lunedì 25 ottobre 2021

Nuovi peccati: l'espressionismo



Nella pagina dei commenti de la Repubblica di oggi, Enzo Bianchi, ex priore della comunità di Bose, ricorda che il primo dei comandamenti è quello dell’ascolto (“ascolta Israele!”), senza il quale anche i dieci incisi sulle tavole di marmo consegnate a Mosè cadrebbero nell’oblio. Inascoltati, appunto.

Leggendo le sue parole mi è venuta in mente la scuola fondata a Crotone da Pitagora nel 530 a.C. Gli allievi erano divisi in una cerchia più ristretta, i matematici, e altri che potremmo vedere come delle matricole, a cui era negata la visione diretta del maestro. Solo potevano intravederne la figura dietro a una tenda: la voce filtrava ma non gli era consentito porre domande, o altre forme d'interlocuzione. Perciò venivano chiamati acusmatici, da akousma, voce, suono, a cui era limitata la loro esperienza per la durata di tre anni dall'ingresso nella scuola, ce lo comunica Porfirio di Tiro. Tre anni di assoluto silenzio e ascolto.

La reminiscenza scolastica mi suggerisce una modesta proposta: e se introducessimo una simile regola anche per i social network? Qui tutti parlano, linkano, commentano, postano fotografie, ma pochissimi stanno ad ascoltare. Me compreso, naturalmente. Da un punto di vista tecnico non è difficile. Per tre anni si dovrebbe aver dato prova di ascolto, ad esempio riassumendo gli interventi che più ci hanno colpito. Quindi anche a noi sarebbe consentito scriverne di propri, come nella scuola di Pitagora avremmo guadagnato il diritto di parola, saremmo stati promossi alla cerchia dei matematici; quando prima che una faccenda di numeri e calcoli, matematica significa tecnica dell’imparare.

Ovviamente so che non potrà mai essere così, o meglio non potrà essere più. Fate dunque come se non avessi detto nulla, come se non mi aveste ascoltato; un esercizio che ci viene particolarmente bene in un mondo in cui l’impulso a dire supera di gran lunga quello ad ascoltare. Condannandoci, aggiungerebbe Enzo Bianchi, a essere peccatori. Una forma di moderno peccato che potremmo chiamare espressionismo, in cui viene confusa per virtù (la sincerità) l'espressione di ciò che pensiamo. Ma lo pensiamo veramente – si può pensare senza aver prima ascoltato, insegnare senza avere imparato? – o lo esprimiamo soltanto…

giovedì 21 ottobre 2021

Ambra e il Cavallo, per un’etica civile del luogo comune


"Ogni volta che mi rendo conto della verità di un luogo comune, mi viene da gridare, come Archimede, "Eureka!" Lo confidava Michel Houellebecq a Fabrizio Coscia in un’intervista di qualche tempo fa, da cui ricaviamo che compito della letteratura è smentirli, i luoghi comuni, quanto confermarli, ossia sottoporre la realtà al collaudo di un’esperienza interposta e fittizia; nel linguaggio della scienza vengono chiamati esperimenti mentali.

Ciò che il gossip ci sta dando in pasto nelle ultime ore può dunque essere visto come esperimento mentale, il cui esisto farebbe gridare Eureka! a Houellebecq. Mi riferisco al pettegolezzo rilanciato da Dagospia, per cui l’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri sarebbe portatore di una virtù, che, per dirla con le parole di Fabrizio De Andrè, tra tutte le virtù è la più indecente. Per dirla invece con le parole di Dagospia, l’allenatore, nel giro dei conoscenti, verrebbe chiamato Cavallo. Insomma, Allegri è superdotato, e chiudiamola qui.

Ciò che mi interessa provare a dischiudere sarà allora il rapporto tra stereotipo e realtà, oggetto e narrazione; una porticina piccola piccola e nascosta che si apre su un grande confuso magazzino; ci troviamo Marylin Monroe con la gonna sbuffata al insù ma anche le Marlborlo arrotolate nel risvolto della t-shirt di Marlon Brando ma anche il Big Jim… È in quello specchio che la nostra anima, il suo residuo dal saccheggio degli ultimi decenni, perlomeno, si riflette. Le Grande Autre lo chiama con bella espressione Lacan, il Grande Altro.

In questi giorni è stato celebrato il funerale pubblico della relazione tra Ambra Angiolini (la "vittima") e Allegri (il "carnefice"), quale mormorata conseguenza di un tradimento scoperto dalla prima e agito dal secondo, con tanto di tapiro ad Ambra da parte di Striscia la notizia e parole accorate e solidali di Massimo Gramellini. Tutto ciò ha colpito l'immaginario collettivo, l'ha ridestato dal torpore delle infinite discussioni sul Covid.

Voglio essere molto chiaro: il tapiro ad Ambra è l'ennesima scemenza di un programma ripugnante, e che lei possa soffrire per amore mi spiace; in un’ideale piramide di Maslow dei dispiaceri, tale sentimento occupa però una posizione prossima alla base, ben dopo alla tristezza per il mio cane, Mela, che oggi si contorceva per gli spasmi causati da una brutta colite. Prendo semplicemente atto che il contegno pubblico di Ambra è stato impeccabile, dimostrandosi donna intelligente e ironica; i due termini sono forse sinonimi, ma gli riconosco volentieri entrambe le qualità. Come credo anche lei preferisca, l’intera vicenda umana mi appare così rubricabile nel cintato perimetro dei cazzi suoi.

Trovo invece di grande interesse la risonanza mediatica, civile e perfino letteraria della vicenda, che ancora una volta vede la realtà conformata al suo sciatto stereotipo, letteratura di genere se vogliamo essere generosi: la bella attrice non si fidanza con un cassaintegrato malato di fibromialgia (qualcuno che mi somigli, per intenderci), ma con un uomo altrettanto ricco, famoso e, ora si scopre, anche superdotato. Stiamo dalle parti dei romanzi Liala, o di quel suo upgrade che sono i programmi pomeridiani di Rete 4.

Il che va benissimo, sia chiaro: non c’è biasimo, sarcasmo né tantomeno invidia nelle mie parole. Ma sarebbe bello, come fa Michel Houellebecq, che anche il pensiero progressista imparasse a convivere con i luoghi comuni, li rivendicasse perfino. In fondo, passare dal riconoscimento del mondo così com’è e non come dovrebbe essere, già nelle favole viene indicata come la via più salubre per ridestarsi dal sogno prima che divenga incubo; basta trasformare nuovamente i principi azzurri in rospi, e il gioco è fatto.

La mia geremiade non riguarda dunque i dolori della post-giovane Ambra, ma il fatto che la famigerata casalinga di Voghera non possa avere un fidanzato ugualmente ricco, famoso e superdotato, da cui farsi fare le corna e poi ricevere un tapiro d’oro da Striscia la notizia. Questa è l’unica forma di democrazia che scorgo nel selfie mediatico in cui l’Italia si indigna, protesta, ride, si incazza, l’unica forma di equità sociale sopravvissuta all’implosione di ogni altra utopia.

giovedì 14 ottobre 2021

Il riconoscimento politico del fascismo, una risposta ad Andrea Di Consoli


Lo scrittore Andrea Di Consoli ha scritto un post su Facebook in cui si dichiara contrario allo scioglimento di Forza Nuova. In realtà non fa espressamente il nome della formazione neofascista, ma l’attualità politica lo suggerisce senza ombra di equivoco. Nello stesso testo, argomentato con equilibrio e nessun tono polemico – glielo riconosco volentieri come merito –, passa quindi dal particolare all’universale, assumendo che lo statuto pubblico di partito o movimento funziona da argine a eventuali tentazioni eversive, conducendo il sentire in esso coagulato al sicuro approdo della dialettica democratica. Ciò lo porta a concludere che fu un errore anche la messa al bando costituzionale del Partito Fascista Repubblicano.

Il ragionamento non è del tutto eccentrico (nelle tenebre prepolitiche si trama più facilmente che alla luce del sole), per quanto, in prima battuta, già gli si potrebbe obiettare: dunque sfasciare la sede della CGIL non è da considerarsi un gesto eversivo? Allo stesso modo il maggior rappresentante delle istituzioni statunitensi, Donald Trump, ha innescato le derive violente di Capitol Hill, così come la Notte dei cristalli fu orchestrata da un movimento politico alla guida della Germania quale conseguenza di regolare suffragio, che consegnò a Hitler un'ampia maggioranza relativa (43,9% dei voti, per un'affluenza del 71,6). Ed è questa un’ombra che può ripresentarsi – e si è ripresentata – a ogni occasione, almeno quando la democrazia si traduca in mero computo dei consensi, braccio di ferro tra istanze alternative nella gestione pratica della vita associata.

Ho appena usato il termine ombra, altre e più precise definizioni non mi vengono in mente. In questo gioco di chiaroscuri meglio di me si è espresso Karl Popper, che con i suoi testi filosofici articola quella che mi appare la risposta più convincente ad Andrea Di Consoli; e fatto salvo che nessuno pretendeva che quest'ultimo risolvesse una questione annosa con un intervento sui social network, per quanto le sue parole vanno contrastate con fermezza.

Anche Popper, come Di Consoli, pensava che una società democratica dovesse essere aperta al dissenso, integrandolo in forme visibili con cui ci si possa confrontare in forza dell’argomentazione. Ma qualora questa disposizione porti al formarsi di movimenti che ne pervertono la natura, teorizzando la revoca dei diritti e delle libertà personali e collettive, a sua volta, la società aperta auspicata dal filosofo, deve sapersi richiudere. Di più: blindare a propria tutela.

Può apparire a prima vista un paradosso, ma a ben vedere è un gesto di estrema coerenza: limito tutto ciò che ha nel limite la sua premessa ideologica, già che se non lo facessi finirei con l'essere a mia volta limitato – da una presunta superiorità razziale, religiosa, di genere ecc.; o semplicemente perché c'è chi si diverte a vedere gli effetti dell'olio di ricino. Per farlo mi avvalgo di tutte le possibilità che il potere democratico mi consegna, tra cui la chiusura forzata di un movimento politico di tal sorta.

Lo schema del ragionamento di Di Consoli va dunque ribaltato. Non è vero che l’emersione di un sentire antidemocratico attraverso lo status politico ci tutela da quelle idee, ma ne rende al contrario la realizzazione ancora più incombente. Parlando in linea puramente teorica e, spero, assurda, chi può infatti escludere che Forza Nuova possa diventare il partito di maggioranza in Italia? Il fascismo, la cui rappresentanza Di Consoli vorrebbe reintegrare, ebbe un ampio consenso popolare. E democraticamente cancellò infine la democrazia.

Se noi accettiamo la presenza di Forza Nuova come legittima e riconosciuta espressione di un pensiero altro, dobbiamo insieme accettare la remota eventualità di essere governati dai suoi capoccia, che dalla curva di qualche stadio (sempre che il Daspo non li escluda anche da lì) si trasferirebbero a Palazzo Chigi, con tanto di bandiere e trombette e spranghe. Ma quell’eventualità coinciderebbe con la fine della società aperta, che per questo, fintanto che è nelle condizioni di farlo, deve preventivamente escludere i suoi nemici, confinandoli oltre al limes in cui il pensiero può trovare pubblica rappresentanza. E cioè, tra gli altri, il fascismo, neo o vetero che sia.

mercoledì 6 ottobre 2021

La città senza insegne

 

Ieri notte ho sognato che avevo trovato finalmente un lavoro, non prendevo più il reddito di cittadinanza. In effetti io non prendo il reddito di cittadinanza, sono semplicemente disoccupato, ma nel sogno le cose stavano in modo un poco diverso; lo scrivo per i lettori più pignoli, i campeggiatori nella pineta del realismo: la tenda va piantata bene a terra e i grilli fuori a frinire, mai dentro la testa. Anche i sogni, per queste persone, devono essere documentabili, e chiamano fiction tutto il resto. Nel nostro caso si tratterà allora di onirofiction.

Nella messa in scena notturna non so quanto pagassero per il nuovo lavoro, ma, come si dice, importante è cominciare. Cosa devo fare ho chiesto rimboccandomi le maniche?

Un uomo alto con folti baffi neri mi ha indicato un telefono di celluloide. Roba da modernariato, mercatini rionali, con il disco commutatore per comporre i numeri facendolo ruotare in senso orario. Per un attimo ho avuto il dubbio che fosse quello con cui la mamma telefonava alla zia, e, dopo un’ora di ma dai... ma tu pensa... DAVVERO?! citofonava bestemmiando il vicino, con cui condividevamo la linea attraverso  il duplex. Devi rispondere quando suona, ha detto l’uomo troncando bruscamente i miei ricordi, e poi raccontare una storia.

Una storia, quale storia…? ho ribattuto perplesso.

Non importa, fai tu. La persona che chiama ti dirà una parola: usala, immagina che sia la motrice di un treno a cui devi attaccare i vagoni. Si tratta, in genere, di persone che vogliono solo passare il tempo. Inventati qualsiasi cosa, basta che non dici parolacce.

Come nelle favole al telefono di Gianni Rodari! ho esclamato; finalmente avevo trovato un aggancio, il primo vagone merci del treno.

L'uomo coi baffi neri è rimasto impassibile. Evidentemente, nel mio sogno, che era la sua vita, non esisteva Gianni Rodari. Un sogno di merda, va' (ma l'ho solo pensato, non si sputa nel piatto dove si mangia).

Ecco che squilla il telefono. Una voce rauca e quasi sussurrata, probabilmente appartiene a una persona anziana, senza tanti preliminari mi suggerisce la parola insegna. Insegna, mmm... Imposto le corde vocali sul registro Gassman (Vittorio eh, mica il figlio spilungone) e comincio a fare il mio lavoro.

C'era una volta una città in cui i negozi non avevano le insegne. Nemmeno una? mi chiede il signore anziano, diciamo pure vecchio. No, nemmeno una, via pure i cartelli stradali. E questo era un problema, in particolare per gli stop e i centri massaggio cinesi.

Senza insegne avevano iniziato a chiudere: prima uno, poi l'altro, come le luci di un condominio dopo le dieci di sera. Le massaggiatrici che resistevano passavano il tempo ad allenarsi tra di loro, torneranno i tempi buoni si dicevano per farsi coraggio. Ma, per quel particolare tipo di prestazione, non funzionava, mancava un dettaglio anatomico che finivano per scordare. E alla fine mollavano come chi le aveva precedute.

Qualcuno mormorava che stessero tornando in Cina, tornavano a casa loro, per la felicità di un famoso partito politico che ne aveva fatto lo slogan, l'Italia agli italiani; purtroppo esisteva anche nel sogno, il partito politico sì e Gianni Rodari no. Proprio un sogno di merda. E comunque che ne so dove fossero finite le massaggiatrici cinesi, ho dovuto infine ammettere incalzato dal mio interlocutore.

Rimanevano solo i maschi, ma non trovando moglie – i cinesi si sposano notoriamente tra di loro – finivano coll'estinguersi; niente più involtini primavera, casalinghi a poco prezzo, negozi in cui si riparano gli smartphone, niente più cinesi di qualsiasi sesso e solo uomini caucasici con i baffi, come quello che mi aveva assunto.

E le altre donne? mi chiede il vecchio con il solito filo di voce. Quelle simili a noi, senza gli occhi a mandorla e la elle al posto delle erre. Sì, insomma, dove sono finite le nostre donne?

Accidenti, mi ha preso in castagna, è un particolare a cui non avevo pensato. Balbetto qualcosa ma poi mi tocca ammetterlo: non lo so. Posso solo confermare che anche loro erano scomparse.

I maschilisti lo imputavano al fatto che le donne, pure, sono insegne: fioriscono a primavera per le vie del centro, come Wanda Osiris quando si dischiude il sipario. Al posto dei neon profumi, foulard colorati, minigonne e bigiotteria, per distinguersi tra la folla. I maschilisti più maschilisti di tutti aggiungevano: e un bel culo. Nel paese senza insegne, concludevano, è normale che non ci fossero culi femminili.

Ma le femministe ribattevano ringhiose sui sociali network (non potevano infatti farlo di persona, erano sparite insieme a ogni altra donna) che se ne erano andate per solidarietà con le massaggiatrici cinesi. Quindi condivano il tutto con qualche segno grafico transgender, tanto per mettere le cose in chiaro. Il fatto che il vecchio non facesse obiezioni mi faceva pensare che l'avesse bevuta...

Al posto di parole, dall'altra parte della cornetta, sentivo però provenire dei sospiri, potevano essere anche singhiozzi, non si capiva bene. Forse ho esagerato, mi dico. Le storie non cambiano certo il mondo, ma quel piccolo pezzo di mondo costituito da chi le ascolta sì, le narrazioni possono essere ascensori come sgambetti. Che sia ruzzolato nella tristezza per colpa mia?

Ho pensato allora di alleggerire il racconto, basta a volte una rima baciata per strappare un sorriso. In una città senza insegne, dico, una storia in cui non sopravvive nemmeno un piccolo arrugginito cartello sopra a una vetrina, tutto dilegua in un'ombra confusa. Le cose, quando non vengono segnalate, notate, è come se non esistessero. Prima di arrivare alla luna bisogna passare per il dito che la indica. E all'oscurarsi dell'ultima insegna, la città rimane senza fregna.

A quel punto è rientrato l'uomo coi baffi neri e mi ha strillato qualcosa in tedesco, l’accento era quello della Renania settentrionale, sembrava il comando impartito a un Dobermann con le orecchie drizzate, pronto a scagliarsi alla mia gola. Du bist gefeuert, du bist gefeurt! ripeteva.

Bisogna aggiungere che io, in tedesco, conosco solo la parola wurstel, ma nel sogno lo parlavo correntemente, in particolare il dialetto della Renania settentrionale, se incontravo un renano ci saremmo messi a raccontare barzellette sui bavaresi, chiamandoli affettuosamente terroni.

Ho così potuto tradurre al vecchio che ancora mi ascoltava confuso, spiegandogli che non potevo più andare avanti con la storia perché ero appena stato licenziato.