Milano è il nuovo crocevia della letteratura
italiana. E non solo in un senso molto concreto e fattivo, seguendo le vie tortuose e gerarchiche dei sui domini editoriali, ma da
qualche anno a questa parte anche nell’immaginario sotteso alla creazione,
quindi nelle pratiche compositive degli autori. Ciò non significa che a Milano vengano
concepite e realizzate le opere più significative, e forse nemmeno le più
belle. Ad esempio, io amo molto la linea letteraria emiliano-romagnola: sia
quella più stralunata e onirica che va da Zavattini, Guareschi e Tonino Guerra,
passando da Celati e Cavazzoni per approdare a Nori, Benati,
Colagrande e molti altri, sia quella epica incarnata e teorizzata dai Wu
Ming, tra cui ricordo solo l’ottimo Cacucci. Ma anche nelle altre regioni
stanno maturando voci nuove e meno nuove, voci importanti,
che ci consentono di affermare con ragionevole sicurezza che se pure il cinema è in crisi,
la cultura è quella che è e Dio è morto, la letteratura italiana gode invece di
ottima salute. Milano è semplicemente e come ho scritto il crocevia. Provo a
spiegarmi.
Un crocevia, letteralmente, è una via disposta a
croce, in pratica un incrocio, o se preferite un piano cartesiano. Dove, come
noto, si incontrato ortogonalmente due rette: un asse orizzontale, detto
ascisse, e uno verticale che chiamiamo ordinate. Bene, a me sembra di poter
riconoscere nella letteratura italiana contemporanea, per quanto articolata in
molteplici e molto distanti manifestazioni, anche nel valore, una tendenza a collocarsi comunque su tale piano, con cui converrà
cominciare a familiarizzare. Per farlo ho individuato due autori – milanesi
appunto, di nascita o adozione – che incarnano in forme riconoscibili e
nette le due line di tendenza maggiori, a definire le coordinate di piano del nostro
crocevia.
Partiamo dunque dall’asse delle ascisse, da quella
linea orizzontale che si allunga fin dentro la letteratura di RaulMontanari, bergamasco di nascita ma da molti anni attivo nel capoluogo lombardo. Oltre ad aver pubblicato numerosi romanzi e
racconti, con riconoscimento di critica e lettori, Montanari insegna scrittura
di finzione; “creative writing”, come dicono gli anglosassoni. Durante i suoi
corsi, che per inciso io ho frequentato, egli insiste molto su tale elemento
orizzontale dello scrivere. E cioè sullo sviluppo di una trama, che è
essenzialmente un fatto di tempo, di conflitto e di risoluzione. In estrema
sintesi, la letteratura può essere ricondotta al passaggio di qualcosa (un
personaggio, in genere, ma anche un luogo, un sentimento, un elemento testuale)
da un punto che chiameremo A a un indefinito altro, che sarà dunque e semplicemente “non A”.
Il transito narrativo avviene anche quando il testo abbia una conclusione in qualche modo scontata, andando cioè a coincidere con quanto previsto al suo esordio, come ad esempio avviene nei Promessi sposi di Manzoni. E difatti anche se tutto va “come deve andare” – gli sposi promessi alla fine coronano il loro sogno –, il percorso sulla linea orizzontale del tempo e degli avvenimenti che in essi si realizzano, descritti dal narratore con una tecnica a incastro di estrema modernità, ci conduce in un luogo sempre diverso. Un luogo a cui daremo il nome di esperienza, o se preferite di consapevolezza – ma attenzione: l’estensione della consapevolezza dovrebbe avvenire nel lettore, e non sempre, non necessariamente, nel personaggio. Lucia, al termine del romanzo, in ogni caso non è più la Lucia inizialmente promessa in sposa a Renzo; ammesso che per lo stesso Renzo si possa parlare della medesima persona. Anche egli è infatti cambiato, ha percorso il cammino che va da A a non A, sempre in precario equilibrio sul filo teso sopra il burrone del non senso. Un modo non certo inedito di concepire la letteratura, al punto che uno come Robert Luis Stevenson, oltre un secolo fa, a domanda già così poteva rispondere: “A cosa serve la letteratura? Semplice, a rendere più chiare la lezioni della vita”.
Il transito narrativo avviene anche quando il testo abbia una conclusione in qualche modo scontata, andando cioè a coincidere con quanto previsto al suo esordio, come ad esempio avviene nei Promessi sposi di Manzoni. E difatti anche se tutto va “come deve andare” – gli sposi promessi alla fine coronano il loro sogno –, il percorso sulla linea orizzontale del tempo e degli avvenimenti che in essi si realizzano, descritti dal narratore con una tecnica a incastro di estrema modernità, ci conduce in un luogo sempre diverso. Un luogo a cui daremo il nome di esperienza, o se preferite di consapevolezza – ma attenzione: l’estensione della consapevolezza dovrebbe avvenire nel lettore, e non sempre, non necessariamente, nel personaggio. Lucia, al termine del romanzo, in ogni caso non è più la Lucia inizialmente promessa in sposa a Renzo; ammesso che per lo stesso Renzo si possa parlare della medesima persona. Anche egli è infatti cambiato, ha percorso il cammino che va da A a non A, sempre in precario equilibrio sul filo teso sopra il burrone del non senso. Un modo non certo inedito di concepire la letteratura, al punto che uno come Robert Luis Stevenson, oltre un secolo fa, a domanda già così poteva rispondere: “A cosa serve la letteratura? Semplice, a rendere più chiare la lezioni della vita”.
Il quasi milanese Raul Montanari è lo Stevenson
italiano. In tutti i suoi romanzi, e in particolare nell’ultimo che raccomando
(Il regno degli amici, Einaudi, 2015), facciamo infatti una duplice
esperienza: del nostro essere nel tempo e da esso trasformati, innanzitutto, ma
in forma più sottile dell’essere nient’altro che tempo, come
direbbe Martin Heidegger. Raul Montanari scrive dunque per rendere più chiare le lezioni della vita, che possono essere
apprese solo seguendo la sua linea orizzontale: quella cronologica, che è anche
la linea della comunicazione, della relazione tra uguale e diverso, tra io e
altro, in uno scambio che non è gerarchico ma avviene appunto su di un medesimo
piano, per quanto spesso conflittuale. La vita è questo piano, è questo tempo e
questo conflitto: tutto è già qui, ma disponibile solo un poco per volta. La
letteratura diviene allora il modo in cui ordiniamo il Tutto in lunghe sequenze
temporali, per poterne capitalizzare l’esperienza.
No, non è tutto qui, la vita è altrove, almeno quella autentica, la "vita vera", sembra ribattere GiuseppeGenna dal capo opposto della città di Milano, che è anche il punto estremo della linea alternativa e verticale del nostro piano, l’asse delle ordinate. Ed è così che, negando la gestazione della coscienza umana nel tempo e nella storia, quindi anche il valore diacronico di ogni forma d’esperienza, Giuseppe Genna concepisce una visione della letteratura tutt’all'opposto di quella di Raul Montanari. La coscienza “è”, non diviene, sembra infatti dirci e anzi ce lo dice proprio Giuseppe Genna in un suo recente saggio, in eclettico e virtuoso equilibrio tra psicologia, letteratura e filosofia (“Io sono. Studi,pratiche e terapia della coscienza”, Il Saggiatore, 2015). Da qui una pratica di scrittura che tende all’inaudito e all’inespresso, sovente anche all’inesprimibile, alla poetica dell’accenno – “il Dio non dice, accenna”, affermava Eraclito nel V secolo avanti Cristo. Il Dio della letteratura, almeno di quella che discende dall'asse delle ordinate atemporali, è questo continuo e balbettante ammiccare.
Il tema è complesso, sfumato e Genna, che pure ha
vocazione a scivolare dalla complessità alla complicazione, potrebbe correggerci
di continuo. Mi limiterò dunque a rubricare tale oggetto vocazionale della
letteratura, così come intesa da Giuseppe Genna da Calvairate, con un termine ripreso dalla
tradizione filosofica: numinoso, a qualificare ciò che si oppone al dominio concreto dei fenomeni, di cui abbiamo esperienza sensibile e diffusa. La
linea verticale della letteratura ricerca dunque lo stra-ordinario, di cui è per definizione impossibile tracciare linguisticamente i confini – per comodità e approssimazione parleremo di coscienza
destoricizzata, di simbolismo perenne occultato sotto la scorza del quotidiano, a cui accedere tramite un
processo che sostituisce l’evocazione al dire, la visione alla metafora (un mostrarsi senza apparentemente riferirsi) e la compressione poetica alla referenzialità esplicita.
A differenza di Montanari, Genna non potrebbe allora insegnare alcunché, e quando ci prova su Facebook, dove risulta particolarmente attivo, finisce con l'essere spesso urtante, scostante e sentenzioso. Effetto che ottiene attraverso la dilatazione del pensiero in interminabili thread, oppure, all'opposto, sciogliendo e coagulando la semantica in un impulso verbale che vorrebbe forse tendere all’alchemico, ma conduce purtroppo alla noia del lettore. Non perché egli non possieda qualità – tutt'altro – ma in quanto quelle stesse qualità sono di carattere rabdomantico, non comunicativo. E ciò appunto perché risulta impossibile comunicare un oggetto di cui non si abbia esperienza diretta, mentre le intuizioni viaggiano sull'ascensore di una soggettività che continuamente si inciela, forse per poter cogliere nello spazio dell'ulteriore i propri frutti maturi. Che in ogni caso verranno consegnati come la mela di Newton: piovendo dall'alto, senza che se ne possa dibatterne sulla base dell'esperienza storica e il dato di realtà. E sono così pensieri e parole suggestivi, ossia non verificabili, consegnati per via di una lingua altrettanto priva di verifica.
A differenza di Montanari, Genna non potrebbe allora insegnare alcunché, e quando ci prova su Facebook, dove risulta particolarmente attivo, finisce con l'essere spesso urtante, scostante e sentenzioso. Effetto che ottiene attraverso la dilatazione del pensiero in interminabili thread, oppure, all'opposto, sciogliendo e coagulando la semantica in un impulso verbale che vorrebbe forse tendere all’alchemico, ma conduce purtroppo alla noia del lettore. Non perché egli non possieda qualità – tutt'altro – ma in quanto quelle stesse qualità sono di carattere rabdomantico, non comunicativo. E ciò appunto perché risulta impossibile comunicare un oggetto di cui non si abbia esperienza diretta, mentre le intuizioni viaggiano sull'ascensore di una soggettività che continuamente si inciela, forse per poter cogliere nello spazio dell'ulteriore i propri frutti maturi. Che in ogni caso verranno consegnati come la mela di Newton: piovendo dall'alto, senza che se ne possa dibatterne sulla base dell'esperienza storica e il dato di realtà. E sono così pensieri e parole suggestivi, ossia non verificabili, consegnati per via di una lingua altrettanto priva di verifica.
Eppure, il medesimo approccio verticale all’interno
dei romanzi di Giuseppe Genna è spesso efficace, l’allusione spalanca varchi intuitivi, il
ritmo invade lo spazio del senso e si sovrappone a quello dello stile, mentre
il narratore indossa i paramenti di un sacerdote laico e il sussiego ieratico
degli illuminati (“Ho visto la luce, ho visto la luce!” sembra ripeterci come
John Belushi nei Blues Brothers). Ecco, per quanto estremo sia il caso Genna, o, se
preferite e parafrasando Gianfranco Contini, la funzione Genna, rappresenta il compendio di una tendenza significativa e perfino feconda della letteratura
italiana contemporanea. Una linea che potremmo provvisoriamente chiamare
orfica, assegnando un altro termine antico a un fenomeno per molti aspetti
nuovo. E se una funzione funge appunto alla realizzazione di una qualche utilità, la funzione dell'orfismo letterario ("New Italian Orphism") serve a ricordarci che c'è altro, che questo mondo non è tutto, di questo "altro" fornendoci anche delle possibili prefigurazioni. Mentre la funzione Montanari, più che un semplice ritorno in forza del realismo
– fenomeno che pure e per molti versi è in corso –, mi piace guardare come forma letteraria della dialettica: l’oggetto prezioso offerto dall’esperienza
è sempre l’esito processuale di un cammino, e la dinamica oppositiva la sua
porta di accesso.
Per concludere, a me sembra che l’elemento di novità
più interessante degli ultimi anni, forse non solamente in Italia, consiste
nello spostarsi del focus della letteratura dalla tensione sperimentale verso
la forma (ormai sepolta nelle remote esperienze avanguardistiche) a una
tensione speculare verso il contenuto, o detta più tecnicamente nella direzione della
fabula, del narrato. Ma il contenuto narrativo solo in prima battuta può esser
fatto coincidere con la vicenda e con l’intrattenimento che da essa se ne
ricava, già che la materia accostata in parole – pianamente o tortuosamente, per lampi irrelati, a sviluppare o involvere l’intreccio – diviene l’adito privilegiato per essere
ammessi alla verità. Sì, la letteratura, almeno quella non di consumo, ha
recuperato fiducia nei suoi mezzi espressivi, con i quali è ricominciata la
caccia grossa alla verità.
Con la variabile che c’è chi crede che la verità sia
molteplice e parziale, e che dunque vada ricercata qui e ora, anzi meglio nella
successione delle ore, nel tempo come ventre gestatorio della coscienza,
mentre altri pensano che coscienza e verità siano qualcosa di assoluto e
pregresso. Ed è ancora una volta una questione di tempo, i cui rapporti sono però da
leggere con segno inverso: non è il tempo a consentire lo sviluppo della
coscienza, ma, come già aveva intuito Agostino, è proprio la coscienza il cuore
occulto e sorgivo dell’esperienza temporale. In ogni caso, qui ci asterremo dal
prendere parte alla querelle filosofica di più lunga data. Limitandoci a
ricordare che, per sua natura, chi percorre la via orizzontale del tempo
comunica qualcosa, mentre chi si cala dalla verticale dello spirito semplicemente esprime ciò che è ancora in uno stato di potenza.
La verità…?
Interessante. Per ora lo vivo come un consiglio di lettura (e di meditazione)
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