sabato 17 dicembre 2011

Viva Zingonia e abbasso il FAI, o sulle dogane della bellezza


FAI, Fondo Ambientale Italiano. Mi sono sempre chiesto di cosa si occupasse di preciso. Faccio dunque una breve ricerca e trovo il sito internet, in cui leggo sotto l’intestazione: “FAI. Per il paesaggio, l'arte e la natura. Per sempre, per tutti.”

La scorsa settimana sono stato a Zingonia, dopo essere prima passato da Ciserano, confinante, a trovare una cara amica che vive da quelle parti. Sia Ciserano sia Zingonia sono dei posti orrendi. Più orrendo il secondo del primo, che non è nemmeno un paese e la sua superficie è spartita tra diversi comuni. Come viene detto da Wikipedia, Zingonia è l’abitato residuo di un “un progetto urbano parzialmente realizzato negli anni sessanta di città per i lavoratori, voluto dall'imprenditore Renzo Zingone. La popolazione totale dell'area è circa 1778 abitanti, di cui 1328 (il 74,7%) extracomunitaria."

Cosa c’entra tutto questo con il FAI?

Ho un altro carissimo amico che mi parla spesso del FAI. E’ stato testimone di nozze dei miei genitori, lo conosco praticamente da sempre. Il fratello, in particolare, è una figura di spicco del movimento di tutela ambientale in Valtellina. E' inoltre proprietario – l’ha ereditata – di una villa ottocentesca nel margine settentrionale di Bormio. Immagino che il valore della villa superi abbondantemente il milione di euro.

Non intendo certo fare i conti in tasca o dell’ironia sul mio amico, e nemmeno sul fratello. Sono certamente ricchi, almeno al cospetto del mio saldo contabile, ma non è questo il punto. Il fatto è che quando passo da Bormio e vedo quella magnifica villa appartenuta alla loro famiglia – perfettamente curata, adornata al meglio con ogni primizia floreale – avverto una strana sensazione. Forse perché ora è completamente vuota, silenziosa e spenta. Ricorda il giardino algido nella favola del Gigante egoista.

Attraversando Zingonia a notte fonda con la mia automobile, ho incontrato invece una chiassosa quantità di gente, prostitute perlopiù, viados, dei più svariati colori. Alcuni si riscaldavano accanto a falò provvisori dal fumo chimico e nero. Lo so che buona parte di quelle persone sono vittime, ostaggio di associazioni criminali che ne hanno fatto degli schiavi. Ma nel loro modo di vociare, di mostrarmi la lingua e il sedere e poi infine ricorrermi a piedi, quando vedono che non accosto, avverto molta più vita rispetto alla bella villa ottocentesca, ora di proprietà del fratello del mio amico.

Ma cosa c’entra tutto questo con il FAI, dicevamo?

C’entra molto, secondo me. Perché se è vero che il paesaggio, l’arte, la natura, specie quando siano valori da intendere per sempre e per tutti, sono temi certamente condivisibili e a cui nulla obiettare, il sogno della popolazione notturna di Zingonia è differente, diciamo anteriore.

Che cosa te ne importa infatti del paesaggio, dell’arte e della natura quando se non fai un minimo di dieci pompini a sera ti arriva una fracca di botte. L'obiettivo di questa promiscua corte di diseredati consiste dunque, almeno verosimilmente, in una quieta normalità. Normalità quale possono sperimentare nel modesto orizzonte circostante. Fatto di villette a schiera progettate da geometri che si sono diplomati al Cepu, cani ringhiosi nei cortili, nanetti da giardino, lenzuola Ikea stese la domenica mattina come il gran pavese del Rex, prima di una tempestosa traversata oceanica.

A Ciserano ci sta perfino una villa che sembra il castello della Barbie. E’ di proprietà dei genitori dell’amica della mia amica. Tanto più brutta della villa ottocentesca di Bormio, tanto più sfarzosa, kitsch. Ma credo che sia proprio questo il modello estetico conficcato negli occhi delle prostitute di Zingonia: quando la tua vita allaga di troppa verità, allora la finzione, l’inautentico, diventano una scialuppa di salvezza.

Ora io non voglio affatto suggerire – né lo penso – che il gusto di una prostituta debba essere preso come modello universale. Penso al contrario che la sensibilità estetica, come per altro la sensibilità tutta, nasca dall’esperienza, dall’attenzione alle cose, dallo studio anche. E in quelle piccole vite ci sta una piccola esperienza, piccoli sogni di riscatto.

Ciò che intendo proporre, con molti dubbi e distinzioni particolari, è la presenza di un nucleo sottilmente reazionario in un approccio al “patrimonio ambientale”, come ora è di moda chiamarlo con inquietante sfumatura mercantile, completamente disgiunto non solo dai comportamenti e dall’etica, ma anche dalla visione e dal pensiero immaginale.

Ciò che ne risulta è un sentimento della bellezza come contemplazione e conservazione. Del tutto contrario a quella che era l’opinione degli antichi, che nell’estetica (dalla radice greca aistetikos, con tema aisthanomai: percepisco, sento con i sensi) scorgevano una declinazione formale del bene, del giusto. Ma anche del sogno inteso come profezia, come regime dell’ulteriore, sussurrato agli uomini dalle muse.

Concepire la bellezza come uno scarto in avanti della propria vita, e anche quando i modelli di riferimento contengano un nucleo corrivo e sciatto, possiede dunque proprio quell’idea di bene e di giusto che gli antichi gli attribuivano. Oltre che di possibilità, di rinnovamento e metamorfosi. Ma è proprio tale scarto, tale utopia se vogliamo grossolana, che mi sembra venire negata dall’ideologia sottesa al mito della conservazione. Il quale, a ben vedere, si fonda sul privilegio di chi abbia una vita già sufficientemente colma di bellezza, e intenda preservarla da ogni barbarico assalto.

Conservare la natura, l’arte, la bellezza, sospetto allora che finisca col significare la conservazione anche dei rapporti – del tutto storici e per nulla naturali – di potere e di status che soggiaciono a ogni comunità umana costituita, con le sue forme manifeste: belle o brutte che siano. Ed è la bellezza come "limes", come dogana con cui difendere i confini del gusto dall'incedere del brutto. Del nostro gusto, nostro di noi.

E’ come, ecco, con i palchi all’opera nell’Ottocento. Le famiglie più facoltose disponevano di un palco personale in prossimità della scena. La loro idea di bellezza era dunque quella lì: qualcosa di accessibile, quasi esclusivo. Mentre dalla piccionaia, molto più distante, ci si accalcava per godere di uno spiraglio residuo della medesima bellezza. Così nello sforzo di partecipare al banchetto dei sensi si vociava, si disturbava la contemplazione ieratica dei signori. Che vivano tutto ciò come una sorta di contaminazione.

Allo stesso modo, è del tutto comprensibile il godimento di chi possieda un ombrellone in prima fila in una spiaggia rinomata e distante. Ma la domenica, con dispetto, veda arrivare i gitanti gravidi di frittate alle cipolle e thermos di Sangiovese, li veda sbarcare da gommoni arancioni, scoreggioni, che contaminano la purezza di quel sublime paesaggio, per l’umano e ingordo slancio verso ogni forma di piacere.

Conservare la bellezza equivale a conservare l’esclusività di una prospettiva sul mondo, mi vien allora da concludere. Ma per farlo è necessario convogliare lo sguardo dentro robusti paraocchi, che escludano la confusione incombente, il baccano insinuante, da quel minimo tassello di ordine sottratto al caos della storia.

Ma l’ordine a questo modo derivato non è un vero ordine, se ci pensiamo bene. Piuttosto un ordinamento.

Perciò invece che bellezza io ci vedo un palco vuoto, un'esperienza disertata, nella magnifica villa miliardaria del fratello del mio amico, come un gioiello appeso sul bavero inamidato di Bormio. E l'ansia di conservare quella minuscola gemma distintiva – la nostra idea di bellezza, la nostra avita tradizione – dall'assalto caotico dei barbari che reclamano la propria pietruzza sberluccicante, fosse anche umile pirite. Gente priva di quelle letture che noi chiamiamo squisite, di meditati canoni formali. Ed è il vicino di casa della mia amica di Ciserano, che nella sua porzione spelacchiata di giardino lascia scorrazzare le galline, con il galletto nero che cerca di ingropparsele e fa il bullo con i passanti.

Eppure è vita anche quella, soprattutto quella, che cerca ogni volta di superarsi, di trascendersi in nuova vita, sebbene i tentativi siano più goffi del volo di quegli stessi pollastri. Ma se c'è vita, a cercar bene, deve esserci anche bellezza, e scovarla è forse il compito della grande arte. Ne incontriamo un esempio in una celebre sequenza di American Beauty, in cui una busta di carta, ripresa da uno dei protagonisti con una cinepresa amatoriale, viene gonfiata dal vento e danzata dal caso; sullo sfondo un'opaca periferia nordamericana, autunno, foglie morte. Ed è così che commenta le immagini l'autore della ripresa, mentre mostra il filmato alla nuova fidanzata:

"Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica. E c'è elettricità nell'aria. Puoi quasi sentirla... mi segui? E questa busta era lì; danzava, con me. Come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c'era tutta un'intera vita, dietro a ogni cosa. E un'incredibile forza benevola che voleva sapessi che non c'era motivo di avere paura. Mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so; ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte c'è così tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla...

Il mio cuore sta per franare."

Ed è anche grazie a un film che intuisco che la bellezza può essere solo alimentata, allo stesso modo del sacro fuoco di Vesta. Ora imboccato – una grande fiamma che riscalda l'immenso culo del cielo – con copertoni esausti e pacchetti vuoti di goldoni, deposti sulla pira da vestali con le tette rifatte, l'eyeliner come la calligrafia confusa di un pediatra. Mai conservata, la bellezza, mai bloccata in una fotografia o sotto il vetro spesso di un museo, pena lo smorzarsi della vampa, o il precipitare a terra di una busta.

Conservare, cercare di trattenere la bellezza, è invece come costruire un contrafforte che impedisca al cuore di franare, un bunker in cui rifugiarsi in attesa che la tempesta sia passata. Ma come ci ricorda Sam Mendes nel suo magnifico film, "c'è così tanta bellezza nel mondo" che nessun contrafforte, nessun bunker e nessuna stabile codificazione estetica riuscirà mai a trattenere le pepite d'oro nel setaccio. E prima o poi, un cuore che è un cuore deve franare.

Così io penso che ci sia vita – dunque bellezza, grazia e perfino spiritualità – non solo in una busta di carta sospesa in un cielo livido e indifferente, ma anche in un pompino a lato delle rotonde nebbiose di Zingonia, e nelle villetta a schiera circostanti, nei suoi orrori geometrili. Di certo più vita e più bellezza che nelle segreterie del FAI o nelle sontuose magioni signorili, e però sprangate nel timore che i barbari ti rubino la vita. Che intanto se ne va da sola come in un dramma di Cechov…

4 commenti:

  1. La belleza va coltivata più che altro nell'anima. Chi la possiede per appartenenze privilegiate e non capisce che quella sua condizione è una fortuna e non una sua prerogativa, a mio avviso resta comunque un povero.

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  2. mi è appena arrivata una mail automatica da blogspot, in cui mi si avvertiva della presenza di un commento da parte di Giusi, e riguardante questo mio intervento, che però qui non ritrovo. deve dunque esserci stato un qualche inconveniente tecnico. dal momento che la mail conteneva anche le parole di Giusi, provvedo a inserirle di seguito:

    "Il problema della conservazione non è necessariamente legato a quello della "bellezza", ed una lettura, a mio avviso, più vicina alla tua idea di "non-conservazione" è contenuta negli articoli della Convenzione europea del paesaggio, firmata dagli stati membri a Firenze nell'ottobre del 2000. L'articolo 1 recita: « "Paesaggio" designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni. »
    (Capitolo 1, art. 1 lettera a)
    Fondamentale è, dunque, l'azione e la percezione dell'uomo e non più unicamente rilevante la "bellezza", i cui canoni, chiaramente, sono variabili nel tempo e suscettibili di molteplici interpretazioni. Conservare non significa, necessariamente, musealizzare. Ed il FAI non musealizza solo le magioni signorili, ma si occupa della salvaguardia anche di luoghi che "signorili" non lo sono mai stati, memoria storica per generazioni di persone, e che rischiano come nulla di sparire inghiottite non dall'ignoranza (nel senso di chi semplicemente non sa) di chi li "usa" diversamente, ma di chi consapevolmente, invece, li vuole cancellare, annullandone ogni traccia e calpestando il diritto primario alla loro metamorfosi e/o conservazione integrale (penso, per esempio, al Giardino della Kolimbetra nella Valle dei Templi di Agrigento). Non sono una paladina del FAI, ma ne ritengo, tuttavia, l'opera meritevole di apprezzamento perchè, se non altro, propone un sistema, condivisibile o meno, di intervento fattivo."

    Giusi

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  4. in risposta a le parole di Giusy che ho sopra trascritto. Giusy, ho appena riletto il mio intervento, ma non mi sembra in aperta contraddizione con quanto tu scrivi. con molti se e molti ma, io mi sono limitato a porre l'accento su uno degli aspetti legati alla conservazione artistica e naturale, che potrei riassumere come "svigorimento dell'afflato vitale", per recuperare un termine obliato della tradizione filosofica primo-novecentesca ("l'élan vital" di Bergson). inoltre, più che un testo di critica analitica o sociologica, il mio voleva essere un intervento partecipato e semi-diaristico, in cui parlo unicamente in nome proprio; ma cercando di mostrare le frizioni che si compongono nello sguardo di chi dice io, nel momento in cui fa quell'esperienza che poi cerca di restituire in ragionamento. e se proprio devo dirla tutta - o almeno tutto ciò che può dire io, e solo io - a questa idea asfittica e claustrofobica di conservazione della bellezza, di cui appunto faccio esperienza, prima ancora che concepirla, preferisco cento volte quell'altra cosa lì, che le vestali di Zingonia distribuiscono per pochi spiccioli... (con simpatia, e un affettuoso ringraziamento anche ad Anam)

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