giovedì 3 novembre 2011

Caballero & C., o su come distinguersi dentro al medesimo pollaio



Una volta, mio papà, ha portato a casa una rivista illustrata. Me la ricordo molto bene.

In realtà, mio papà portava a casa spesso quella rivista illustrata, che di solito veniva letta dalle persone serie. A volte lo accompagnavo ad acquistarla in un'edicola che odorava di fieno e menta, mi ricordo molto bene anche di questo.

Io ero piccolo, saranno stati i primi anni settanta, e non ero molto pratico nell'uso degli aggettivi - l'aggettivo serio, ad esempio - oltre che certo sulle differenza tra il fieno e la menta. Piccolo ma con buona memoria, e frequenti interrogativi. Ad esempio: è più serio il papà il nonno o lo zio...?

Mia mamma non sapeva mai rispondere alle mie richieste di comparazione gerarchica, ma, secondo me, se un aggettivo non riuscivi a metterlo in ordine, a fare una specie di scala, di classifica, non era un aggettivo serio.

Hulk, per dire. Hulk è chiaramente più forte di Thor. Ma Thor è più forte di Capitan America che è a sua volta più forte dell'Uomo Ragno e così via, non so se mi spiego…

Da ciò si ricava che forte è un aggettivo serio, mentre serio, al contrario, se non si può fare una graduatoria della serietà, non lo è mica tanto. E però anche forte diventa un aggettivo poco serio, se serio non è più serio, credo che si chiami proprietà transitiva, ma lasciamo andare.

Ci stava dunque questa rivista illustrata, dicevo. Che di solito era una rivista seria. Quella volta lì ci stavano però delle foto di persone comuni - uomini, donne, vecchi, grassi, giovani, belli, brutti, magri, anche qualche bambino e perfino uno senza un braccio - ed erano tutte nude. Persone comuni nude fotografate su una rivista che aveva ancora un vago sentore di fieno e menta, la portava a casa mio papà.

Adesso magari qualcuno si metterà a ridere, ma nei primi anni settanta, quando mio padre ha portato a casa una rivista illustrata per persone serie, insieme al profumo di fieno e menta dell’edicola a lato della Standa, stare nudi dentro una fotografia era considerata una cosa poco seria.

Ci stavano infatti delle altre riviste, riviste poco serie come Caballero, Cronaca Vera, Penthouse, dove questo succedeva regolarmente. La nudità, intendo, e pure dell’altro.

Federico, che aveva trovato una copia di Caballero in un prato al ritorno da scuola, parlava di strani incastri geometrici, cosa da non credere. Io queste riviste di nudità geometrica però non potevo leggerle, a meno che non le trovassi anche io nei prati vicino alla scuola dove fiorivano i goldoni, poco prima che fossero soppiantati dalle siringhe. Era una legge scritta ma più spesso sottaciuta, come un sottinteso omertoso: no naked for children.

E così la rivista, normalmente seria, che ha portato a casa il mio papà, è stata per me la prima occasione per vedere una cosa poco seria come un corpo nudo. Anzi, molti corpi nudi e candidi come lenzuola appena lavate, e ora stese al sole ad asciugare.

Le donne anziane della rivista avevano seni flaccidi e larghi capezzoli, chi chiari e chi bruni, gonfi come lumachine ingorde di lattuga. Anche tra le gambe degli uomini pendeva una lumaca, ma un poco più grande di quella delle donne e dei bambini come me. C'era poi un uomo - a me sembrava vecchio perché aveva i capelli bianchi - che aveva la lumaca più grossa e lunga di tutti gli altri. Era quella l'immagine a cui ritornavo con più frequenza, insieme al pube di una ragazza orientale con i peli folti e lisci, discriminati proprio al centro come i capelli di un famoso giocatore dell'Inter.

Ma perché tutte queste persone con le loro lumache dentro a un giornale serio? mi chiedevo tra me e me, ormai disperando dell'aiuto della mamma.

Se anche gliel'avessi domandato, lo so già, lei mi avrebbe risposto che le fotografie stavano dentro la rivista di papà perché sono fotografie artistiche, realizzate per una campagna di sensibilizzazione in favore di questo o quell’altro inghippo, una campagna ovviamente artistica, avrebbe risposto mia madre, ci scommetto quello che volete.

Ma più o meno artistica della Gioconda e degli acquarelli che dipinge l'amico del nonno, e che teniamo in sala a fianco della foto di papà che gioca a tennis? avrei ribattuto io, e non ne saremmo più usciti.

Secondo la mamma nell'arte non si potevano fare classifiche, lo stesso che per la serietà. Come a dire che Montagne Verdi di Marcella Bella era pari a Jesahel dei Delirium, al festival di Sanremo del 1972. Mica vero.

In ogni caso, da quel giorno in poi e con una certa regolarità, io continuo a imbattermi in servizi in cui vengono fotografate delle persone comuni completamente nude. E’ una specie di genere, mi viene da dire. Se non di archetipo, di topos espressivo, di ricorrenza liturgica per persone con scarsa memoria.

Ma io, che ho una buona memoria visiva, non posso scordarmi, oltre al pube della ragazza orientale e al lumacone dell’uomo con i capelli bianchi, gli sguardi che si scambiavano le persone nude che ho visto nella rivista seria. I corpi sul Caballero di Federico infatti non contano, quando me l’ha mostrato era ormai inzuppato e pieno di terra, le pagine incollate una all’altra. Ma da quel poco che si intravedeva le lumache avevano più che altro l'aspetto di serpentelli, proprio lì sul punto di sputare il loro mortale veleno.

Se si potesse mettere un’etichetta a quello sguardo, lo sguardo che si scambiavano tra di loro le persone nude, ma anche serie, sulla rivista di papà, io lo chiamerei “rubare la marmellata e farla franca”.

Era cioè l’istituzionalizzazione formale di un’eresia, mi viene da dire adesso dopo che ho imparato a parlare anch’io come le persone serie, che sono quelle che se anche compravano Caballero poi l’infilavano tra le pagine del Corriere della Sera o del Sole 24 Ore. E’ l’infrazione che si fa regola, intendo, traducendosi in qualcosa come un nuovo canone artistico.

Cavolo, ma quando serio sono diventato?!

La nudità è invece una cosa poco seria, sembravano suggerire i protagonisti svestiti della foto, una cosa perfino sporca, cattiva. Ma ciò perché viviamo in una cultura che l’ha resa tale, una cultura che l’ha sporcata e incattivita.

Mettersi a nudo su una rivista seria equivaleva dunque a svelare non tanto se stessi, ma il codice culturale che ha posto la semplice verità del corpo fuori dalla scena pubblica, rendendolo letteralmente osceno. E con ciò a ripulire l’immagine dalle incrostazioni dello sguardo, come le pagine di Caballero dallo strato fangoso del campetto del pallone, dove Federico l’aveva nascosto sotto un grande sasso piatto.

E allora guardate noi, guardateci ci dicono le persone nude e comuni: lo vedete come siamo semplici, come siamo naturali e belle e pulite, con le nostre miti lumachine, senza veleno, senza lingue guizzanti e biforcute, nella nostra umana imperfezione.

Eppure, nella cultura tardo moderna dove non esistono più dei reali tabù morali ed estetici – se non quello di non consumare, di non acquisire merci a getto continuo, come aveva intuito Pasolini – l’infrazione estetica e morale diviene un atto vagamente comico.

Come si fa a trasgredire qualcosa che non c’è, cosa stai infrangendo se non ci stanno più regole da infrangere?

E invece, con regolarità cronometrica, c’è sempre un fotografo che vuol togliere, svelare, riportare all'evidenza quel che cova sotto agli abiti della convenzione sociale. Come se ancora si trattasse di scrostare gli infiniti veli che si sono depositati su una presunta verità originaria, da sbucciare con il piglio beffardo di un manifesto di Mimmo Rotella.

Quando il Re era già nudo, e noi tutti svestiti da qualsiasi sovrastruttura etico-morale. Così questa tensione alla semplice evidenza di natura, che per altro produce esiti spesso pregevoli su un piano formale, come nel caso dei nudi in massa di Spencer Tunick, si avvita in un cortocircuito dell'esperienza visiva: più si toglie, più emerge insinuante il dubbio che si stia invece cercando di mettere qualcosa. Di collocare la materia impalpabile di un'idea.

Un'idea che coincide idiosincraticamente con i propri confini, e cioè con il principio di una diversità, di uno stigma riqualificante non tanto il corpo che la ospita, ma una soggettività ormai priva di radianza espressiva. L'essenza rivela l'assenza, direbbe forse un pensatore postmoderno. Ma ogni assenza richiama il riempimento di un codice esterno che la renda leggibile e comunicabile.

Tutto ciò, non saprei come altro chiamarlo se non trasgressione.

Non però trasgressione da qualcosa, attenzione, e neppure espressione artistica eccentrica di qualcos'altro. Un sfondo simbolico sottile, piuttosto. E anche infido a ben vedere. Vischioso.

L’idea che mi sono fatto io, a quasi quarant’anni dal mio primo incontro con un corpo nudo fotografato, è allora che noi abbiamo un bisogno quasi fisiologico di trasgredire, di svestire le consuetudini che fanno da asticella ai nostri gesti. A maggior ragione, e appunto per paradosso, quando l'asticella sia posta al livello del suolo, innalzando un muro di nebbia.

Ecco, noi abbiamo bisogno di superare quella concentrazione di acqua vaporizzata mista a dubbi, come negli spettacoli in cui un mimo finge di muoversi a ridosso di una parete, per poi scavallare l’ostacolo che egli stesso ha immaginariamente implicato.

Forse perché la trasgressione si impone come un possibile nuovo confine, cioè quale gesto che assume un valore quasi araldico, di figura con un alto grado di solidità culturale, oltre che di riferimento sociale. Scriveva il filosofo francese Michel Foucault:

La trasgressione è la glorificazione del limite.

E così queste persone comuni, nella loro disarmata e complice nudità, anche adesso che non hanno più alcun tabù sociale da infrangere, ancora si cercano lo sguardo come a dire: "L’abbiamo fatto franca, siamo riusciti a rubare ancora una volta la marmellata, a essere trasgressivi, diversi dagli altri, originali...

Ad assere comunque qualcosa, qualcuno.”

Ma in pratica, gli altri a cui si stanno tacitamente riferendo per opposizione, e cioè i conformisti, i borghesi bigotti e i codini, con tutti i loro inutili abiti, hanno la stessa consistenza del muro immaginale del mimo. Stanno nella loro testa, non esistono.

Allo stesso modo, è un pregiudizio infondato anche il tabù che queste opere di estremo e ricorrente conformismo si propongono di infrangere, non possedendo alcuna oltranza estetica (se non quella piacevolezza formale che già gli abbiamo riconosciuto) a sostegno di una idea ormai comune e diffusa: la trasgressione.

Nonostante ciò, io penso che non sia del tutto inutile e inconsistente quel che viene rappresentato. Qui si sta infatti reinventando un limite, per poi poterlo nuovamente infrangere in una sorta di infinità ricorsività, dove trasgressione e regola si richiamano come lo jodel del pastore altoatesino e il proprio eco. E qual è l’effetto di questa impresa apparentemente inutile, insensata?

Io credo che esista qualcosa come un guadagno sociale, che consiste nel sentirsi complici di un gruppo fortemente coeso, non isolati e soli. Un po' come me e Federico nelle nostre bravate: le fialette puzzolenti nelle tasche dei cappotti delle compagne, o l’utilizzo di Corrado Lapsus come cavia nelle piste più pericolose ed infide di slittino. Se non si spiattellava contro un abete, poi andavamo noi.

Ma anche a livello individuale, la trasgressione, o meglio l’illusoria adesione al suo spettro contagioso, produce la sensazione di sentirsi diversi dalla massa. Quindi definiti, circoscritti da un segno fosforescente, luminoso anche di notte come lo Stabilo Boss. Individualizzati direbbe forse uno psicanalista junghiano. Insomma, di esistere.

Si tratta dunque e ancora una volta di un paradosso, di un cortocircuito estremo. La differenziazione – estetica, culturale, cognitiva – viene raggiunta proprio attraverso la rappresentazione dell’elemento più comune e universale: il proprio corpo naturale, al netto di qualsiasi successivo sovratesto ornamentale, o di un segno storico ed intenzionale.

E così non ho ancora capito se queste recenti operazioni “artistiche” mi fanno più pena o tenerezza. Di certo, mi ricorderò per tutta la vita delle riviste serie di mio padre, di quelle un poco meno serie di Federico e dell’odore di fieno e menta dell’edicola che le ospitava entrambe, a pochi scaffali di distanza. Sì, come galline sul trespolo del medesimo pollaio, ma ciascuna certa di essere l'unico e impareggiabile gallo.

1 commento:

  1. Qualcuno rifà il gioco della trasgressione con la penosa convinzione di far qualcosa di inusitato e nuovo (e artistico, naturally). Ma è solo un "pomeriggio con Cesar Paladiòn".

    Certo però che un'edicola che sappia di fieno e menta è una gran figata. Ormai irrintracciabile, fors'anche nei ricordi.

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