Io possiedo un appartamento da ricco, sono
fortunato, almeno in questo, un appartamento da ricco in una casa da ricchi, che
si trova nella periferia nord di Milano. Possiedo questo appartamento da ricco milanese
– abbiamo pure la piscina, tiè – per modo di dire, avendo da pagare un muto per
altri quattordici anni. Ma insomma, fuochino.
Nella mia ricca casa da ricchi ho ovviamente dei
vicini, dei condomini, che qui però vengono chiamati “cohouser”. Una parola inusuale e vagamente stronza, ma per dire la stessa cosa: che ci sono dei vicini e che questi vicini, appartenendo al medesimo edificio, sono anche condomini. L’unica differenza sta dunque nel nome: nei
condomìni ci si chiama condòmini e nei cohousing ci si chiama cohouser; alcuni
ci aggiungono anche la esse del plurale anglosassone: cohousers. Il nostro,
come avrete intuito, non è un semplice condominio ma un cohousing abitato da cohouser, o se preferite
cohousers. Ma che cacchio è un cohousing, si starà chiedendo qualcuno?
Mi dispiace, temo di non esservi di grande aiuto: dopo
sei anni che possiedo questo appartamento (da ricchi, non dimenticatelo mai!) non
l’ho ancora capito bene. L’unico indizio deve stare nell’elemento fino
a ora più ricorrente: la ricchezza, anche se non ostentata, anzi meglio
contenuta e perfino modesta, di certo discreta, una ricchezza in un certo senso
naturale, nonchalante. E poi ricchi ma di sinistra e molto
eco-qualsiasi-cosa, un po’ come Lupo de Lupis che è lupo, sì, ma pure tanto
buonino. Ok, se volete usatela pure quell’espressione lì, tanto lo so che la state
pensando. Però a me non piace tanto, forse perché stropicciata dall’abuso:
radical chic, vabbe', l'abbiamo detto.
Ma torniamo al cohousing e al suo enigma nominale.
La cosa più semplice è andare a vedere cosa dice, al proposito, la pagina
corrispondente di Wikipedia:
“Il termine cohousing è utilizzato per
definire degli insediamenti abitativi composti da alloggi privati corredati da ampi spazi comuni
(coperti e scoperti) destinati all'uso comune e alla condivisione
tra i cohousers. Tra i servizi collettivi vi possono essere ampie cucine, lavanderie,
spazi per gli ospiti, laboratori per il fai da te, spazi gioco per i bambini,
palestra, piscina, internet cafè, biblioteca
e altro.”
“Alloggi privati con spazi comuni”. Ci siamo. “Condivisone
tra i cohousers”, forse un po’ meno… Ma boh, dai, prendiamola per buona. Una
roba dove si fanno delle cose comuni dentro spazi altrettanto comuni, ma con
una propria tana esclusiva in cui rifugiarsi quando gli altri diventano un ingombro, o, secondo la felice intuizione di Sartre, quando
iniziano a scottare (“l'enfer, c'est les autres”).
Tra le cose comuni del nostro cohousing, anche una mailing
list condominiale. Solite cose, ne’. Informazioni utili di quartiere, idee per
la sera, pensierini smilzi, ma in genere questioni molto tecniche e burocratiche
da affrontare – qui siamo a Milano, non ci si perde in ciance speculative. In
alcune e rarissime occasioni, anche iniziative per così dire civili. Molto per
così dire, in effetti.
L’ultima iniziativa “civile” del mio condominio da
ricchi, che però si chiama cohousing ed è abitato da cohouser, o cohousers, è
quella di far sloggiare il nostro dirimpettaio. Nei suoi confronti è stata
dichiarata una vera e propria guerra – no, non una guerra guerreggiata e nemmeno
ancora legale, bensì estetica. Questo tizio che io mi figuro brutto, sporco e
cattivo, come in quel vecchio film di Scola, da un sacco di tempo (non so
esattamente quanto, ma a sufficienza per i termini legali del diritto di uso
capione) ha occupato abusivamente un fazzoletto di verde comunale, ci ha
costruito sopra una baracchetta di assi e lamiera, poi un pollaio, qua e là
accumula ferro e altri materiali di scarto, immagino trovati in giro per la città, e
ora afferma: è tutto mio. Per la legge, pare abbia ragione. E così è riuscito a bloccare anche il progetto di un tram che doveva passare di lì, per noi sarebbe stato assai comodo.
Senza tram, dunque, ma con la benedizione dello Stato italiano, dell'Azienda Trasporti Milanese e però non dei miei cohouser,
che trovano tutto ciò una cosa non solo o non tanto ingiusta, ma brutta,
proprio orrenda, una sorta di offesa formale verso la rinascenza tanto ambita del quartiere – ossia verso noi stessi, verso la fatica di essere finalmente quel che siamo: ricchi, belli e in un ambiente che ci corrisponda. Vorrebbero
quindi riappropriarsi del maltolto, da trasformare in un lindo e pettinato
e certamente preferibile (anche per me) giardinetto, in cui travasare i bimbi del condominio, pardon, del cohousing. Ma anche una piccola fettina da riconsegnare al beneamato tram!
Tralascio ora la trafila di mail, commenti,
propositi e ingiunzioni e arrivo al dunque – io ovviamente sono il dunque, come
in un film di Woody Allen (“Ma non parliamo sempre di me, parliamo di te: come
mi trovi?”). E infatti pure io ho scritto una mail di risposta alla discussione, ma poi non l’ho inviata. Con queste persone verso cui non ho niente contro, sono davvero tutte per bene, tutte e come già detto di sinistra eco-tutto e bla bla bla, temo semplicemente di aver
esaurito le parole. O meglio mi sono accorto di non avercele proprio, le
parole, di non possedere un linguaggio comune, una koinè e forse neppure un lessico, che
per altro è una sensazione che inizio a provare verso il mondo intero, ma
lasciamo andare.
Non ho in ogni caso inviato la mail che già avevo
scritto, bon, chiuso, fate quel che vi pare. In fondo c’è una parte di me che
condivide ambizioni piccolo borghesi di decoro: un mondo magari piccolo piccolo ma senza spigoli, senza agguati di alcun genere, in cui un ginocchio sbucciato è il peggio che ti possa capitare. Prima di schiacciare il tasto
cancella su Outlook ho però riletto il tutto, accorgendomi che non si trattava solo
di una stracca querelle condominiale, ma che in essa erano contenuti elementi
che oserei chiamare universali: l’incontro\scontro tra bene e male, privilegio e
ambizione, utile e forma, meglio ancora stile, ossia tra ricchi “buoni”e poveri “cattivi”, che è
forse il Tema con la ti maiuscola della modernità.
I ricchi, ovviamente, sono buoni solo fino al
momento dell’incontro\scontro con i poveri cattivi, che diversamente non
fanno una piega e continuano imperterriti nella loro linea, come uno che venga tamponato e nemmeno scenda a controllare i danni alla vettura. I poveri rimangono insomma cattivi fino all’ultimo, ma, al cospetto dei
ricchi buoni ora divenuti cattivi pure loro, la povertà assume un tratto come figurale
e stilizzato, quasi assoluto, se non ontologico.
Aggiungo così il mio limitatissimo contributo a
questa guerra metafisica tra ricchi e poveri, copiando, di seguito e in corsivo, la mail che
non ho mai spedito ai miei vicini di casa. Vicini che ormai anche voi avrete imparato a
chiamare cohouser, o cohousers, à votre plasir.
ho letto con interesse le mail che vi siete scambiati
negli ultimi giorni, in particolare quelle relative al nostro dirimpettaio, che
per la verità io e forse nessuno tra di noi conosce. Eppure da lui ci separano solo pochi metri, una minima porzione di via Maddalena Giudice Donadoni, ma che qui diventa una distanza quasi incolmabile, come quella che divide Achille dalla tartaruga nel
celebre paradosso di Zenone.
Tra i molti e interessanti pensieri, qualcuno invitava però e senza perifrasi a “stare sul pezzo”, non a divagare
come già sto facendo io, no, stare sul
pezzo, un termine giornalistico che nel suo intento immagino corrisponda a: “diamoci dentro, dai, l’unione fa la forza e con la forza del
gruppo facciamo sloggiare quello zotico cafone.” Altri si lamentavano più
cautamente per il suo “pollaio abusivo”, paventando gravi rischi per la salute –
ovviamente dei bambini, i bambini prima e sempre di tutto e di tutti. Altri ancora,
più increduli che sgomenti, hanno ricordato i “materiali assurdi” che egli
raccatterebbe (si tratta per inciso di ferro e altre utilissime materie prime,
di cui realizza spontaneamente, anche se interessatamente, il riciclo).
Infine c’era chi teneramente si preoccupa – “che fine
ha fatto?” – del “verde dietro la
lamiera” che recinta alla bell'e meglio il suo terreno; e grazie a dio che c'è perlomeno una lamiera, un limes arrugginito e sghembo a far da argine e protezione, come un moderno Vallo di Adriano a preservarci dalle incursioni dell'osceno – da una parte i Buoni (noi),
dall’altra il Cattivo (lui).
Ed erano pensieri che condividevo nella quasi totalità, dico davvero. Pensieri che voi pensavate per mio conto e senza che io dovessi fare alcuna fatica, come quando ti capita di leggere tra le pagine di un grande scrittore. E però pensieri che, forse perché in qualche modo anche miei, mi facevano nascere delle domande, dei dubbi sempre più insinuanti. Così più leggevo le vostre mail e più mi stupivo del fatto che quelle domande, quei dubbi, a voi invece non venivano, sembravate così sicuri di tutto quando –
massì, dai, vi saranno venute, anche se poi le nascondete come un bambino che si è appena fatto la cacca addosso... Il guaio è che, dopo un po', senti la puzza, che qui è uno stramaledetto tanfo di pulito, di deodoranti senza sali di alluminio e a km zero.
Ad esempio, mi chiedevo se nessuno avesse realizzato che “dietro la lamiera” ci sta un essere umano, mica solo erbette e fiorellini su cui un giorno far scorrazzare i monopattini siluro dei bambini del cohousing (i bambini sempre prima di tutto e di tutti, per carità!), così da distoglierli dalle vetrate e i cancelletti su cui attualmente si infrangono. E continuando a fiutare nel candido afrore delle vostre mail, mi domandavo, ancora, se è tanto difficile comprendere la la differenza tra un pollaio abusivo e uno a norma, con tutti i crismi della buona società a cui voi ed io certamente apparteniamo. Nel primo, le galline mangiano quel che trovano e vanno a dormire quando cazzo gli pare, mentre nel secondo tipo di pollaio, quello legittimo e legittimato dalla pigrizia del pensiero, vengono ammassate in spazi da incubo nipponico, ingozzate di antibiotici e la notte è una caricatura artificiale del giorno, affinché i pennuti continuino a mangiare e crescere ancor più in fretta. Non era tanto difficile, dai. E a qualcun altro, dite la verità, l'olezzo di pulito nelle mie narici si fa sempre più intenso, viene o sarà venuto in mente che quella persona avrà pure un nome, un cognome e una storia, e se tiene delle galline magari è semplicemente per mangiarsi le uova; che per inciso non spuntano già belle e inscatolate alla Coop, in croccanti cartoncini da sei? Così come raccattare “materiali assurdi”, si tratterà di un hobby singolare e un passatempo rinfrescante come la nostra bella e azzurra piscina, o non invece dell’espediente per cavarci quattro soldi, non avendo un lavoro come giornalista, architetto, pubblicitario, “trend watcher”, regista cinematografico, buyer, informatico e insomma una di quelle professioni intangibili e senza realtà materiale che facciamo quasi tutti qui, me compreso?
Domande, appunto, labili tracce olfattive da seguire con il naso.Ma anche qualche provvisoria certezza. Ad esempio io non ho dubbi che uno così sia anche una mezza carogna, o comunque un furbetto, uno che se gli dai una mano si piglia un braccio, facendosi gli orti, i pollai, i depositi di materiali di risulta e insomma i cavoli suoi, almeno fin che riesce. Ma allora assumiamoci – meglio si assuma chi queste domande proprio non riesce a farsi, che a me il nostro vicino comincia a stare simpaticissimo – la responsabilità e soprattutto il coraggio di essere ancora più carogne: prendetelo a botte, a calci in culo, a sputi e smamma e vaffanculo testa di cazzo, mica a querimonie istituzionali fondate su quel privilegio che viene chiamato diritto, ma è solo una forma di differimento generazionale dell’abuso. E poi diritto de che, di gentrificare il mondo, di renderlo conforme alla mancanza di diottrie dei nostri occhi, le mollette sopra il naso, così da non vedere il brutto, il male, la muffa e le scoregge da davanzali ornati di aulentissime rose?
Ad esempio, mi chiedevo se nessuno avesse realizzato che “dietro la lamiera” ci sta un essere umano, mica solo erbette e fiorellini su cui un giorno far scorrazzare i monopattini siluro dei bambini del cohousing (i bambini sempre prima di tutto e di tutti, per carità!), così da distoglierli dalle vetrate e i cancelletti su cui attualmente si infrangono. E continuando a fiutare nel candido afrore delle vostre mail, mi domandavo, ancora, se è tanto difficile comprendere la la differenza tra un pollaio abusivo e uno a norma, con tutti i crismi della buona società a cui voi ed io certamente apparteniamo. Nel primo, le galline mangiano quel che trovano e vanno a dormire quando cazzo gli pare, mentre nel secondo tipo di pollaio, quello legittimo e legittimato dalla pigrizia del pensiero, vengono ammassate in spazi da incubo nipponico, ingozzate di antibiotici e la notte è una caricatura artificiale del giorno, affinché i pennuti continuino a mangiare e crescere ancor più in fretta. Non era tanto difficile, dai. E a qualcun altro, dite la verità, l'olezzo di pulito nelle mie narici si fa sempre più intenso, viene o sarà venuto in mente che quella persona avrà pure un nome, un cognome e una storia, e se tiene delle galline magari è semplicemente per mangiarsi le uova; che per inciso non spuntano già belle e inscatolate alla Coop, in croccanti cartoncini da sei? Così come raccattare “materiali assurdi”, si tratterà di un hobby singolare e un passatempo rinfrescante come la nostra bella e azzurra piscina, o non invece dell’espediente per cavarci quattro soldi, non avendo un lavoro come giornalista, architetto, pubblicitario, “trend watcher”, regista cinematografico, buyer, informatico e insomma una di quelle professioni intangibili e senza realtà materiale che facciamo quasi tutti qui, me compreso?
Domande, appunto, labili tracce olfattive da seguire con il naso.Ma anche qualche provvisoria certezza. Ad esempio io non ho dubbi che uno così sia anche una mezza carogna, o comunque un furbetto, uno che se gli dai una mano si piglia un braccio, facendosi gli orti, i pollai, i depositi di materiali di risulta e insomma i cavoli suoi, almeno fin che riesce. Ma allora assumiamoci – meglio si assuma chi queste domande proprio non riesce a farsi, che a me il nostro vicino comincia a stare simpaticissimo – la responsabilità e soprattutto il coraggio di essere ancora più carogne: prendetelo a botte, a calci in culo, a sputi e smamma e vaffanculo testa di cazzo, mica a querimonie istituzionali fondate su quel privilegio che viene chiamato diritto, ma è solo una forma di differimento generazionale dell’abuso. E poi diritto de che, di gentrificare il mondo, di renderlo conforme alla mancanza di diottrie dei nostri occhi, le mollette sopra il naso, così da non vedere il brutto, il male, la muffa e le scoregge da davanzali ornati di aulentissime rose?
Per parte mia, ho scoperto che mi trovo molto più a mio agio nell'odore delle sue scoregge che non in quello di chi non conosce punti interrogativi. per quanto abbondantemente cosparso di deodoranti – senza sali di alluminio e a km zero, ok, sì, ci mancherebbe...
Un saluto dal vostro amatissimo cohouser
Guido
Cohouser, cohousing. Nemmeno provo a pronunciarle, queste parole. La mia perenne irritazione tracheo-laringea me lo impedisce. Forse, fossimo in un luogo dove tutto è prato e bosco, dove il torrente gorgoglia tra una rapida e una cascatella, i pettirossi saltellano di ramo in ramo e l'aria è pura, allora proverei. E, dopo averci provato ed esserci riuscito, mi vergognerei immediatamente per una fesseria simile. Ma tu guarda se devo chiamare cohouser uno che abita vicino a me.
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