martedì 28 ottobre 2025

Principi e rospi (mi ricordo 62)

Mi ricordo le feste di pomeriggio. Prima c'erano state quelle alle elementari, dove troneggiava la bottiglia conica della Fanta ed era sempre presente una mamma, una a caso che faceva i turni nell'ospitare i compagni di classe del figlio, a cui offriva una fetta di torta alle mele e il bidone del Dixan. Per fortuna, al suo interno, la polverina azzurra era stata sostituita dai mattoncini colorati del Lego.

Seguirono le feste delle medie, non troppo diverse: si aggiungeva alla Fanta la Coca-Cola e non c'era più la mamma, né il bidone del Dixan. In compenso, se la casa apparteneva ai genitori di una ragazza, subentravano i 45 giri di Umberto Tozzi e Claudio Baglioni, mentre Born To Be Alive di Patrick Hernandez e On the Road Again dei Rockets erano appannaggio dei maschi, prima che la colonna sonora della Febbre del sabato sera stabilisse un unanime consenso di genere. Ma le feste a cui penso io sono quelle dei primi anni alle superiori.

I luoghi in cui avvenivano continuavano a essere privati. Non si trattava però di vere e proprie abitazioni, o meglio lo erano state, case di campagna dei nonni, vecchi zii morti che avevano lasciato il poco che avevano in eredità, e ora i nipoti ci facevano un festino. Venivano chiamati locali, per quanto fossero presenti più camere e almeno un soggiorno, in cui ballare e bere e fumare. Qualche canna e poco altro, riguardo allo sballo.

C'è una festa nel locale di Tal dei Tali, si diceva. Oppure in un locale a Caiolo, Chiuro, Mossini… E vai tu a sapere a chi appartenesse, ma era girata la voce e si andava lì e si provava a imbucarsi. Di solito andava bene.

La stanza più defilata veniva adibita a guardaroba, con i giacconi buttati su un vecchio materasso posato al suolo che possedeva un’altra funzione, facilmente intuibile. Bastava entrare, un po’ a tentoni per via dell'oscurità, le tapparelle erano abbassate e la porta andava mantenuta chiusa, ehi fai attenzione! Ma se chiedevi scusa al paio di coppie già lì presenti e non viste, ti facevano volentieri spazio, e così potevi a tua volta limonare. Dovevi però prima trovare una ragazza che fosse disposta a farlo.

Non era difficilissimo, per essere onesti. Anche perché non era tanto importante sapere a chi appartenesse il cavo orale da perlustrare, ma il ritorno al Bar Sole il lunedì successivo (di norma le feste pomeridiane avvenivano il sabato o la domenica), dove raccontare della nuova conquista agli amici. Sospetto che anche tra le ragazze avvenisse qualcosa di simile, contribuiva ad aggiungere palline all'abaco del proprio prestigio sociale. 

A me capitò di appartarmi con una ragazza che odorava di sambuco e aveva due tette belle sode, ma scoprii il giorno successivo che passava per essere la più brutta dell’intero istituto linguistico. Dico passava perché c’eravamo a malapena presentati, giusto un po' di strusciamenti sulle note di Enola Gay (non si sa come la trasformammo in ballo lento) e poi subito sul materasso. Ma è quanto sosteneva quella carognetta di Paola – d’altronde se non lo sapeva lei, che frequentava lo stesso istituto. E così cominciò ad andare in giro a dire: Oh, lo sapete, Hauser ha limonato con la XXX! E giù tutti a ridere.

Io avevo anche provato a negare: No no, si trattava di un’altra scongiuravo – e per quanto ne sapevo avrebbe anche potuto essere vero –, un’altra molto carina, figurati se mi metto con la XXX… Ma pare che qualcuno fosse presente all'inciucio, e avesse riportato la gravissima colpa a quel megafono di Paola.

Non sono certo orgoglioso dei miei balbettanti tentativi di scagionarmi. Ma negli adolescenti, maschi e femmine, il patriarcato non c'entra nulla, è presente un sentimento feroce e primitivo, un darwinismo estetico dove ciò che davvero importa non è chi è più adatto alla riproduzione, l'adattabilità richiesta è quella alla copertina di Vogue. E come in tutti i sentimenti tribali agisce il principio di metonimia: se tocchi un'intoccabile, diventi intoccabile anche tu.

Milan Kundera sostiene che agli uomini piacciono le donne belle, mentre alle donne piacciono gli uomini che stanno con le donne belle. Messa così suona un po’ tranciante, ma è un fatto che da quel giorno cominciai a essere ignorato dalle ragazze. E sì che avevo tutte le carte in regola: andavo male a scuola, impennavo in motorino, a braccio di ferro sapevo farmi valere. Ero anche piuttosto belloccio, ma avevo baciato una donna brutta. E questo mi aveva convertito in rospo.

Continuavo a frequentare le feste nei locali, quando però invitavo una ragazza a ballare ricevevo risposte elusive, no, guarda, ho mal di testa, oppure magari dopo, adesso devo andare in bagno, e poi la sentivo ridere con l’amica: Lo sai chi è quello? È il tipo che ha limonato con la XXX.

A fine maggio andai in gita a Vienna. Non si trattava di una gita scolastica: era organizzata dal Comune, e così trovai ragazzi che non conoscevo e soprattutto non mi conoscevano. Perlopiù frequentavano il liceo scientifico, mentre io ragioneria. Mi trovavo dunque a un livello gerarchico inferiore – in quegli anni il classico aveva perso molto del suo storico blasone, i figli della borghesia sondriese erano migrati allo scientifico –, ma se non altro non sapevano del fattaccio che mi aveva precipitato nel girone dei superflui.

Mentre stavo discutendo con Fabio se fossero meglio i Genesis o i Pink Floyd, ci accostò una ragazza che come noi si era staccata dal gruppo. Occhi azzurri, capelli lunghi con colpi di sole, camminata neghittosa da ricchi in ciabatte; un po’ in stile Totò ospite nella villa caprese di Franca Valeri, in Totò a colori. Si rivolse a me con il tono di chi offre, non di chi chiede, il roseto di Wolksgarter faceva da cornice. Io mi chiamo Elena disse soltanto. Io Guido, piacere.

Da quel giorno diventammo inseparabili, occupavamo sedili affiancati sul pullman, a pranzo mangiavamo le stesse pietanze, e quando mi indicava qualcosa dalla cima della ruota del Prater, io annuivo col capo mentre pensavo: Ma quanto è bella?! Che mi frega di quel punto lontano, quando ho qui vicino la cosa più bella nell'arco di centinaia di chilometri.

Probabilmente era un’iperbole, ma, se non dell’intera Austria, Elena aveva in effetti fama di essere la ragazza più bella del liceo scientifico, dove frequentava il quarto anno. Aveva tre anni più di me, che a quell’età sono tanti da scalare, e ciò rendeva più fiammeggiante la bandiera da conficcare sulla vetta. Stessa storia del passato, insomma. Solo a meriti invertiti.

Andava avanti così già da un po’, se non erano i miei occhi a cercare i suoi erano i suoi a trovare i miei, nel camminare lungo la Ringstrasse le nostre mani si univano, ma baci ancora niente. Gli altri intanto rosicavano: non andava giù che un collega di Fantozzi, un primino per giunta, se la facesse con Miss Liceo Scientifico Carlo Donegani. Cercarono perfino di passare a vie di fatto, ma alle medie avevo imparato a difendermi: per vanificare la punizione prevista era bastato un thermos di metallo, brandito come il martello di Thor.

Nulla però succedeva nemmeno con Elena, tutta quella bellezza mi intimoriva. Restava l’ultima notte. Ci accordammo per dormire assieme, avevo già preparato il piano d’azione, le cose da dire e il momento in cui tacere e accostare le mie labbra alle sue. Pare che gli sciatori facciano qualcosa di simile: mimano ogni futuro movimento del corpo dentro la testa, prima di varcare il cancelletto di partenza con un colpo di reni.

L'appuntamento era stato fissato alla fatidica mezzanotte. L'ostello viennese aveva una sezione maschile e una femminile, poco male se ci sarebbero stati altri maschi a origliare dai quattro letti a castello presenti nella camera, così la mia rivincita avrebbe fatto più scalpore. Ma che succede? I due accompagnatori, un uomo e una donna, erano probabilmente caduti preda dello stesso sentimento, e sul divano sistemato nel corridoio che divide le due sezioni continuavano a parlare a parlare a parlare.

Erano già le tre di notte, e non si erano ancora dati una mossa. Andò a finire che io passai la notte nel letto a sussurrare con Fabio – il nodo da risolvere era ora diventato: Dalla o Battisti? , il quale aveva fissato un convegno notturno con un’altra ragazza, che a sua volta aveva dormito assieme a Elena. Non so di cosa avessero parlato loro, ma la gara era terminata e lo sciatore rimasto al cancelletto.

Alla mattina il pullman imboccò l’A2 Süd Autobahn verso l’Italia, dove i telegiornali erano passati dalla P38 alla P2, il governo Forlani traballava e si preparava a subentrargli Spadolini, pochi giorni dopo Alfredino Rampi sarebbe scivolato in un pozzo artesiano. Io naturalmente feci tutto il viaggio accanto a Elena, con le cuffiette del Sony ascoltavamo entrambi una canzone di Finardi dal titolo Trappole. Non la rividi più. Nemmeno un bacino sulla guancia quale addio all'arrivo in piazzale Valgoi.

Eppure era comunque accaduto qualcosa. A Sondrio cominciai a essere fermato per strada da ragazzi più grandi di me, addirittura universitari: Ma tu sei quello che si è fatto l'Elena? Ma davvero, come ci sei riuscito? Io dicevo e non dicevo, come il dio di Eraclito mi limitavo ad accennare, lasciavo intendere. A domanda diretta mi affidavo a segni del corpo ed espressioni allusive del viso.

La voce doveva essere nel frattempo arrivata anche alle ragazze, quando andavo alle feste nei locali di paese nessuna più si rifiutava di ballare con me, qualcuna perfino si proponeva. Un’inversione dei ruoli che un po’ mi imbarazzava, ma poi mi dicevo: e quando ti ricapita più? Mi lasciavo allora corteggiare, sedurre, condurre per mano sul materasso. Il rospo era diventato principe.

Fu una breve stagione di baci, che andò a normalizzarsi in parallelo alla mia usurpata fama da play boy. Già alla ripresa scolastica di settembre tutti si erano scordati che io ero quello che a Vienna etc. etc. Così potei finalmente confessare ai miei amici che non era vero niente. Guarda che lo sapevamo già mi risposero, figurati se uno come te…

Uno come me in che senso?

Io intendevo dire che lei, e io, e poi… E cominciai a raccontare da principio tutta la storia, quella che avete appena letto.

domenica 26 ottobre 2025

Un puledro senza nome (mi ricordo 61)

Mi ricordo che il nonno aveva acquistato un puledro. Di solito commerciava in bestiame, ma quella volta, al rientro dalla Fiera di Maggio a Borghetto, nella stalla c’era anche un cavallino tutto nero. È per te mi aveva detto, è tuo.

A me la cosa aveva lasciato un po’ spiazzato: mi piacevano gli animali, ma avevo confidenza con quelli a mia misura – cani, gatti, se la nonna non vedeva prendevo in braccio un coniglio, oppure un pulcino che però non sembrava tanto contento. Ma non sapevo bene come ci si dovesse rapportare con i cavalli, e poi non ne conoscevo il nome.

Lo chiesi al nonno che alzò le spalle. Non ha un nome, daglielo tu. Di getto mi venne Tornado, così chiamava il suo cavallo nero  quando non la faceva con un fischio  Don Diego de la Vega, in arte Zorro. Ma c’era un nuovo telefilm che ne stava scalzando la popolarità, il cui protagonista era un cavallo dello stesso colore. Quasi quasi... pensai, e dopo nemmeno una settimana gli cambiai nome in Furia.

La mattina andavo a scuola e il pomeriggio passavo dalla fattoria dei nonni per trovare Furia. La vita di campagna è ripetitiva, ciclica avrei imparato più tardi a definirla, mentre a scuola si imparano sempre cose nuove. In quel periodo la maestra ci aveva parlato di Alessandro Magno, e il nome del mio cavallo mutò nuovamente in Bucefalo. Quando qualcuno mi chiedeva conto della scelta mi piaceva fare sfoggio di cultura.

Ma ormai ci avevo preso gusto, e così Bucefalo divenne in seguito Goldrake, quindi Nerone, Roberto, Geghegè… Ogni volta lo chiamavo con un nome diverso. Lui mi guardava con occhi grandi e scuri come il suo manto, ma non sembrava turbato. Semplicemente si girava al suono di qualsiasi vocalizzo, alla ricerca di una parola, una a caso, a cui aggrapparsi.

Quando provai a dare uno zuccherino a Pierpaolo – era il nome che gli avevo assegnato quel giorno – mi sorpresi nel vedere gli incisivi ampi e giallastri, e ritrassi la mano spaventato. Sei troppo grande Pierpaolo, sei troppo cavallo.

Le mie visite cominciarono così a diradare, non andavo più tutti i giorni a introdurre dell'erbetta fresca nella mangiatoia; e poi a trovare chi, non mi ero ancora risolto per il nome. Un giorno non lo trovai più nella stalla. Dov’è Black? chiesi. Il nonno fece nuovamente spallucce. Conoscendo i suoi traffici, non è difficile immaginare... Dicono che la bresaola di cavallo faccia bene a chi ha carenza di ferro.

Ma perché ne scrivo a distanza di quasi cinquant’anni? Perché si ripresenta di continuo l'immagine di un cavallo senza nome, non è statica ma mi dà dei piccoli colpetti con la fronte, come fanno gli animali per chiedere qualcosa?

Forse proprio per questo. Mi facevo vanto di conoscere la storia di Alessandro Magno, ma non sono stato in grado di replicare una grandezza più accessibile: dare un nome a tutto ciò che è vivo e palpitante, dopo che Dio chiamò la luce giorno e le tenebre notte, l'asciutto terra e la massa delle acque mare. O perlomeno è quanto viene detto in Genesi.

Non metterei la mano sul fuoco della citazione biblica – l'Accademia della Crusca tende a dubitare delle etimologie divine –, ma perciò diviene tanto più importante imparare a farlo da soli; come a un certo punto si impara ad allacciarsi le stringhe, si dovrà sviluppare l'arte di nominare ciò che si affaccia allo sguardo, smettendo di sbirciare l'etichetta che hanno le hostess sulla blusa. In fondo è il gesto che davvero ci rende umaniC’è una poesia di Osip Mandel'štam che continua a commuovermi, la trascrivo per intero:

Minimo con minime ali

un corpicino ruota nel sole,

minuscola nell’empireo

brilla una lente ustoria.


Un niente di zanzara

allo zenith sibila in pianto

e, fioco ronzare di càribi,

geme una scheggia nell’azzurro.

 

«Non dimenticarmi, puniscimi,

ma dammi un nome, dammi un nome!

Si sta meglio, sai, con un nome

nel profondo gravido azzurro!»

La mia colpa non è stata dunque quella di non avere saputo evitare la macellazione – probabilmente rientrava già nei piani del nonno, i contadini su certe cose vanno per le spicce – ma di avere lasciato che il puledro tornasse al “profondo gravido azzurro” senza un nome. È invece tornato al modo in cui è venuto: confuso tra gli altri cavalli neri di pelo, indistinguibile nel magma delle possibilità inespresse. Non sono solamente le vacche ad apparire uguali quando cala la sera.

Eppure bastava un nome per farlo risplendere. Non gli è stato dato, ed era un compito che spettava a me. Posso però farlo adesso, la scrittura mantiene con la memoria un rapporto ambivalente, di fedeltà e lieve scarto, reinvenzione. Per farla breve: come accidenti ti chiamo?

Ti chiamerai Fratello, è questo il tuo nome. Fratello. Non ci saranno nuovi nomi ad alimentare lo smarrimento, in quelle otto lettere la differenza che ti spetta. Da pronunciare tutte quante, mi raccomando, non valgono le scorciatoie giovanilistiche, che a nessuno venga in mente di chiamarti Fra!

Ma permettimi, di tanto in tanto, di ricordarti con il vezzeggiativo, pensando a te come a un fratellino mandato a letto senza cena. Quando l'antipasto alla vita consiste in una parola che, nella sua unicità, rifletta quanto di unico ciascuno possiede, un puledro non meno del Maestro Venerabile di una loggia massonica, con la sua ridicola clamide. A seguire qualche zuccherino, a rendere più sopportabile il morso, la sella, gli speroni nei fianchi. Per poi finalmente diventare solo la pace sazia del proprio nome.

È stato solamente un sogno (mi ricordo 60)

Mi ricordo del ricordo di un sogno, si sfilaccia ed evapora in una nuvola di immagini scomposte, bizzarre, come tutti i sogni. Col passare del tempo non so nemmeno se sia davvero avvenuto, o me lo sia messo in mente finendo con l'esserne sognato. Una mia coetanea vi partecipava, siamo stati nella stessa classe sia alle elementari che alle medie, sempre nella sezione effe. Si chiama Silvia da quanto non la vedevo? Saranno stati quindici anni, forse venti...

Probabile. Ma se voglio ritrovare una memoria nitida devo risalire al Carnevale del 1975, quarta elementare. Io mi ero presentato a scuola vestito da direttore del circo – avevo fatto un po’ di fatica a recuperare la tuba, la giubba rossa con i bottoni dorati apparteneva a mia nonna – mentre Silvia da damina del Settecento.

La gonna conteneva un’anima di metallo, se provava a sedersi faceva leva sulla sedia e si sollevava la parte anteriore, mostrando a tutti le parti intime. Corrado Lapsus veniva mandato ogni tanto in avanscoperta: con un gesto rapido alzava il grembiule scuro alle compagne, oplà. Ne ritornava una sberla sul volto impassibile di Corrado, un Buster Keaton di nove anni, al tempo stesso martire e stalker nello svelare per un attimo il candore delle mutande. Ma così era troppo facile.

Alla fine, dopo alcuni tentativi, Silvia decise di rimanere in piedi. Noi con i gomiti appoggiati sui banchi a sbranare chiacchiere e tortelli; lei al centro della classe come un monumento, un’installazione artistica, un capolavoro. Bella è sempre stata bella, per quanto, a volte, il tempo somigli ai fanatici religiosi. Gente barbuta che abbatte le statue di un dio disallineato al presente. Mi piacerebbe rivederla.

La mattina successiva al sogno ho il richiamo della vaccinazione anti Covid. Ore 10.00, presentarsi alla 9.50 con codice di prenotazione UNLXNSBIFRMRMYC. Portare un documento identificativo in corso di validità, continua l'SMS di conferma, e la tessera sanitaria.

Quando è il mio turno entro nel box e trovo l’infermiera di spalle; sta aspirando con la siringa un intruglio che già immagino scorrere minaccioso nel mio sangue. Si gira e mi chiede: “Spalla destra o sinistra?”

“Sinistra direi, ma tu…?”

“Sì, mi hai scoperta". Con queste cose sulla bocca", e indica la mascherina dietro cui sta forse sorridendo, "non ti avevo riconosciuto subito nemmeno io. Come stai, Guido?”

“Bene, sì, insomma… E tu, abiti sempre a Sondrio, ti sei sposata, hai figli?”

Non presto attenzione alle risposte mentre parla – eppure mi interessa davvero sapere, riempire l'album dei ricordi con le figurine mancanti – ma sto pensando se dirglielo o meno, e nel caso come.

“Silvia lo sai che questa notte ti ho sognata” la interrompo in una sola rapidissima emissione di fiato, si ingolfa in quella cosa che tengo anch'io sopra la bocca. Replico allora il suo gesto e punto l'indice alla mascherina, fingendo di attribuirgli la mia goffaggine. Sembra l'inizio di una canzone di Luca Carboni.

“Davvero?!” risponde lei con un tono di sorpresa che appare accentuato e artificioso, quasi a nascondere una notizia che già conosceva. 

“Sì, ma non preoccuparti: non facevamo cose strane… Eravamo vestiti. Non si vedevano le mutande, come quella volta a Carnevale.”

Speravo di farla sorridere nuovamente, ma resta seria, concentrata sulla siringa. Si è scordata dell’episodio. Provo a raccontarglielo ma mi anticipa: “Fa lo stesso, andava bene uguale."

Una collega sopraggiunge e le domanda qualcosa. Risponde. Quindi mi invita, sempre a gesti, ad abbassare la spallina della maglia di caldo cotone, e continua: "Quello che facevamo facevamo. Tanto si trattava di un sogno, no?”

"Sì, era un sogno. È stato solamente un sogno." 

Mi infila l’ago nella spalla senza preavviso, poi preme lo stantuffo con una delicatezza che sembra contraddire l'impeto iniziale, i ballerini nel tango fanno qualcosa di simile. Non sento nulla. Preferisco quando le iniezioni fanno male, mi sembra che per stare bene si debba soffrire un po', non tanto, solo un po’. Al termine mette un cerottino come quelli che ricoprivano le ginocchia dei bambini degli anni Settanta.

“Posso andare?” dico.

Mi fa un cenno di assenso con il capo.

“Allora ciao, Silvia.”

“Ciao Guido.”

“…”

“Aspetta” mi dice quando sono già arrivato alla tenda del box, “nel sogno eravamo come adesso, sì, insomma, vecchi… o come una volta?”  

sabato 25 ottobre 2025

Ya tenemos todo, o su quando un uomo muore

Quando un uomo muore arriva un altro uomo

a cambiare l'etichetta del citofono,

scade il suo Bancomat ma non la carta punti,

il supermarket continua a segnarli

sulla tessera dell’uomo morto:

Ovomaltina, salmone, zucchine,

totale trentasette punti.

Trascorsi pochi mesi, i figli

li riscattano avendo una terrina

decorata con l’immagine della Pimpa.

Volete un accendino, un braccialetto?

domanda un nero nel piazzale.

Non ci interessa, grazie, abbiamo già tutto.

Quando un uomo muore l’orologio

(purché non sia placato in oro)

passa al nipote più bravo a scuola,

i maglioni vengono donati alla Caritas

e le mutande rimangono nei cassetti;

ma poi vengono buttate 

assieme all'etichetta del citofono.

Cosa ne facciamo del cane?

È un cagnetto fulvo, meticcio,

ha smesso di mangiare e si fa magro magro.

Un tempo si ingozzava di crocchette

e al suono del citofono abbaiava,

difendeva il territorio dai ladri,

dalla sventura, dal male.

Quando un uomo muore

se qualcuno prova a citofonare

risponde una voce di donna

e dice in una lingua diversa e ostile:

No me importa, gracias, ya tenemos todo.

mercoledì 22 ottobre 2025

Do The Right Thing

A distanza di una settimana posso finalmente confessarlo. Il testo che ho pubblicato nei giorni scorsi su Facebook, con titolo Pregiudizi, non era un post per così dire normale, ma un esperimento meta-narrativo.

Mi sono detto: proviamo a scrivere qualcosa che contenga il maggior numero di "nemici" (nella fattispecie erano sei: più nemici che brevi paragrafi), e vediamo se quel che penso dei social corrisponde a verità...

Non è difficile trovare dei nemici – in ciò il mio post era veritiero –, e sputargli addosso è il gesto più comune e spontaneo. Dopo pochi secondi la saliva si è riformata, e si può sputare di nuovo.

Dalla ricezione ho avuto conferma al mio sospetto, ottenendo una quantità di letture, commenti e like ben superiori alla mia media del periodo, comunque contenuta. Avevo fatto tombola.

Ma perché l'esperimento fosse completo mancava la prova inversa, e perciò, trascorsi pochi giorni, ho pubblicato un nuovo scritto. Si intitola Angeli e diavoli e rientra nel ciclo che ho chiamato delle iniziazioni.

Si tratta di brevi racconti a sfondo biografico, accomunati dall'incipit mi ricordo. Le memorie riguardano circostanze in cui la vita è sembrata essere meno avara di senso, concedendo un tassello del suo segreto. Un po' come in certi quiz televisivi dove si acquista una vocale.

Prevedevo, a naso, l'esito, e in effetti ci ho preso di nuovo: Angeli e diavoli è stato lo scritto meno gradito nello stesso lasso temporale, ma potrei forse dire da sempre. Eppure era da tutti punti di vista superiore al precedente, e non mi sto lodando e sbrodolando da solo. Era l'altro a essere modesto.

Nel passato era già capitato qualcosa di simile: emozioni primarie (bambini o animali feriti), lutti, sarcasmo, semplificazioni avevano sempre fatto lievitare l'audience. Anche ammiccamenti sessuali, che non sono il mio forte. Ma soprattutto fare branco e mordere. Questa era però la prima volta che disponevo le alternative con malizia.

Ciò mi conferma che i social, per molte ragioni, rappresentano un ribaltamento prospettico; o forse sono la radicalizzazione di un mondo già di suo capovolto. Sballato.

Alcune di tali ragioni mi pare di comprenderle, perfino di condividerle con una parte profonda di me. Se non altro viene meno l'ipocrisia, e dunque va bene così. Scriveva Baudelaire a introduzione dei Fiori del male: “Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!”

Anzi, in un certo senso va pure meglio: l'insuccesso social rappresenta un prezioso indicatore, almeno quanto il successo letterario. Sono entrambi fari che orientano la rotta in assenza di stelle. Bravo Guido mi dirò, oggi sei quasi riuscito a renderti invisibile. Ma puoi fare ancora meglio.

Solo quando avrò realizzato il post perfetto, quello da zero like, saprò di avere fatto la cosa giusta. E potrò abbandonare una parola che si vuole pubblica per auto incoronazione, alla maniera di Napoleone con la Corona Ferrea: “Dio me l’ha data, e guai a chi me la tocca!”

Sì, in fondo desidero solo andarmene – da dove? Forse da tutto ciò che Dio ha delegato all'uomo di malnominare, quando ogni congedo implica la speranza di un vocabolario più degno – senza sbraiti e commedie, in punta di piedi.

Andarmene come Chance il giardiniere nella sequenza conclusiva di Oltre il giardino. La bombetta in testa. L'ombrello chiuso in pugno. Camminando sull’acqua finalmente quieta di uno stagno.

domenica 19 ottobre 2025

Pregiudizi

È presente in me un pregiudizio duro a morire: penso che le persone che mi sono simpatiche debbano avere anche ragione, e viceversa. Certo, il concetto di ragione è ampiamente discrezionale (gli americani l’hanno compreso, e hanno una magistratura elettiva e un diritto con una forte componente giurisprudenziale), ma è una bussola preziosa che ci aiuta a orientarci nel mondo, evitando di andare a sbattere.

In politica, ad esempio, il mio pregiudizio funziona benissimo: Salvini mi è antipatico, e trovo che abbia anche torto. Capezzone ancora più antipatico, Vannacci, Giuliano Ferrara, la Santanché, questa la top five delle mie antipatie; ma potrei continuare. Tutta gente che vedo sprofondare nelle sabbie mobili del torto marcio.

Negli ultimi tempi il pregiudizio ha però cominciato a scricchiolare. Già con Berlusconi – simpaticissimo, e però quanto al resto… – qualche dubbio mi era venuto, ma ora con Francesca Albanese è definitivamente cascato il castello di carte.

Come si fa, mi chiedo ogni volta che Albanese compare in televisione, ad avere quella supponenza, quel sotuttoio, quell'indice perennemente levato? Non la pensi come me, e allora non vali un cazzo. Anzi sai cosa ti dico: me ne vado! La palla è mia e non si gioca più.

Questa è Francesca Albanese, dai è lì da vedere. Eppure non ho ancora sentito una sua affermazione con cui non sia almeno un po' d’accordo. Continuerà a essermi antipatica, intendiamoci, ma devo ringraziarla per avere estirpato il pregiudizio. Grazie Franci, adesso so finalmente distinguere le persone dalle loro idee.

venerdì 17 ottobre 2025

Angeli e diavoli (mi ricordo 59)

 

Mi ricordo di un treno e di un campo da minigolf. È curioso che i due ricordi si presentino accoppiati, oltre all’incongruenza dell'oggetto sono separati da oltre vent’anni. Partiamo con ordine, è il 1970, in Italia un referendum ha reso possibile il divorzio, Adriano Celentano e Claudia Mori vincono il Festival di Sanremo con Chi non lavora non fa l'amore. Tutte cose che sfuggono a me e a mio cugino Paolo, siamo molto più interessati al minigolf di Bormio. Come al solito ci ha accompagnati il nonno Pinin, se lo perdiamo di vista su via Roma basta guardare in alto  ma non troppo in alto  e cercare il suo cappelletto di velluto a coste marrone.

Una delle nostre buche preferite presenta una configurazione a L. Il tratto di partenza è lineare, si deve indirizzare la pallina verso una specie di castello con un ampio foro d'accesso, da cui fuoriesce, dopo una curva a gomito non visibile dall'esterno, per dirigersi allo slargo conclusivo. Da un punto di vista tecnico non presenta particolari difficoltà, e perciò è stata collocata all'inizio del percorso. Tutto facile, a meno che non si mettano di mezzo due guastafeste di cinque e quattro anni – Paolo ed io.

Sufficientemente piccoli da intrufolarci attraverso il foro anteriore, nascosti nel ventre del castello intercettiamo la pallina, per rigettarla, in apparente barba a tutte le leggi della fisica, nella stessa direzione da cui è arrivata. Un passatempo che allora ci faceva molto divertire, un prequel di Scherzi a parte: il giocatore assumeva l'espressione di un bracco quando non capisce qualcosa, e storce il capo dalle lunghe orecchie pendule. Ma non doveva uscire dall'altra parte...?

Stacco. 1992. A vincere Sanremo quest'anno è Luca Barbarossa con Portami a ballare. Sulla macchina del padre di Vitto, una Golf turbo diesel bianca, noi però ascoltiamo un vecchio album di Francesco De Gregori. La meta del viaggio è scivolata nell’oblio, ma la strada è la statale 36; d'altronde, altre strade qui non ci stanno. Appena fuori Sondrio si trova Poggiridenti, un tempo si chiamava Pendolasco ma Mussolini lo trovava un nome poco virile, e così fu sostituito in uno slancio di buonumore, per quanto i poggi siano il ripido versante retico. A Poggiridenti c’è un passaggio a livello. Il passaggio a livello è chiuso. Dunque sta arrivando il treno, e fin qui tutto normale. Se non che tra le sbarre abbassate è presente un'auto.

Io e Vitto ci guardiamo, suo padre non c'è, ha messo solo il mezzo e il gasolio, a volte con i figli va così. Boh, e proseguiamo accompagnati dalla voce nasale di De Gregori, la canzone riprodotta dall'autoradio è Buffalo Bill. Ma dopo poco ci guardiamo nuovamente – forse è meglio tornare indietro a vedere, che dici?

Si tratta di una Fiesta verde pisello (mi sono sempre chiesto quale colpa debba espiare chi acquista auto e abiti verdi), al posto di guida troviamo un anziano completamente ubriaco: ha posato il capo sul volante e sta ronfando alla grossa. Stranamente, all'interno del veicolo non c'è odore di vino, ma di salsicce. La situazione ci è comunque chiara, resta solo da capire chi lo fa, mentre l'altro prova a risvegliare l'ubriaco e chiama soccorso. Ci penso io dico con tono solenne, e mi avvio lungo i binari in direzione Tirano. Dallo sferragliare appena udibile ho intuito che il treno proviene da lì.

Nei film americani sulla Grande Depressione la gente cammina per miglia lungo binari che volgono al tramonto. In realtà è scomodissimo procedere nell'alternanza di transenne e massicciata, ma per fortuna, dopo nemmeno cinquanta metri, compare il treno all'orizzonte. A quel punto divarico braccia e gambe alla maniera dell'uomo vitruviano, facendo ampi segni al conducente. Possiamo tornare a vederla come un film, e però di Sergio Leone. Uomo contro treno.

Che cavolo, avrà pensato quello, io sono tonnellate di alluminio ad alta resistenza, acciaio inox, klevlar, e tu una semplice X: spostati! e comincia a fischiare. Ma insisto. No, sei tu che ti devi fermare, sono io, sei tu…  Un tira e molla che comincia a farsi rischioso – si trova ora alla distanza da cui il cacciatore prende la mira per sparare al bisonte –, quando si sente un acuto stridore di freni, ricorda il suono del gesso sulla lavagna. La motrice si arresta a una manciata di passi dal mio corpo, il cacciatore si è convertito in bisonte che a sua volta è divenuto mansueto. Lo fisso con occhi increduli.

Ho fermato un treno. Cazzo, ho fermato un treno!

Ma torniamo al minigolf, se ci pensiamo il gesto è il medesimo: esiste una direzione, possiamo anche chiamarla destino, e due marmocchi che, messi uno sopra l'altro, non arrivano alla statura di Dino Meneghin, l'hanno invertito. Un destino di poco conto, d’accordo, con cinquecento lire ci facevi diciotto buche, ma comunque un destino. Nel caso del treno il destino sarebbe invece stato drammatico, il passaggio a livello si trova dopo un rettifilo a cui segue una semicurva preceduta da un capannone a ridosso dei binari, era impossibile prevedere la presenza della Fiesta. Un botto certo, che avrebbe offerto inchiostro ai giornali locali per almeno due settimane.

Invece ogni cosa è rimasta com'era, nemmeno una tinteggiata all'orribile verde pisello della carrozzeria, le salsicce sul sedile posteriore, la vita è rimasta vita. Per quanto la multa che, in seguito, si è preso l’ubriaco, sarà stata talmente salata da impegnare i restanti anni per ripagarla. Ma non è vero che la locomotiva ha la strada segnata – lo continua a ripetere Francesco De Gregori, tutto è avvenuto così in fretta che la canzone non è ancora conclusa – mentre il bufalo può scartare di lato e cadere.

Macché, anche la locomotiva può scartare di lato e cadere, oppure può essere fermata dalle braccia mediamente muscolose di un ventenne, e le palline da golf possono percorrere una direzione inversa all’abbrivio. Nessun programma determinato dall'equazione che combina le condizioni iniziali, per dirla forbita. Ma neppure libero arbitrio. L'esito di un semplice giro di minigolf non è deciso dal giocatore, non interamente almeno: bastano due diavoletti nascosti in un castello a boicottarne i piani; e nella sorte del proprietario della Fiesta sono intervenuti due angeli, di cui facevo sempre parte. Angelo e diavolo allo stesso tempo. Prima che le cose si manifestino, coppie ed opposizioni tramano confuse.

Resta da capire chi adesso siano gli angeli a fermare i treni in rotta di collisione – di norma nemmeno ce ne accorgiamo, anche noi ronfiamo alla grossa – e i diavoli a risputarmi puntualmente in faccia la pallina. Io con la mia mazza da minigolf sempre più arrugginita, ma non demordo, la rimetto in posizione e cocciuto tiro e ritiro e, se non bastasse, lo faccio ancora. Mentre la bocca spalancata del castello sembra farmi la linguaccia.

mercoledì 15 ottobre 2025

Comparazioni (mi ricordo 58)

Mi ricordo di quel cosino rosa, spuntava dal foro perfettamente circolare al centro di un lenzuolo verde che arrivava ben oltre l’ombelico e, a scendere, si arrestava alle ginocchia, anch’esse rosa ma dall’epidermide più spessa, specialmente sulla rotula. Una focalizzazione di stampo museale che aveva l’effetto opposto: non esaltava l’opera ma sembrava sminuirla, riducendo il gesto dell’artista a poca cosa. O magari era lo stato d’animo apprensivo, imbarazzo e timore si contendevano lo spazio psichico, riflettendosi su quello fisico. Sia quel che sia, ciò che intravedevo era ora minuscolo: ma davvero ho un cazzo così piccolo?

Ero attraversato da questi pensieri mentre due infermiere, alle spalle del medico che impugnava il bisturi, cominciarono a ridacchiare – ecco, lo sapevo: si burlano delle mie dimensioni. Ma forse la mente correva troppo, ci sono persone con l'espressione ilare, oppure avevano degli aneddoti buffi, sicuramente sarà così, è solo un po' di paranoia... No no, ridono propio di me. Bastarde! D’altronde, nemmeno negli spogliatoi, quando al termine della partita si girano le manopole delle docce e compare il Badedas, ero quello con più polpa da mostrare, c’era sempre qualcuno che mi superava in volume e lunghezza. Meglio non fare nomi per non sbugiardare la vanità degli altri.

I dubbi cominciarono però a venirmi molto prima. Nel masturbarci in soffitta, ognuno per suo conto guardando le copertine dell’Espresso, per la prima volta fui messo di fronte al principio di realtà: il mio amico D. l'aveva più grande di me; non di tanto, ma insomma vinceva lui. La scoperta era avvenuta a smaneggiamento concluso, quando ci confrontammo per vedere se quello fuoriuscito era già seme di maschio, oppure un’acquetta schiumosa ancora da bambini. Frequentavamo la prima media e Amanda Lear teneva banco con Tomorrowqualche mala lingua sosteneva che anche lei ce l'avesse, o perlomeno l'avesse avuto.

Molti anni dopo arrivò un altro colpo, la mia fidanzata dell'epoca non fece tanti giri di parole: Lo so cosa vorresti sentirti dire, ma ti racconterei una bugia. Il più dotato tra gli uomini che ho avuto non sei tu. Un marmista di Carrara, là sotto, non puoi immaginarti... Io finsi di essere seccato, ma in realtà non stavo nella pelle dalla contentezza: aveva detto uno, non tutti! Era l'inizio della redenzione, proseguita con una prostituta nigeriana. Tu cazzo grande mi disse, dopo esserselo rigirato tra le mani dai candidi palmi, come se fosse il giudizio professionale che, in effetti, era. Grande... beh, non direi: tutt’al più normale mi schermii io. Ho detto grande tagliò corto lei, e poi se lo mise in bocca senza consentirmi di replicare. E grande sia.

Così provai ad acquistare preservativi di taglia XL, ma mi stavano un po’ larghi e tornai a quelli normali. Normale, un aggettivo che ritorna continuamente nella mia vita, la pianura si impone sulle vette, il mare viene navigato per traiettorie orizzontali, manca lo scarto verticale del gabbiano dopo avere ghermito il pesce, uno degli innumerevoli sinonimi con cui viene nominato. Gli altri sono minchia, banana, verga, pacco, pisello, fava, nerchia, bigolo, proboscide, batacchio, pirla, mazza, belin... E si potrebbe continuare.

Eppure, dal lettino su cui mi trovavo disteso, di quella normalità avrei fatto volentieri bandiera, per poi sbatterla in faccia alle infermiere che continuavano a ridacchiare. Ma eravamo a una fase delicata dell’intervento, meglio non agitarsi. Il medico, intanto, continuava a incidere le maglie della cerniera dei miei jeans; come un Pitbull aveva azzannato la pellicina del prepuzio, e non c'era verso di fargli mollare la presa. Nel calzarli al risveglio mi ero fatto prendere dalla fretta, adesso lo so perché la chiamano lampo. Per mezz’ora avevo provato a cavarmi di impiccio da solo, ma quando la bilancia tra dolore e vergogna era precipitata verso il primo termine, ero corso a chiedere aiuto a una vicina di casa che mi aveva accompagnato al pronto soccorso con un R4 color crema. Giusto il tempo di indossare un impermeabile della stessa tinta per camuffare la situazione.

Ecco, a posto disse il medico dopo avere liberato gli ultimi dentini conficcati nella carne, e quale ciliegina sulla torta aggiunse una spennellata di mercurio cromo – oltre a essersi rimpicciolito, ora era anche fucsia. E mi raccomando, faccia attenzione la prossima volta che infila i blue jeans. Sì sì, certo, grazie. Posso rivestirmi dottore? che poi era l’unica a cosa a importarmi davvero. Da quel giorno indosso sempre e solo Levi’s 501. Invece della cerniera, sulla patta sono presenti cinque bottoni di ottone argentato.

Beatrice (mi ricordo 57)

Mi ricordo di Beatrice. È curioso ricordarsi di qualcuno che non si è mai conosciuto, nemmeno incrociato al bar o in coda alle Poste, dove gli occhi ingannano il tempo perlustrando i corpi dei vicini. Cosa più unica che rara in una città piccola come questa. Ma poi ho guardato meglio e ho visto che viveva a Ponte, un paese a una decina di chilometri da Sondrio noto per le sue belle mele rosse.

Andando a fare la spesa al supermercato di via Parolo, ho dato la solita scorsa al tabellone di metallo su cui vengono affissi i manifesti funebri. Da ragazzo li ignoravo sentendomi a mia volta ignorato. Morire, mi dicevo, è una cosa da vecchi, ci penserò quando avrò un orologio a cipolla e centrini all'uncinetto sul comò.

Nessun cognome, adesso è una cosa che si usa, il solo nome di battesimo produce maggiore intimità, specie se ti chiami Beatrice, come Beatrice Portinari. I commentari danteschi riportano che è morta a Firenze l'8 giugno del 1290, l'unico dubbio è se allora fosse nel ventiquattresimo o venticinquesimo anno della sua breve vita.

La ragazza sembra avere più o meno la stessa età, almeno al tempo della fotografia che accompagna la comunicazione del decesso. Sorride, un filo di trucco o forse niente, quello che si dice un viso acqua e sapone. È leggermente incongruo con il minimo tatuaggio amatoriale sull'avambraccio destro, una stella a cinque punte.

Il cagnetto bianco che abbraccia dovrebbe essere di razza maltese. Lei reclina il capo fino ad affondarlo nella pelliccia, l'animale le si affida fiducioso, una struttura a piramide dell'immagine che ricalca i dipinti rinascimentali della Madonna con bambino. E poi la frase virgolettata: "Il tuo sorriso era luce per chi ti amava, e ora illumina il cielo che ti custodisce."

Ho fatto una ricerca su internet, ma non viene riferita a nessuno in particolare: è semplicemente una frase di circostanza, probabilmente un'idea dell'agente delle pompe funebri. Sono rimasto colpito più da quello che sta scritto sotto: "Con infinito amore, il tuo papà."

Sul fatto che non siano menzionati fratelli, beh, potrebbe essere figlia unica, e gli altri parenti aver realizzato un manifesto autonomo. Ma perché l'infinito amore è solo quello del tuo papà, e non anche della tua mamma?

Forse è morta a sua volta, l'uomo è vedovo, cosa che renderebbe il commiato ancora più triste. O magari sono separati, e in un rapporto talmente logoro da non volere accostare il proprio nome alla donna che gli ha dato una figlia. Nemmeno in un momento in cui il cratere della scomparsa, di norma, rende le beghe di superficie tanto piccole. Ma in tal caso sarebbe una vicenda che dell'amore include la sua ombra, ortiche e crisantemi si intrecciano nella stessa corona. Rose e petunie.

Da qualche anno va così, mi commuovono i manifesti funebri degli sconosciuti. Da buon ipocondriaco formulo ipotesi sulla causa del decesso, che si allargano e trasformano in narrazioni ipotetiche di un'intera esistenza, castelli di parole in riva al mare. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul perché la letteratura di pura finzione sta perdendo colpi, pensi a Beatrice: ci costruisca attorno una storia.

Una storia che includa la maglietta grigia che indossa nella fotografia. Il tessuto sembra Poliestere, forse praticava qualche sport, anche io quando giocavo a pallacanestro portavo magliette simili, su cui risaltava il sudore in chiazze. I lunghi capelli castani, quando scendeva in campo, venivano legati in una coda di cavallo, e il cane alla sera capiva se aveva vinto oppure perso... Adesso chi lo terrà?

Lo immagino fermo davanti alla porta di casa ad aspettare la padroncina, come in quel film con Richard Gere. Ma soprattutto è la storia del suo papà. Possiede la stessa funzione narrativa di Dante nella Commedia: colui a cui viene consegnato il ricordo della gioia, una gioia sfiorata e persa. È troppo grande per una sola vita, e così, nella morte, diventa il dolore e la richiesta di senso di tutti.

Per la proprietà transitiva delle storie, da quando ho assimilato il ricordo di Beatrice anch'io mi sento offeso: avverto la sua perdita come ingiusta, sono stato privato della mia quota parte di un bene. In fondo, siamo tutti titolari e, al tempo stesso, oggetto di un azionariato diffuso dell'umano. E non attenua ma scava nella ferita il fatto che non sapessi di essere tanto ricco.

Ioana (mi ricordo 56)

Mi ricordo di un'operatrice telefonica di nome Ioana, ma prima dovevo parlare con decine di altri operatori telefonici, forse centinaia. Dopo avere ricevuto assistenza, il giorno stesso o, al più tardi, il successivo, arriva una mail per esprimere valutazione sul servizio. Mi dia un giudizio positivo, per piacere.

Te lo chiedono con la voce che si fa più bassa al termine della chiamata, come se ti stessero confidando un segreto – da non rivelare a nessuno, acqua in bocca. Sì sì, rispondo io. Le darò il massimo dei voti o delle stelline o di quello che è, cosa che poi faccio davvero.

A volte è possibile aggiungere un commento discrezionale, è lì calco un po’ la mano: Operatore gentilissimo e competente, problema risolto, mi raccomando non lo licenziate!

L’ultima frase in realtà non la scrivo, ma riassume il mio gesto. Un gesto che percepisco come eroico, sono orgoglioso di quel che ho appena fatto, mi sembra di avere gettato un salvagente a una persona che stava per annegare.

Quando vedo che esita, per pudore immagino, a pormi la richiesta, sono io ad anticipare le mie intenzioni. Grazie, grazie davvero replica l’operatore telefonico, e non si capisce se si riferisca al giudizio positivo o al fatto che l’ho sgravato dal compiere la questua.

A quel punto un po’ mi dispiace interrompere la telefonata, ormai mi sembra di parlare con un amico; di certo siamo complici e vorrei chiedergli come va: tutto bene con la fidanzata? Nel caso si tratti di una donna sono tentato di invitarla fuori a cena, o più cautamente per un caffè. Ma non faccio neppure questo.

Ci lasciamo così, buona giornata, buona giornata e buon lavoro a Lei, solo su Amazon ci si dà del tu. Ciao Guido ti viene detto già alle prime battute, io mi chiamo Ioana – eccola, finalmente è arrivata  e parlo dalla Romania. Ti va bene o preferisci un operatore italiano?

No, va benissimo. Gli italiani, specie quelli che votano per certi partiti, mi stanno mediamente sulle scatole. Ma taccio anche quest'ultima appendice. Oltre al fatto che me la sto immaginando con tutti gli stereotipi etnici del caso; dunque un po’ in stile entraîneuse, confesso.

Parte a razzo e termina dopo pochi minuti, la lingua di Dante assume un andamento beccheggiante tra le sue labbra, dalla musicalità modernista. Sembra Trapattoni durante una conferenza stampa in tedesco. Ma utilizza termini esatti e scolpiti, le persone che votano per quei partiti non so mica se li conoscono, probabilmente avrebbero dovuto cercare sul dizionario.

 C'è altro, Guido, che posso fare per te?

 Direi di no Ioana, mi sei stata di grande aiuto.

 Ho fatto solo il mio lavoro.

 Beh, alla prossima allora.

Accidenti, ho scordato di lanciarle il salvagente, i flutti stanno per inghiottirla. Una barchetta di carta che naviga nel grande mare del precariato. Giusto il tempo di udire quell’ultimo S.O.S. Non dimenticare di lasciarmi un giudizio positivo, per piacere per piacere per piac...

lunedì 13 ottobre 2025

Luna (mi ricordo 55)

Mi ricordo che avevo il mal di gola, e il mal di gola mi aveva fatto venire la febbre alta, e con la febbre alta le lenzuola si appiccicavano al corpo rilasciando un vago sentore di lavanda. Il letto, troppo grande, stava in un appartamento preso in affitto a Rimini, lo chiamavamo l’appartamento del colonnello perché apparteneva a un colonnello in pensione. Mi pare di vederlo mentre cammina impettito sul lungo mare di Rivazzurra, imprimendo ai piedi il passo marziale di una vita. Ha solo sostituito le scarpe nere con dei sandali da scoglio in lattice opalescente, dai quali risaltano le calze azzurre; lo si vede bene che sono azzurre perché indossa dei bermuda kaki. Impugna un guinzaglio, al capo opposto trotterella un barboncino di nome Spartaco, ma ci tiene a precisare che non è suo: È di mia moglie dice quando si ferma a parlare con qualcuno, cosa che fa spesso. I baffi del colonnello sono sottili, il resto del volto è ben rasato, a destra i capelli sono più lunghi così da consentire il riporto che prosegue in una treccia fulva con ampio fiocco finale  un colonnello con la treccia fulva?! Ho il sospetto che sia uno di quei trucchi che fa la memoria dei bambini, in realtà temo di non avere mai incontrato il colonnello, né il barboncino della moglie che, ammesso sia mai esistito, avrà avuto un nome diverso; forse Fufi o Maicbongiorno, che ne so. Quanto alla treccia, devo averla presa in prestito da Pippi Calzelunghe. Eppure, nel piccolo televisore in bianco e nero presente nella stanza accanto, potrei giurare di avere visto non soltanto Carosello e il Paese di Giocagiò, ma, proprio quella sera, una figura infagottata dentro una tuta bianca con casco e tubicini – un coso lo chiamo, il papà mi corregge: Si chiama astronauta. L’astr... ci provo ma inciampo in tutte quelle consonanti, meglio tornare a coso, il coso sporge la gamba da una scaletta, e io penso come si muove piano, sembra il parrucchiere quando taglia le basette. Poi prosegue e dice una frase, secondo me se l'era scritta prima: "One small step for a man, one giant leap for mankind." Un bambino di tre anni, sempre vissuto a Sondrio, che comprende l'inglese? A giudicare dall'espressione non hanno capito nulla neppure lo zio e il papà, ma anche loro si erano preparati da prima una bottiglia di Cinzano, e brindano a qualcosa che continuo a non capire. Al mattino la febbre è passata e mi portano in spiaggia, si trova a un centinaio di metri e così non c'è bisogno del passeggino. Da un juke-box lontano provengono le note di Lisa dagli occhi blu. Un tedesco, intento a spalmarsi la crema solare, si sovrappone alla voce di Mario Tessuto, anticipando di vent'anni il karaoke: Liza tagli okki blu canta con discutibile intonazione, sentza treze dort stezza non zei più. Pronuncia blu e più al nostro stesso modo, il resto è diverso e buffo e mi mette allegria. Lo zio cerca di frantumare con il cucchiaino di plastica una granita al limone, il papà è andato a gonfiare il canotto e la mamma mi ha consegnato paletta e secchiello – le formine me le dà dopo se faccio il bravo, e cioè se non mi piscio addosso – prima di cominciare a fare le parole crociate con lo sguardo velato da enormi occhiali da sole, sono uguali a quelli della zia. Ma la zia dov’è? Probabilmente a gonfiare il canotto anche lei, fa un po' per uno con il fratello nel pigiare un mantice di gomma, oppure è a trattare l'acquisto di una maschera africana, se spunta il prezzo ci riprova con un tappeto a losanghe. E i miei cugini? Perché non compaiano dentro il cono d’ombra dell’ombrellone a spicchi variopinti, perché nessuno gioca a paletta e secchiello insieme a me? E poi non mi sono pisciato addosso e ho diritto alle formine. Questo ricordo ha troppi pezzi che non collimano, perfino l'uomo che strilla Coccobello, nella sacca termica a tracolla, trasporta pelli di foca e catene da neve. Devo concludere che è nuovamente inventato. Di quel luglio del 1969 che scivola nell'agosto delle prime vere ferie di massa, le grandi fabbriche del Nord chiudono e al Sud comincia la raccolta dei pomodori, ricordo con certezza solo il mal di gola e i sogni febbrili, nei quali l'impronta di Neil Armstrong sulla luna si è trasformata nell’immaginazione della luna: realtà e fantasia sono agli esordi confuse, fino a quando non sopraggiunge la lama che spacca l'anguria con nettezza, e a ogni nuova fetta il mondo si fa più piccolo e definito. Nulla sì sa, tutto si immagina sosteneva Fellini, che da giovane sfiorava il colonnello facendo le vasche su Corso Augusto. Ma non è rêverie l’ingresso del bagno Tiki 26, dove accanto ai palmizi era presente un elefantino in fiberglass, le enormi orecchie pendule lo rendevano simile a Dumbo. Bastava inserire una moneta, montarci e sopra e lui cominciava a dondolare dolcemente. Sembrava di stare sulla luna.