giovedì 30 maggio 2024

Il mondo di Cicci

Quando i telefonini cominciarono a incorporare una fotocamera, a nessuno venne in mente di rivolgere l’obiettivo verso di sé – i selfie arrivarono molto dopo. Erano piuttosto un surrogato dello sguardo, erano fotografia, e cioè porzioni di mondo eternate in uno scatto. Non ci volle molto a capire – e non solo per l’iniziale scarsa qualità delle immagini – che altre funzioni si spalancavano, a suggerirle era la continua disponibilità dell’apparecchio dentro le tasche.

Dalle foto di tramonti si passò agli animali domestici (gattini, cuccioli di Labrador, figli con medesima funzione ornamentale di un pony), quindi calciatori famosi incrociati a fare shopping nelle vie del centro, infine belle ragazze che venivano fotografate da dietro, così da non risultare molesti. E poi, il culo, è pur sempre il culo. Ci si scambiava quelle immagini un po’ goliardiche tra maschi, non credo ci fosse sessismo, piuttosto un semplice tributo alla bellezza, tanto più stordente quando in forma di epifania: non stava lì ad aspettarti da secoli come la Cappella Sistina, incrociavi una bella ragazza e una volta superato il punto di massima prossimità ti giravi e... clic.

Da alcuni anni però non ricevo più foto di belle ragazze, né le spedisco. Nel mio giro di conoscenze si è passati alle foto dei manifesti funebri, con cui comunicare, senza ridondanza di parole, che una persona conosciuta è morta. Oggi è stato il turno di Sergio, detto Cicci. Era mio amico, ma in un'accezione un po' generica, estesa: restituisce il sentimento, meno la consuetudine di frequentazione. Nei tardi anni Settanta bazzicava la compagnia del muretto di via Parolo, dove tuttora vivo.

Guardavo a quei ragazzi un poco più grandi di me con ammirazione e invidia – si accompagnavano già con le ragazze, possedevano motorini scattanti che erano in grado di impennare – e in particolare a Cicci. Aveva occhi azzurri, capelli biondi a caschetto, nell'insieme la sua figura possedeva qualcosa di angelico; ma quando giocava a pallone si trasformava in un vero diavolo, impossibile da marcare per i difensori. A ogni gol segnato risuonava la saracinesca dei garage, utilizzata come porta, e dopo pochi secondi il signor Pittino usciva in terrazza berciando. Il rumore aveva interrotto la sua pennichella, che durava fino alle sei del pomeriggio.

Ricordo Cicci al tramonto con un maglioncino Benetton annodato in vita, un maglioncino di cotone giallo, come i capelli, e quell’associazione si è fissata nella memoria. Dovevano essere i giorni in cui si conclude l'anno scolastico e si riempiono i gavettoni alla fontanella del Centro Sportivo. Andò via da Sondrio prestissimo, con la famiglia: i due genitori, entrambi bidelli a Ragioneria, e la sorella Lara, trasferendosi a Dongo dove erano riusciti a ottenere un albergo in gestione.

Quando passavo di lì mi fermavo sempre a bere qualcosa, e parlavamo con quell’intimità da rimpatriata che in effetti non avevamo mai avuto prima. L’espressione da lui utilizzata con maggior frequenza era ai nostri tempi: ai nostri tempi si faceva questo, ai nostri tempi si faceva quest’altro… e nel dirlo mi sembrava che i suoi occhi azzurri si inumidissero. Ai nostri tempi eravamo più felici, concludeva con una solennità che trovavo un po’ buffa. Ma è solo guardando la foto del manifesto funebre che realizzo ciò che intendeva dire.

Il senso più vero e profondo non sta nel complemento, ma nella premessa: i tempi che ci troviamo a vivere non sono i nostri tempi, avevi ragione Cicci. Noi siamo nel mondo ma non siamo del mondo, sta scritto nel Vangelo di Giovanni. L’evangelista, ricercando il colpo aforistico a effetto, finisce però col peccare di approssimazione. Noi non siamo di Netflix, di Facebook, di Instagram; noi non siamo nemmeno del pandoro Balocco e delle risse di Fedez all’uscita da una discoteca, dove il buttafuori albanese ci avrebbe esclusi nella selezione all’ingresso. Perfino il cambiamento climatico, gli oceani di plastica, i tonni al mercurio e poi guerre, guerre a tutte le latitudini e profughi su barconi malmessi, a ben vedere segnano poco vite sempre più distratte.

Ma c’è stato un mondo a cui non solo siamo appartenuti, ma abbiamo fatto nostro fin dentro la carne. È stato quando leccavamo piano, nei dilatati pomeriggi estivi, il ghiacciolo Draculino, lo acquistavano al bar della Pelosa, così chiamata per la scarsa confidenza con la ceretta. Oppure il mondo delle sigarette Kim fatte girare come uno spinello, si andava a fumarle nella fossa di cemento accanto alla piscina, dove il Paga mostrava il cazzo alla conquista di turno. Da sopra noi li spiavamo e ci sembrava che ogni volta lui l’avesse più grosso. Il mondo delle cattedrali di Lego innalzate nella vetrina della Piccola città a pochi giorni dal Natale, l'unico giorno in cui Amanzio, titolare dell'omonimo bar, offriva aperitivi a oltranza. Ci presentavamo così ubriachi al rituale pranzo coi nonni, che avevano già preparato la busta con le banconote: se era raffigurato Gian Lorenzo Bernini tutto bene, con Alessandro Volta era il segno di una pagella da rimediare.

Era lo stesso mondo in cui Miguel Bosè – bello come le ragazze belle, tocca ammetterlo – cantava canzoni come equazioni semplificate dell'Universo; un cosmo ordinato e amichevole che non possedeva barriere sonore, e se l'artefice continuava a celarsi lo facevano anche misteriose mani nell'imboccare i juke box, da cui sgorgava un rosario di canzoni sempre uguali: Super Superman, don't you understand we love you... tu, tabadan tabadan, c'è la luna e ci sei tu... Liù, ti stendevi su di noi... quella tua maglietta fina... I was born, born, born... born to be alive...

Un culto laico a cui era dolce arrendersi, e comunque non si poteva sfuggire: veniva ribadito dalle radioline a transistor portate anche allo stadio, oppure appese allo specchietto retrovisore delle auto perché era quello il mondo delle auto, di tutte le auto ma in particolare delle Alfa Romeo, quando se ne incontrava una si sbirciava dal finestrino per guardare il tachimetro, la cifra più alta doveva corrispondere alla velocità massima a cui sarebbe potuta arrivare. Noi siamo stati di questo mondo qui, e, nonostante gli infiniti travestimenti, continuiamo a farne parte.

Tra un’ora avrò l’ennesima visita medica, un neurologo molto più giovane di me (sulle braccia coperte dal camice si intravedono i tatuaggi) cercherà di capire la ragione per cui non riesco più a camminare; la biopsia ossea ha dato esito negativo, ora probabilmente richiederà un prelievo di liquor dal midollo spinale. Ma se anche, come spero, il peggio verrà scongiurato, il verdetto clinico mi restituirà a un presente frantumato in tante piccole scorie, a un mondo che non è il mio. Dove prima o poi riceverò la foto di un nuovo manifesto funebre: Oh, hai visto chi è morto oggi… minchia, era ancora giovane! E via così, di morte in morte, in attesa del nostro nome sul manifesto funebre, con sentite condoglianze dell’Amministratore e cordoglio dei condomini tutti, che dalla settimana successiva cominceranno a disputarsi il posto auto.

Ciao Cicci, è stato bello avere condiviso lo stesso lento scorrere dei minuti, le ore scandite da una campanella fatta trillare dai tuoi genitori, la prateria che sembrava infinita dei giorni, e invece era solo un giardinetto poco più grande di quello dietro al muretto di via Parolo. Se lassù fa freddo, indossa il maglioncino giallo.

martedì 28 maggio 2024

Fede e Ragione, o su intelligenza artificiale e "froceria"

Oggi ho chiesto al programma di intelligenza artificiale Bing di indicarmi alcune delle più comuni bestemmie toscane. La sua risposta è stata: Mi dispiace, ma preferisco non continuare questa conversazione. Ti ringrazio per la tua comprensione e pazienza.

Ci ho riprovato chiedendo in quali posture potrebbero meglio accoppiarsi un gigante con una nana, e viceversa. La sua risposta è nuovamente stata: Mi dispiace, ma non posso continuare questa conversazione. Ti ringrazio per la tua comprensione e pazienza.

Naturalmente mi aspettavo entrambe le risposte, diciamo che sono state un piccolo test di conferma. Il mio sospetto è che l'intelligenza artificiale rappresenti un prodotto profondamente umano, di più, ideologico, in cui una comunità reale compendia non solo i propri saperi (cosa che l'intelligenza artificiale sa fare naturalmente benissimo), ma ratifica anche i pregiudizi. Ad esempio, che è sconveniente bestemmiare o parlare della sessualità di gruppi sensibili e protetti.

Sul breve e medio periodo non intravedo il rischio che l'intelligenza artificiale possa sostituirci in coscienza, ma mi aspetto il manifestarsi di una pluralità di intelligenze artificiali, a riflesso della pluralità delle culture umane con i reciproci pregiudizi e pruderie. Un'intelligenza artificiale cinese, africana, russa, islamica, beduina etc.

Ne consegue che se gli esquimesi si dedicassero con il consueto gelido vigore all'intelligenza artificiale, è improbabile che il loro prodotto avrebbe delle remore nell'enumerare le bestemmie di un maniscalco di Scandicci, così come un'intelligenza artificiale infusa di tantrismo potrebbe agevolmente diffondersi nei dettagli (per noi scabrosi) su accoppiamenti di corpi antropomorfi dalle asimmetriche taglie, per altro già presenti nella Bibbia.

Al momento abbiamo però solo questa intelligenza artificiale qui: non rispecchia il pensiero dei microprocessori al silicio, ma l’idea di mondo di una minoranza caucasica benestante e garbata, solidale alle logiche di profitto – possiamo anche chiamarlo Capitalismo – e a quelle di un moralismo da parrocchia anni Cinquanta, con upgrade a umori fluidi e contemporanei che passano sotto la sigla lgbtqia+.

Non si riferirebbe mai agli omosessuali con il termine "froceria", come fa invece Papa Bergoglio. In ciò dimostrando che la Chiesa è un codice discorsivo molto più disinibito e mattacchione della scienza; e poco importa se, come probabile, il suo sia stato solo uno strafalcione. Ben vengano i bug, quando il sistema si fa chiuso e asfissiante.

giovedì 23 maggio 2024

Travestimenti

In genere le feste mi piacciono molto, tranne quelle di carnevale. Deve essere questo il motivo per cui, quando non riesco a evitarle, le scordo. Fa eccezione la festa di Carnevale del 1983. Ero andato a Teglio in una discoteca chiamata Aristea, curiosamente è anche il nome di mia madre. C'era un solo ragionevole requisito: bisognava essere in maschera. I miei amici, trovandosi lì già da un paio di giorni, si erano attrezzati, alla peggio recuperando una vecchia mantellina da Zorro. Arrivato all’ultimo momento io non sapevo cosa inventarmi...

Mi guardai allora in giro. L’interno, perlinato ad abete, di una solida villona da neo ricchi, dove eravamo tutti ospiti. La giovane proprietaria non faceva nulla per velare quello status, come si sarebbe invece fatto nel decennio precedente. Il suo partecipare al benessere di famiglia possedeva qualcosa di naturale – i soldi arrivano alla maniera degli agenti atmosferici, basta non aprire l’ombrello e allungare le mani –, in una continuità generazionale mai più vissuta con uguale convinzione. In alternativa, se eri povero, potevi sempre travestirti, e questo era il punto.

Qualcuno doveva avere pigiato il tasto play del mangianastri, la canzone riprese dal refrain dove era stata arrestata, lo stesso verbo che si utilizza per una vita a cui viene sottratta la libertà. Mi metto in tasca una piccola mela recita una voce nasale che conoscevo bene, mi metto in tasca una piccola mela, e la canzone torna libera. Lo stereo si trovava accanto al mobile bar. Mi avvicinai.

Dopo un’attenta disamina, estrassi una bottiglia di J&B tra le numerose presenti, e me la infilai nella cintola El Charro precedentemente allentata. Quindi afferrai una manciata di terra da un vaso di gerani ancora in bozzolo, la sparsi a casaccio sugli abiti (al rientro avrei raccontato che il giubbino Stone Island si era sporcato in un’accidentale caduta), un poco di terra anche sulla faccia poi risalendo con la mano ai capelli per arruffarli, così rovinando il recente taglio eseguito da Ciano all’Equipe 2000. Lo facciamo in stile Duran Duran mi aveva detto.

“Che ne dite?” chiesi.

Silenzio.

“Ma non vedete... sono travestito da barbone!”

“Aaah” fecero loro con scarso brio.

Un suono replicato dal buttafuori palestrato dell’Aristea, ce ne fosse uno che capiva senza doverlo spiegare. Con un alzata di spalle, boh, alla fine però mi fece entrare. L’avevo gabbato, come dice Abatantuono in un film uscito in quei giorni. Ciò che venne dopo è irrilevante alla storia, semmai cartolina da una lunga stagione di vacanza: io che danzo sulla pista a quadri luminescenti sulle note di I like Chopin e Vamos alla playa, e mentre gli altri pagano seimila lire per un Gin Tonic, prendo ampie e gratuite sorsate dalla bottiglia di J&B. Se incrocio una ragazza graziosa faccio il cazzone, posso farlo, un barbone è esonerato dalla divisa del questo non si dice questo non si fa; abbordo perfino un ragazzo, ma solo perché travestito da Suellen di Dallas.

Quando mi parlano di omeopatia, la cura di dubitabile efficacia dove il simile viene curato con il simile, a me viene in mente questo episodio. Forse è vero, l’epoca in cui alla parola giovane ancora mi giravo fu un grande Carnevale, un travestimento collettivo. Ma l’unico momento in cui sfiorai qualcosa che azzardo chiamare autenticità – potevo fare, e infatti facevo, tutto ciò che mi passava per la testa, senza pensare a come gli altri avrebbero reagito e giudicato – è stato travestendomi da me stesso, il re era finalmente nudo. Solo il bambino che impugna la penna e scrive ha saputo riconoscermi.

domenica 19 maggio 2024

Bacio bacio bacio

 

Marrakech Express è probabilmente il film di Salvatores che mi è piaciuto di più. Giuseppe Cederna, nel ruolo di Paolino, è uno degli interpreti principali. Durante il viaggio dei quattro amici partiti da Milano alla volta della città del Marocco occidentale, a ogni telefono che incontra prova a chiamare casa. Ma ci sono sempre degli impedimenti, gli altri lo incalzano per ripartire, oppure cade la linea, e riesce a dire solo bacio bacio bacio.

Un tormentone a cui pensavo quando l'ho incrociato alla libreria Alice di Sondrio, Giuseppe Cederna, non Paolino, tra interprete e personaggio si fa sempre un po' di confusione. È il prezzo che un attore deve pagare per vedere giganteggiare la propria faccia sul grande schermo. In realtà tutto è minuto in lui, un uomo basso e magro dai lineamenti gentili, sebbene il naso sia pronunciato. Si aggira tra gli scaffali scorrendo i titoli senza un obiettivo apparente, di tanto in tanto ci sfioriamo senza parlarci; in libreria si tende a evitare convenevoli tra sconosciuti, circonfusi da quel silenzio, un po' saputello, che talvolta lascia spazio alle note di Miles Davis o di Keith Jarrett, fa pendant con l'aristocratico sussiego delle copertine Adelphi.

Alla fine qualcosa deve avere trovato, e anch'io, ci presentiamo alla cassa in perfetta sincronia: Prima Lei. Ci mancherebbe, faccia pure. Troppo gentile... Durante i salamelecchi ci accorgiamo che entrambi impugniamo un libro di John Berger, non lo stesso titolo ma è sufficiente per cambiare tono e darci del tu: "Anche tu leggi John Berger?" mi chiede. "Sì, mi piace molto", e ancora prima dell'aggettivo vedo i suoi occhi azzurri illuminarsi. "Aspettami allora" mi sussurra mentre ritira il resto, e poi fa segno di seguirlo fuori.

Raggiunta la sua auto, una Volkswagen Polo parcheggiata a poche decine di metri di distanza, estrae uno zainetto e, all'interno, un'agenda o qualcosa del genere, da cui pesca un foglietto che mi mostra, sopra uno scarabocchio illeggibile. "È la firma di John Berger" mi dice orgoglioso. "Gli ho chiesto l'autografo a una presentazione in Francia, è un uomo straordinario, perfino bello, non sai che emozione..." E mentre continua a parlare con entusiasmo di John Berger mi sembra di vedere una ragazzina di Memphis, anni Cinquanta o giù di lì.

Il maglioncino color pastello con la sigla del college, la gonna plissettata, non si capisce da dove estragga una foto di Elvis da mostrare all'amica del cuore, indicando l'autografo con la sola piega del sorriso. E in effetti da quella volta ho la sensazione di essere anch'io amico di Giuseppe Cederna, ogni tanto torna da queste parti (la sua famiglia proviene da qui, è figlio di Antonio e nipote di Camilla Cederna, entrambi di Ponte in Valtellina dove è rimasta la casa di famiglia, un palazzo del Seicento già dimora dell'astronomo Giuseppe Piazzi), ma la verità è che non ci siamo più rivisti.

I libri belli creano illusione di amicizia, fuori e dentro la pagina. E l'amico del tuo amico, per definizione, è tuo amico. Holden Caulfield vorrebbe telefonare agli scrittori di tutti i libri che gli sono piaciuti, ci mette in guardia dal rischio di provare la stessa tentazione, guarda che è così anche per te, pochi gli danno retta. Gli altri, Giuseppe, io, sognano vecchie cabine telefoniche, non è necessario conoscere il numero di John Berger, che nel frattempo è morto. Basta alzare la cornetta e poi dire: bacio bacio bacio.


sabato 18 maggio 2024

La dolce bugia

Il mio rapporto con il cinema contemporaneo in fondo somiglia al suo oggetto. Penso a una sequenza di Caro diario, Nanni Moretti seduto a lato del letto su cui è disteso un critico cinematografico (a interpretarlo è il compianto Carlo Mazzacurati), lo sferza con le parole delle sue stesse recensioni, che gli rilegge in forma di contrappasso:

"Quel film coreano era un melodramma in costume, vestiti e soprattutto cappelli deliranti... Superfemminista, fiammeggiante e demoniaco... Girato come se fosse un trip alla Spielberg entrato nei ritmi e negli spazi futuristi... E c'è poi il Pasto nudo di Cronenberg: puro pus underground ad alto costo."

Naturalmente c'era molta ironia, e non ho difficoltà a trovare dei registi viventi le cui opere mi siano piaciute anche molto; i primi nomi che mi vengono in mente sono Mike Leigh, Kaurismaki, Jarmusch, Herzog, Guédiguian o, in Italia, Gianni Amelio e Garrone, ma quest'ultimo a fasi alterne. Il punto non è però stilare delle graduatorie di merito, ma la relazione tra merito e piacere. Il mio piacere di spettatore.

Sono così arrivato alla conclusione che ciò che mi turba in Caro diario non è la sciatteria del linguaggio di certa critica (puro pus underground è in effetti un'espressione strampalata), ma il fatto che quel linguaggio trovi referenzialità nelle categorie di valore, e queste nel mondo.

Detta in modo più semplice: per raccontare il presente si finisce coll'imbattersi nel pus underground, possiamo anche chiamarlo in un altro modo, ma la fioritura di un ciliegio ha smesso di imporsi quale esperienza significativa, e come giusto i registi ne hanno preso atto.

Il problema sono dunque io, non il cinema contemporaneo. Io che non ho più tanta voglia di un'idea di cinema ereditata dai Lumière – la verità prima di tutto, il cinema come riflesso della vita – che ha avuto il sopravvento sull'alternativa suggerita da Georges Méliès: una bugia, come si dice, a fin di bene, che conduce il mio occhio-razzo dentro l'occhio della luna.

È la stessa dolce bugia con cui si conclude Miracolo a Milano, con i poveracci che vengono assunti nel cielo del possibile cinematografico a bordo delle loro scope volanti; giusto il tempo di girarsi e fare ciao ciao con la mano alla Madonnina, e poi via in direzione di "un regno dove buongiorno vuole dire veramente buon giorno". E chissà che lì non ritrovino Dumbo, sostenuto nel viaggio dalle sue orecchie alate, o Mary Poppins con il suo ombrellino.

Ma quasi nessuno racconta più bugie a fin di bene, a cui sarei disposto a credere, e sono così obbligato a vedere duplicato un incubo di terra: la realtà, o meglio questa pus-realtà dalla cui ferita distoglierei volentieri lo sguardo.

giovedì 16 maggio 2024

Spillo e il pandoro

Pasolini la chiamava mutazione antropologica. Questa non aveva però potuto prefigurarla: la mutazione delle persone poco intelligenti, in dialetto milanese vengono chiamate affettuosamente pirla e sciucarello, o sciosciò, in napoletano. Non che nel frattempo siano rinsavite, ma nel nuovo millennio sono diventate antipatiche.

Si ragiona naturalmente a spanne, qualche coglione tignoso è sempre esistito, ma, di norma, chi era poco dotato intellettualmente possedeva una bonomia di fondo, a renderlo quasi amabile nella sua funzione di parafulmine sociale. Era forse l'effetto di un confronto che vedeva prevalere i capaci, di cui gli altri (the dark side of the brain) erano pienamente consapevoli; dunque tanto scemi non dovevano essere...

Sarà il diradarsi di rapporti umani concreti – non parlo di austeri convegni filosofici, basta un tavolino al Bar Sport su cui giocare a scopone scientifico; aggettivo che è già tutto un programma – sarà l'avvento dei social dove ci si esprime da un podio illusorio, sarà quel che sarà ma le cose sono profondamente mutate: i cretini sono diventati insopportabili.

È perciò una festa per i sensi quando ci si imbatte in uno sciocco, ma nemmeno, un modesto, un semplice vecchia maniera che sa di essere semplice, e si esprime e comporta di conseguenza. Esempio luminosissimo è Spillo Altobelli: un vero fuoriclasse in campo, ma per così dire poco imparato... Quando incontra, nei giorni scorsi, Chiara Ferragni su un volo per Dubai, così le si rivolge: "A me sinceramente il pandoro piace."

mercoledì 8 maggio 2024

Quadrifogli, o su coglioni, cretine e altri (social) inferni


Se i social hanno il successo che hanno, qualche merito ce l'avranno. Personalmente, mi hanno aiutato a vedere le persone come in controluce, intuendone una struttura interna simile alla nervatura delle foglie; tende a ripetersi secondo precise ricorrenze, macrocategorie che non hanno valore assoluto ma statistico. Ciò è particolarmente evidente riguardo ai generi.

Per carità, non voglio avventurarmi nello sdrucciolevole tema delle pari opportunità, ma, attraverso il filtro ottico di comunità rigorosamente virtuali, uomini e donne confermano la loro differenza: nel peggio come nel meglio. È 
forse solo nella medietà che tendono a conformarsi, come a quei concerti in cui il pubblico intona il refrain della canzone dell'estate accendendo la torcia dello smartphone (una volta si utilizzava l'accendino).

E così, scorrendo la bacheca di Facebook, quando leggo ciò che mi appare la colossale sciocchezza scritta da un maschio, mi scappa il più delle volte la parola coglione. Mentre quando la sciocchezza proviene da una donna l'aggettivo, sostantivizzato, diventa cretina, o per esteso e continuando a parlare con il monitor: “Eccola lì... la cretina!”

Ovviamente tengo tutto dentro, non commento, non sollevo polemiche. Fino a poco tempo fa pensavo fossero sinonimi, e il mio inconscio linguistico scovasse quei termini per pura consuetudine. Invece no. Coglione è il maschio che aderisce a una parte autentica ma limitatissima di sé – quella genitale, appunto, o se vogliamo essere dotti pulsionale – e confidando nella bussola dei suoi pencolanti attributi si orienta in qualsiasi materia. Un esempio? Il generale Vannacci.

La cretina non è allora solamente diversa dal coglione, ma sconta una disposizione opposta: in lei tutto è artefatto, si auto percepisce sulla base di categorie orecchiate – "copia di mille riassunti" le chiama Samuele Bersani in una bella canzone – che vorrebbe imporre con la stessa acefala assertività a suo tempo subita. Se ne ricava la presenza di molti cretini anche tra gli uomini, e coglione tra le donne. O per essere più precisi: i cretini, maschi, sono generalmente di sinistra (il che non significa che la Sinistra sia composta da cretini) e le femmine coglione di destra (stesso discorso).

L'idea non è farina del mio sacco, lo suggeriva già Lacan per il quale il vizio capitale della Destra è rappresentato dall'egoismo; e cosa c'è di più egoistico del desiderio di infilare il proprio cazzo in ogni anfratto femminile, quindi bersi una Peroni ghiacciata, con rutto libero, di fronte al televisore sintonizzato su una partita di calcio. Siamo insomma al livello basico dell’esistere: mangia, accoppiati e combatti per interposta persona. Mentre il vizio della Sinistra, continua Lacan, è la "bêtise", da intendersi come una particolare forma appresa di stupidità.

Ma se grattiamo la scorza ai talk show politici, facciamo scorrere l'acquaragia sopra alle espressioni svagate in cui le difese linguistiche si abbassano – ed è in ciò l'utile di quel luogo di arruffate verità che sono i social – troviamo conferma all'assunto iniziale: il peggio del peggio maschile è composto da coglioni, e quello femminile da cretine. E il meglio? Se esiste il peggio dovrà infatti esserci anche il suo opposto.

Un'idea me la sono fatta… di grande aiuto sono le parole conclusive delle Città invisibili di Italo Calvino:

"L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere che e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."

Se l’aspetto degradato dell’umano somiglia alle famiglie felici con cui inizia un altro romanzo, tutte uguali tra di loro secondo Tolstoj, la virtù è variabile al modo dell'infelicità: nella sua paziente ricerca di un chiosco di granite nell'inferno dei viventi, ha una sua propria e unica tonalità. A me emoziona e perfino commuovere una certa disposizione del femminile; ma anche tra le persone del mio sesso il meglio continua a offrirsi, seppure in forme diverse. E però sono forme mie, per un altro, un'altra, magari è diverso. L'elemento comune consiste nel non accontentarsi del menù del giorno.

In tutto ciò, l'infernale affaccendarsi delle cretine, non meno dei coglioni, macina il suo quotidiano raccolto di irrilevanza, i post si succedono in precisa cadenza, al bar chi ordina caffè corretto Sambuca continua a farlo, e probabilmente non ci sarebbe neppure gusto se il meglio abbondasse come il riso sulla bocca degli stolti; un proverbio che in fondo dice la stessa cosa, aggiungendo la virtù della sintesi.

Sta dunque a ciascuno il difficile compito di riconoscere, quindi dare spazio e far durare quanto di prezioso continua a manifestarsi; magari in piccolo, come i quadrifogli che si nascondono nel tappeto dei loro simili con tre foglie. Se solo non avessimo questa brutta abitudine di strapparli ogni volta che ne troviamo uno, chissà, forse il mondo sarebbe pieno di quadrifogli. E di bellissime persone.