Mi ricordo le feste di pomeriggio. Prima c'erano state quelle alle elementari, dove troneggiava la bottiglia conica della Fanta ed era sempre presente una mamma, una a caso che faceva i turni nell'ospitare i compagni di classe del figlio, a cui offriva una fetta di torta alle mele e il bidone del Dixan. Per fortuna, al suo interno, la polverina azzurra era stata sostituita dai mattoncini colorati del Lego.
Seguirono le feste delle medie, non troppo diverse: si
aggiungeva alla Fanta la Coca-Cola e non c'era più la mamma, né il bidone del Dixan. In compenso, se la casa apparteneva ai genitori di una ragazza, subentravano i 45
giri di Umberto Tozzi e Claudio Baglioni, mentre Born To Be Alive di Patrick Hernandez e On the Road Again dei Rockets erano appannaggio dei maschi, prima che la colonna sonora della Febbre del sabato sera
stabilisse un unanime consenso di genere. Ma le feste a cui penso io sono quelle dei primi
anni alle superiori.
I luoghi in cui avvenivano continuavano a essere privati. Non
si trattava però di vere e proprie abitazioni, o meglio lo erano state, case di
campagna dei nonni, vecchi zii morti che avevano lasciato il poco che avevano
in eredità, e ora i nipoti ci facevano un festino. Venivano chiamati locali,
per quanto fossero presenti più camere e almeno un soggiorno, in cui ballare e
bere e fumare. Qualche canna e poco altro, riguardo allo sballo.
C'è una festa nel locale di Tal dei Tali, si diceva. Oppure in un locale a Caiolo, Chiuro, Mossini… E vai tu a sapere a chi
appartenesse, ma era girata la voce e si andava lì e si provava a imbucarsi. Di
solito andava bene.
La stanza più defilata veniva adibita a guardaroba,
con i giacconi buttati su un vecchio materasso posato al suolo che possedeva un’altra funzione, facilmente intuibile. Bastava
entrare, un po’ a tentoni per via dell'oscurità, le tapparelle erano abbassate e la porta andava mantenuta chiusa, ehi fai attenzione! Ma se chiedevi scusa al paio di coppie già lì presenti e non viste, ti facevano volentieri spazio, e così potevi a tua volta limonare. Dovevi però prima trovare una ragazza che fosse
disposta a farlo.
Non era difficilissimo, per essere onesti. Anche perché non era tanto importante sapere a chi appartenesse il cavo orale da perlustrare, ma il ritorno al Bar Sole il lunedì successivo (di norma le feste pomeridiane avvenivano il sabato o la domenica), dove raccontare della nuova conquista agli amici. Sospetto che anche tra le ragazze avvenisse qualcosa di simile, contribuiva ad aggiungere palline all'abaco del proprio prestigio sociale.
A me capitò di appartarmi con una ragazza che odorava di sambuco e aveva due tette belle sode, ma scoprii il giorno successivo che passava per essere la più brutta dell’intero istituto linguistico. Dico passava perché c’eravamo a malapena presentati, giusto un po' di strusciamenti sulle note di Enola Gay (non si sa come la trasformammo in ballo lento) e poi subito sul materasso. Ma è quanto sosteneva quella carognetta di Paola – d’altronde se non lo sapeva lei, che frequentava lo stesso istituto. E così cominciò ad andare in giro a dire: Oh, lo sapete, Hauser ha limonato con la XXX! E giù tutti a ridere.
Io avevo anche provato a negare: No no, si trattava di un’altra scongiuravo – e per quanto ne sapevo avrebbe anche potuto essere vero –, un’altra molto carina, figurati se mi metto con la XXX… Ma pare che qualcuno fosse presente all'inciucio, e avesse riportato la gravissima colpa a quel megafono di Paola.
Non sono certo orgoglioso dei miei balbettanti tentativi di scagionarmi. Ma negli adolescenti, maschi e femmine, il patriarcato non c'entra nulla, è presente un sentimento feroce e primitivo, un darwinismo estetico dove ciò che davvero importa non è chi è più adatto alla riproduzione, l'adattabilità richiesta è quella alla copertina di Vogue. E come in tutti i sentimenti tribali agisce il principio di metonimia: se tocchi un'intoccabile, diventi intoccabile anche tu.
Milan Kundera sostiene che agli uomini piacciono le
donne belle, mentre alle donne piacciono gli uomini che stanno con le donne
belle. Messa così suona un po’ tranciante, ma è un fatto che da quel giorno
cominciai a essere ignorato dalle ragazze. E sì che avevo tutte le carte in regola: andavo male a scuola, impennavo in motorino, a braccio di ferro sapevo
farmi valere. Ero anche piuttosto belloccio, ma avevo baciato una donna brutta.
E questo mi aveva convertito in rospo.
Continuavo a frequentare le feste nei locali, quando però invitavo una ragazza a ballare ricevevo risposte elusive, no, guarda,
ho mal di testa, oppure magari dopo, adesso devo andare in bagno, e poi la
sentivo ridere con l’amica: Lo sai chi è quello? È il tipo che ha limonato con
la XXX.
A fine maggio andai in gita a Vienna. Non si trattava
di una gita scolastica: era organizzata dal Comune, e così trovai ragazzi che non conoscevo e soprattutto non mi conoscevano. Perlopiù frequentavano
il liceo scientifico, mentre io ragioneria. Mi trovavo dunque a un livello gerarchico
inferiore – in quegli anni il classico aveva perso molto del suo storico blasone,
i figli della borghesia sondriese erano migrati allo scientifico –, ma se
non altro non sapevano del fattaccio che mi aveva precipitato nel girone dei superflui.
Mentre stavo discutendo con Fabio se fossero meglio i Genesis o i Pink Floyd, ci accostò una ragazza che come noi si era staccata dal gruppo. Occhi azzurri, capelli lunghi con colpi di sole, camminata neghittosa da ricchi in ciabatte; un po’ in stile Totò ospite nella villa caprese di Franca Valeri, in Totò a colori. Si rivolse a me con il tono di chi offre, non di chi chiede, il roseto di Wolksgarter faceva da cornice. Io mi chiamo Elena disse soltanto. Io Guido, piacere.
Da quel giorno diventammo inseparabili, occupavamo
sedili affiancati sul pullman, a pranzo mangiavamo le stesse pietanze, e quando
mi indicava qualcosa dalla cima della ruota del Prater, io annuivo col capo mentre
pensavo: Ma quanto è bella?! Che mi frega di quel punto lontano, quando ho qui
vicino la cosa più bella nell'arco di centinaia di chilometri.
Probabilmente era un’iperbole, ma, se non dell’intera Austria,
Elena aveva in effetti fama di essere la ragazza più bella del liceo scientifico,
dove frequentava il quarto anno. Aveva tre anni più di me, che a quell’età
sono tanti da scalare, e ciò rendeva più fiammeggiante la bandiera da conficcare sulla vetta. Stessa storia del passato, insomma. Solo a meriti invertiti.
Andava avanti così già da un po’, se non erano i miei occhi a cercare i suoi erano i suoi a trovare i miei, nel camminare lungo la Ringstrasse le nostre mani si univano, ma baci ancora niente. Gli altri intanto rosicavano: non andava giù che un collega di Fantozzi, un primino per giunta, se la facesse con Miss Liceo Scientifico Carlo Donegani. Cercarono perfino di passare a vie di fatto, ma alle medie avevo imparato a difendermi: per vanificare la punizione prevista era bastato un thermos di metallo, brandito come il martello di Thor.
Nulla però succedeva nemmeno con Elena, tutta quella
bellezza mi intimoriva. Restava l’ultima notte. Ci accordammo per dormire
assieme, avevo già preparato il piano d’azione, le cose da dire e il momento in cui tacere e accostare le mie labbra alle sue. Pare che gli sciatori facciano qualcosa di
simile: mimano ogni futuro movimento del corpo dentro la testa, prima di
varcare il cancelletto di partenza con un colpo di reni.
L'appuntamento era stato fissato alla fatidica
mezzanotte. L'ostello viennese aveva una sezione maschile e una femminile, poco
male se ci sarebbero stati altri maschi a origliare dai quattro letti a castello presenti nella camera, così la mia rivincita avrebbe fatto più scalpore. Ma che succede? I due accompagnatori, un
uomo e una donna, erano probabilmente caduti preda dello stesso sentimento, e sul divano sistemato nel corridoio che divide le due sezioni continuavano a parlare a parlare a
parlare.
Erano già le tre di notte, e non si erano ancora dati una mossa. Andò a finire che io passai la notte nel letto a sussurrare con Fabio – il nodo da risolvere era ora diventato: Dalla o Battisti? –, il quale aveva fissato un convegno notturno con un’altra ragazza, che a sua volta aveva dormito assieme a Elena. Non so di cosa avessero parlato loro, ma la gara era terminata e lo sciatore rimasto al cancelletto.
Alla mattina il pullman imboccò l’A2 Süd Autobahn verso l’Italia, dove i telegiornali erano passati dalla P38 alla P2, il governo Forlani traballava e si preparava a subentrargli Spadolini, pochi
giorni dopo Alfredino Rampi sarebbe scivolato in un pozzo artesiano. Io naturalmente feci tutto il viaggio accanto a Elena, con le
cuffiette del Sony ascoltavamo entrambi una canzone di Finardi dal titolo Trappole.
Non la rividi più. Nemmeno un bacino sulla guancia quale addio all'arrivo in piazzale Valgoi.
Eppure era comunque accaduto qualcosa. A Sondrio
cominciai a essere fermato per strada da ragazzi più grandi di me, addirittura
universitari: Ma tu sei quello che si è fatto l'Elena? Ma davvero, come ci sei riuscito? Io dicevo e non dicevo, come il dio di Eraclito mi limitavo ad accennare,
lasciavo intendere. A domanda diretta mi affidavo a segni del corpo ed espressioni
allusive del viso.
La voce doveva essere nel frattempo arrivata anche
alle ragazze, quando andavo alle feste nei locali di paese nessuna più si rifiutava di ballare con me, qualcuna perfino si proponeva. Un’inversione dei ruoli
che un po’ mi imbarazzava, ma poi mi dicevo: e quando ti ricapita più? Mi
lasciavo allora corteggiare, sedurre, condurre per mano sul materasso. Il rospo
era diventato principe.
Fu una breve stagione di baci, che andò a normalizzarsi in parallelo alla mia usurpata fama da play boy. Già alla
ripresa scolastica di settembre tutti si erano scordati che io ero quello che a
Vienna etc. etc. Così potei finalmente confessare ai miei amici che non era vero
niente. Guarda che lo sapevamo già mi risposero, figurati se uno come te…
Uno come me in che senso?
Io intendevo dire che lei, e io, e poi… E cominciai a
raccontare da principio tutta la storia, quella che avete appena letto.









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