Mi chiedevo se commentare un post
sui social corrisponda a rivolgersi a una persona in carne e ossa, con i
relativi galatei di genere che ciò comporta. O più radicalmente, se sia
possibile accostarsi a un testo in modo non dico neutro – le sue parole sono
parole intestate, possiedono una firma ad anticiparne lo sviluppo – ma facendo
riferimento in prima istanza proprio all’identità di chi scrive, e cioè alla
singolarità vissuta di cui il nome si fa testimonianza. Non al corpo che sui
social viene esibito solo in forma surrogata, o addirittura omesso.
Basta fare un semplice
collaudo. Leggiamo, a caso, dieci post scritti da nostri contatti femminili, e
altrettanti che appartengono a contatti maschili. Apparirà evidente che i
commenti sono riferibili all'oggetto solo in parte, e quelli lasciati ai post femminili
sono molto diversi da quelli maschili. Tutto ciò secondo ricorrenze
percepibili: solo limitatamente possiamo associarle alla biografia di chi viene commentato, ciò che si impone è l’indifferenziato
del genere.
È come se non potesse esistere
un testo fatto di sole parole, una comunicazione che si fonda sulla forza dei
propri argomenti – ma anche stile, ritmo, sintassi –, e piuttosto ogni
scrittura dovesse essere sessuata, non di rado erotizzata. Diversamente da ciò
che una certa tradizione orientata ai gender studies lascia
intendere, la caratterizzazione viene però dall’interprete, non
dall'interpretato. E fatto salvo quei post di sola immagine, in cui la
fisicità è messa a tema con spudorato candore: culturisti che sembrano sul punto di esplodere,
allumeuse che hanno studiato con cura, prima di scattare il selfie, il numero
di bottoncini da lasciare dischiusi.
Non voglio suggerire che ciò
sia male, nemmeno che siamo ottenebrati dal pregiudizio o dall'uzzolo che
fa tana tra le cosce. Semplicemente accade questo fenomeno verificabile
senza sforzo. Liquidarlo con il termine “amichettismo” (e forse è presente
anche questo, ma mi appare, per così dire, un epifenomeno limitato e
circoscritto a certi ambienti a cui si è data eccessiva centralità) fa ombra a
un dato più originario: non esiste il logos, siamo solamente corpi.
Corpi anche quando ai sensi sia
negata la verifica empirica. Corpi pensati dall’altro, prima ancora che corpi
che pensano. Così piuttosto che affrontare la vertigine di un pensiero
astratto, ammesso che davvero possano esistere pensieri disincarnati, diamo
forma immaginaria a quell'assenza. Per poi collocarla su uno scaffale
preformato, come facciamo con i libri – i libri di genere, appunto.
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