giovedì 23 maggio 2024

Travestimenti

In genere le feste mi piacciono molto, tranne quelle di carnevale. Deve essere questo il motivo per cui, quando non riesco a evitarle, le scordo. Fa eccezione la festa di Carnevale del 1983. Ero andato a Teglio in una discoteca chiamata Aristea, curiosamente è anche il nome di mia madre. C'era un solo ragionevole requisito: bisognava essere in maschera. I miei amici, trovandosi lì già da un paio di giorni, si erano attrezzati, alla peggio recuperando una vecchia mantellina da Zorro. Arrivato all’ultimo momento io non sapevo cosa inventarmi...

Mi guardai allora in giro. L’interno, perlinato ad abete, di una solida villona da neo ricchi, dove eravamo tutti ospiti. La giovane proprietaria non faceva nulla per velare quello status, come si sarebbe invece fatto nel decennio precedente. Il suo partecipare al benessere di famiglia possedeva qualcosa di naturale – i soldi arrivano alla maniera degli agenti atmosferici, basta non aprire l’ombrello e allungare le mani –, in una continuità generazionale mai più vissuta con uguale convinzione. In alternativa, se eri povero, potevi sempre travestirti, e questo era il punto.

Qualcuno doveva avere pigiato il tasto play del mangianastri, la canzone riprese dal refrain dove era stata arrestata, lo stesso verbo che si utilizza per una vita a cui viene sottratta la libertà. Mi metto in tasca una piccola mela recita una voce nasale che conoscevo bene, mi metto in tasca una piccola mela, e la canzone torna libera. Lo stereo si trovava accanto al mobile bar. Mi avvicinai.

Dopo un’attenta disamina, estrassi una bottiglia di J&B tra le numerose presenti, e me la infilai nella cintola El Charro precedentemente allentata. Quindi afferrai una manciata di terra da un vaso di gerani ancora in bozzolo, la sparsi a casaccio sugli abiti (al rientro avrei raccontato che il giubbino Stone Island si era sporcato in un’accidentale caduta), un poco di terra anche sulla faccia poi risalendo con la mano ai capelli per arruffarli, così rovinando il recente taglio eseguito da Ciano all’Equipe 2000. Lo facciamo in stile Duran Duran mi aveva detto.

“Che ne dite?” chiesi.

Silenzio.

“Ma non vedete... sono travestito da barbone!”

“Aaah” fecero loro con scarso brio.

Un suono replicato dal buttafuori palestrato dell’Aristea, ce ne fosse uno che capiva senza doverlo spiegare. Con un alzata di spalle, boh, alla fine però mi fece entrare. L’avevo gabbato, come dice Abatantuono in un film uscito in quei giorni. Ciò che venne dopo è irrilevante alla storia, semmai cartolina da una lunga stagione di vacanza: io che danzo sulla pista a quadri luminescenti sulle note di I like Chopin e Vamos alla playa, e mentre gli altri pagano seimila lire per un Gin Tonic, prendo ampie e gratuite sorsate dalla bottiglia di J&B. Se incrocio una ragazza graziosa faccio il cazzone, posso farlo, un barbone è esonerato dalla divisa del questo non si dice questo non si fa; abbordo perfino un ragazzo, ma solo perché travestito da Suellen di Dallas.

Quando mi parlano di omeopatia, la cura di dubitabile efficacia dove il simile viene curato con il simile, a me viene in mente questo episodio. Forse è vero, l’epoca in cui alla parola giovane ancora mi giravo fu un grande Carnevale, un travestimento collettivo. Ma l’unico momento in cui sfiorai qualcosa che azzardo chiamare autenticità – potevo fare, e infatti facevo, tutto ciò che mi passava per la testa, senza pensare a come gli altri avrebbero reagito e giudicato – è stato travestendomi da me stesso, il re era finalmente nudo. Solo il bambino che impugna la penna e scrive ha saputo riconoscermi.

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