciare un odore – misto di neve, umidità, terra, plastica, nylon, metallo bollente e Natale, sì, Natale – che chiunque abbia vissuto quegli anni non potrà fare a meno di ricordare. Con nostalgia.
Trascorse una manciata di anni e i Moon Boot sparirono completamente dal nostro orizzonte, seguendo lo stesso rapido oblio delle mode estive sulle spiagge: il frisbee, le palline clic clac, il Going. Già alle medie, l’unica a indossare ancora i Moon Boot era la professoressa di matematica, la temutissima Mevio, ma in una loro versione pelosa e vagamente cavernicola, che rimava con le prime Range Rover. Degli scatoloni gommati senza altro merito di costare un mucchio di soldi, a vomitare torme di milanesi con l’erre moscia tra Bormio e Cortina, i Rossignol conficcati nel portasci come stuzzicadenti in trattoria.
Appena raggiunta la scrivania, la Mevio, con un gesto lento che voleva forse essere erotico o vezzoso, si sfilava i suoi Moon Boot, come a dire "io posso e voi invece no". Quindi, alla maniera di barboncini fradici, li posava anche lei a ridosso del radiatore che costeggiava l’aula sotto al finestrone da cui si scorgeva la palestra, dove iniziavano a rilasciare il solito cocktail di odori – un'esalazione orizzontale mi viene da aggiungere: lenta ma implacabile nel raggiungere le narici, da cui non si scostava più. Come un fiume di fango senza fango, ecco.
Nel frattempo, il padre di Rita doveva avere venduto la sua Alfa Romeo rossa, non la vedevo più in giro, Sondrio è una città piccola, nulla sfugge. O forse era lui a essere sparito, promosso alla direzione della filiale di una città più grande e dunque importante, dove l’aveva raggiunto la sua bambina con il cuore a destra, che continuava ad accompagnare a scuola per proteggerne i ritorni, nostos, come un vecchio orso col suo orsetto.
Con il padre di Rita mi sembra che si arrestino, alle elementari, anche le immagini di tutti i genitori dei miei compagni di scuola: la madre di Cinzia, che puliva ogni briciola prima che cadesse, il padre di Federico sempre in tuta e di corsa, op op op, o quello di Claudio, un po’ guascone, in contrapposizione alla svagata timidezza del figlio. Sì, con la fine delle elementari finisce anche la memoria dei genitori.
Probabilmente è per via del fatto che, dalle medie in poi, oltre a chiamarsi per cognome e non più per nome di battesimo segno di maturità raggiunta: il gens sociale che scalza l'identità fanciullesca veniva interrotta anche la lunga stagione delle merende, e le amicizie cominciavano a essere consumate nei cortili, per strada, sulle piste di pattinaggio e nei campetti. I genitori diventavano allora delle semplici nozioni, con il gruppo che si prendeva tutta la scena.
Una sola eccezione, anche qui: la madre dell’Acquistapace. Come la figlia, era di una bellezza che a incrociarla il cuore mancava tre o quattro battiti, ma dopo quell'incontro ne avresti voluto un altro, poi di nuovo, lo stesso che con le ciliegie, e un altro ancora. Perché vedere la madre dell'Acquistapace era come vedere il progetto realizzato della figlia. C’era solo una mutazione di tempo, e di scala.
Per raggiungere l'edicola in via Toti degli Acquistapace dovevo traversare in bicicletta tutta la città ("passavo di qui… " fingevo naturalmente), ma non so davvero se ci andassi, il cuore in gola, la pedalata svelta, nella speranza di incontrare la figlia oppure la madre. So solo che, nella maggior parte dei casi, ci trovavo il padre, e me ne uscivo stringendo un giornale da depositare nel primo cestino che incontravo: Il Giorno, La Notte, Il Corriere della Valtellina... Chissà perché mi vergognavo a chiedere l’ultima copia di Zagor (Zagor contro il vampiro l'ho letto otto volte), che era l’unica pubblicazione a interessarmi per davvero.
In quel periodo ci diedero un tema sui nostri genitori. Non ricordo cosa scrissi, probabilmente me ne sarò stato tutto il tempo guardando, ma senza essere visto, in direzione del banco della mia musa, in attesa di una qualche ispirazione da quella ragazzina con gli occhi grandi e azzurri, che mi ricordava tanto, troppo, il mio primo grande amore: Maria Giovanna Elmi, l'annunciatrice televisiva dall'aspetto candido e senza tempo, ribattezzata per questo Fatina bionda. 
Continuavo a fissare l'Acquistapace con lo sguardo sempre più annebbiato e confuso. Nel lasso di ogni mia incertezza, lei riusciva a riempire tre o quattro fogli senza neppure un errore di ortografia, il capo chino e l'espressione seria e determinata, quasi cocciuta. Poi, anch'io, avrò buttato giù le solite sei o sette righe di pedante e generica ampollosità, orecchiate da qualche programma televisivo. Voto della Cozzini dal cinque al sei, ci puoi scommettere. Tanto la più brava era sempre lei: l'Acquistapace.
Al momento della consegna il tema migliore era però risultato essere quello dell’Orvieto, a cui venne chiesto di leggerlo davanti all'intera classe, che si girò esterrefatta in sua direzione. E come nel coro greco uscì dalle nostre teste un unico fumetto a forma di nuvoletta: "L’Orvieto?!"
Di norma, l’Orvieto, un ragazzone solido e taciturno di famiglia umile e contadina, navigava nei miei stessi mari, forse la sua barchetta scolastica aveva perfino qualche falla in più. Come è possibile che proprio lui scrivesse il tema più bello, meglio addirittura di quello dell’Acquistapace, al punto che la Cozzini gli consegnasse il podio più alto?
Eppure, nel parlare di suo padre, aveva saputo cogliere con grazia non retorica gli sforzi fatti per la famiglia, la dignità sobria e laboriosa, la silicosi guadagnata nei lunghi anni in miniera. Ma per farne rivivere sulla pagina la figura aveva dovuto nuotare il fiume del tempo all'incontrario e, come un salmone innamorato, depositare le sue piccole uova alla sorgente. Ed è ancora nostos.
Mi ero quasi dimenticato di quel tema dell’Orvieto, se non me l’avesse ricordato l’Acquistapace. Sì, proprio lei, la bellissima, la bravissima, la fatina bionda della terza effe! Non l’ho più rivista dopo le medie, ma l’ho sentita qualche mese fa per email.
Mi scrive che l’Orvieto, una quindicina di anni fa, si è presentato in edicola da sua madre con un fucile da caccia. Precisiamo: non si trattava di una rapina. La loro era un’edicola ma anche un'armeria – prima leggevi di come Tex spara agli indiani e poi potevi farlo anche tu, ma coi rumeni.
La donna, naturalmente, non l’aveva riconosciuto, né forse mai incontrato prima. L’Orvieto si è dunque presentato, a questo modo: “Buongiorno signora, ero un compagno di scuola di sua figlia. Questo è il fucile con cui mio padre si è sparato la scorsa settimana. Non so come fare a liberarmene, può aiutarmi per favore?”
Ecco, sulla nostalgia io non ho mica tanto altro da aggiungere. Per me è l’odore dei Moon Boot al ritorno da scuola, l’Alfa Romeo rossa di un dirigente della Standa, è una bambina bionda e bella, ma proprio stupenda e però come confinata in una bolla di ghiaccio, che le aveva soffiato addosso il Re dell'Inverno. E' un guaio, alle volte, essere delle fate... Riesce però a romperla, dopo trentacinque anni, e mi rivolge finalmente la parola, per raccontarmi una storia di padri, figli e fucili. Bang, colpito e affondato.
La nostalgia è un attimo, il tempo di uno sparo, lo intuisco con altrettanta rapidità, e ha come bersaglio un incontro sempre rimandato. No, non l'incontro tra me e l'Acquistapace, che non c'è ancora stato né mai forse ci sarà. E' un incontro interiore, festa privata tra me e me. La nostalgia è un attimo ma dilazionato nel tempo.
Quando traversavo con una copia di Zagor la favola dei miei giorni più belli, quando stavo nel loro alfabeto vivente, è come se anche io fossi sotto una coltre di neve, nella bolla di ghiaccio del Re dell'Inverno: mi muovevo, parlavo, ascoltavo, ma non percepivo veramente il cuore palpitante di ciò che mi accadeva, credo sia capitato a tutti. Succede quando il cuore sta a destra, come a Rita.
Nostalgia, per me, è dunque la percezione di un’esperienza trascorsa, che senza quel ritorno astratto (ma anche estremamente concreto, nella vividezza emotiva del ricordo) mancherebbe parte della sua verità, che solo attraverso tale integrazione postuma può tradursi in bellezza.
Per i più colti o saccenti, sì, certo, è il tempo ritrovato di Proust. Eppure anche in quel tempo supplementare della vita, la nostalgia, ma pure la grande letteratura, non potranno mai restituirci il passo felpato dei Moon Boot sulla neve, né a Orvieto il suo amatissimo padre. Piuttosto la consapevolezza del privilegio che abbiamo avuto nel galleggiare sul fiume del tempo: non semplicemente essendo qualcosa o qualcuno (un'essenza o un'energia puntiforme), ma diventando una persona vera, un essere umano attraverso la dinamica narrativa di ogni vita. Ma è una consapevolezza che ha un costo da pagare con la moneta del rimpianto, piangere di nuovo. Ed è l'algos che richiede il suo pegno. 
Si parla spesso di meditazione, di presenza da sviluppare attraverso la mindfulness, come si usa dire ora. Ok, va bene, va tutto bene. Ma quella della meditazione è una presenza statica, una presenza in cui l’accadere si manifesta per fotogrammi isolati, e la percezione coincide con l’esperienza del presente, o meglio ancora con l'immersione nell'eternità dell'adesso. Nella nostalgia la percezione è invece sempre un poco fuori sincrono, come la voce di un cattivo doppiatore. A questo modo imperfetto però nascono anche le storie, il movimento, l'avventura: da quadro, la vita diventa insomma un film. E il cuore di Rita, solo nella pellicola nostalgica del ricordo, può ritornare per un istante a sinistra, prima di essere inghiottito da un bolide rosso.
Ma forse ciascuno di noi, in qualche modo, nasce con il cuore a destra. E allora devo ringraziare l’Orvieto, l’Acquistapace – madre e figlia –, perfino la neve e la mia cagnolona Peppa che ci si rotolava dentro felice. Quindi i Moon Boot, Ulisse, Zagor, gli astronauti, Maria Giovanna Elmi, l’Alfa Romeo e il colore rosso, devo ringraziare tutto e tutti e anche la mia indole tenacemente nostalgica, se sono riuscito a spostarlo a sinistra. Non tanto, solo un piccolo poco.  



Nessun commento:

Posta un commento