domenica 31 dicembre 2023

Mi fido o non mi fido...?

Facendo zapping con il telecomando sono approdato a un triste siparietto televisivo, e come sanno gli autori dei programmi il peggio ha un potere calamitante sullo sguardo. Era presente Piergiorgio Odifreddi, al solito sornione ma lievemente sotto tono, forse perché arreso all'impossibilità di un vero dialogo con la controparte, che era composta da una  bizzarra compagine di terrapiattisti e complottisti vari, in cui non poteva mancare Red Ronnie. Credo sia inutile fare il riassunto di ciò che è stato detto, la disparità degli interlocutori – volutamente selezionati per generare l'effetto "ma senti questi..." – basta e avanza. Sarebbe come fare la telecronaca di una partita di calcio tra la nazionale brasiliana e il Cantù.

C'è però un aspetto che trovo interessante e non conoscevo. Anche in matematica, materia astratta per definizione e dunque alla portata di un pensiero attrezzato allo scopo, non ogni formula è oggetto di conoscenza diretta. Mettiamo il teorema di Fermat. Odifreddi spiega che tutti i matematici lo conoscono, ma non tutti i matematici – solo una piccola parte in realtà – saprebbero dimostrarlo. Gli altri si fidano, delegano il loro sapere.

Questo elemento di delega della conoscenza non è un tratto della modernità, ma del processo di civilizzazione. Quando, ad esempio, nel secondo secolo a C. un mercante di olio percorreva la via Salaria e sul cippo a lato leggeva la distanza che lo separava da Roma, si fidava di quel dato espresso in milia passuum. Già allora sarebbe implosa l'organizzazione sociale repubblicana dubitando dell'informazione incisa sulla pietra miliare.

Eppure, continua Odifreddi, noi sappiamo benissimo che i governi non ci dicono sempre la verità, o perlomeno tutta la verità, nient'altro che la verità: molto viene omesso e qualcosa perfino sviato, come emerge dal caso WikiLeaks. Magari la distanza tra Roma e Ascoli sarà pure giusta, ma ogni sistema umano, come quelli informatici, contiene un bug, il più delle volte l'errore è frutto di semplice accidente.

Che fare dunque: buttare via tutto ciò che non è verificabile di persona, bambino e acqua sporca, o considerare lo scarto prospettico come una condizione necessaria, necessaria ma non sufficiente alla vita con altri?

Prendiamo il caso dei vaccini che ci ha diviso negli ultimi anni. Pfizer è un'azienda in cui lavorano fianco fianco centinaia di ricercatori, persone laureate, competenti. Al termine dei loro studi hanno sottoposto i risultati alle agenzie regolatorie del farmaco, anch'esse composte da donne e uomini con specifiche e dimostrate conoscenze nel settore. Immaginare un tacito e omertoso accordo tra di loro, in pratica una congiura, è semplicemente folle, ma la trasparenza di questo metodo di lavoro non garantisce al 100% sulla bontà del risultato, specie riguardo gli effetti a lungo termine dei vaccini. Tocca di nuovo fidarsi, delegare.

Un dubbio che ha indotto molti a sottrarre la spalla all'iniezione, dire a me non mi freghi mica, prima mostrare tappeto poi soldi. È la solita storia del dito di San Tommaso da infilare nella piaga, diventato il naso per ragioni fonetiche. Ok, possiamo capirli, non li condanniamo. In fondo, ci ricorda Popper, la scienza è tale perché i suoi enunciati devono essere falsificabili, e la verità di oggi domani potrebbe convertirsi in errore. Ma se tutti diffidassero non torneremmo a una condizione premoderna, ma precivile. In pratica, quando Uruk e Ur non erano ancora state edificate, e piccole tribù di Homo Sapiens Sapiens vagavano spronando un neghittoso gregge di pecore.

No, nemmeno la Fender Stratocaster di Jimi Hendrix era stata ancora inventata, mi dispiace caro Red Ronnie. Forse, nelle tue sedute di negromanzia, potresti convincerlo a suonare una foglia d'ulivo.

sabato 30 dicembre 2023

Estoy mal!

Mi sembra che un tratto comune a definire un concetto vago e molteplice come Occidente sia l'indicibilità del dolore. Quello vero intendo, non il disappunto che al contrario si è accresciuto, e produce querimonia. Ma non è sempre stato così. Non ho elementi per giudicare se anche la percezione del dolore sia cambiata – è possibile, lo potrebbe forse dire un sociologo o uno psicologo sociale –, fatto sta che i segni del dolore si sono spostati dalla parola ai gesti (gli adolescenti che si tagliano le braccia, ad esempio) oppure ai sintomi fisici, le somatizzazioni.

Un confronto tra il consumo degli psicofarmaci, ma anche di alcol e di droghe, con un passato non necessariamente remoto ci vedrebbe di certo vincenti, per quanto sia un podio a cui avremmo volentieri rinunciato. Eppure non abbiamo più lacrimevoli pellicole come L'ultima neve di primavera, con cui al cinemino dell'oratorio i preti insinuavano il loro memento mori, e noi cuccioli degli anni Settanta tornavamo a casa a farci consolare da una fetta di pane burro e zucchero, bastava poco per riacquistare fiducia nelle magnifiche e progressive sorti dell'infanzia. Oppure le canzoni di montagna che erano una tassonomia delle peggiori sventure (la mama l'è malada, el pà, poro pà, l'è morto, stava a cercar la capreta che l'è cascada in un buron…), mentre nei testi attuali il dolore prende forme ellittiche, più pudiche e sommesse.

Naturalmente, per ogni regola sono presenti delle eccezioni. Ricordo una canzone di Adanowsky, figlio di Alejandro Jodorowsky, di alcuni anni fa, in cui per tutta la durata non faceva che ripetere estoy mal, infinitamente mal, y porque?, es un mistero fatalIn quel riferimento al mistero (fatale) della sofferenza c’è forse una traccia dell’omissione attuale del dolore dal discorso pubblico. Il mio sospetto è che a essere venuto meno non sia tanto il dolore in sé, ma il complemento di causa: io sto male, gridavano con unica voce gli operai di Mirafiori mentre io frignavo a cinema, perché Agnelli mi sfrutta; io sto male perché Stefania Sandrelli è andata a letto con il mio amico Luigi Tenco, l'episodio viene raccontato nella biografia di Gino Paoli; io sto male perché mi è caduta una tegola in testa; io sto male a causa di questo o di quest’altro.

Ora invece sto male e basta. Perché? Boh, es un mistero fatal. Cosa che mi fa stare ancora più male, ma se lo dico rischio di fare la figura del pirla. Così lo ometto, lo alludo, posto una sciocchezza a caso su Facebook, i cui like dovrebbero rallegrarmi. Cerco insomma di simbolizzare il malessere, non il dolore che non conosco se non nei casi della perdita di un famigliare, la cui condivisione attraverso i social produce una solidarietà anch'essa solo simbolizzata (ma il simbolo di un abbraccio non è un abbraccio di carne e giacconi imbottiti), espressa in minuti e non nei tempi lunghi e umani del lutto. Perciò cedo infine la parola al corpo.

mercoledì 27 dicembre 2023

L'Uomo dell'inverno


Temevo che quest'anno non si sarebbe mostrato... Ma proprio oggi, mentre ero fermo a un semaforo rosso con il riscaldamento a palla, ho incrociato l'Uomo dell'inverno.

Lo chiamo così perché non conosco il nome né ho altre informazioni che lo riguardano, è una semplice apparizione, meglio ancora un'epifania, si compie puntuale all'arrivo della stagione più fredda. Nelle altre non c'è traccia di lui, scompare allo sbocciare di giacinti e camelie per riapparire quando l'ultimo caco è stato colto dalla pianta.

Ha così finito col rappresentare un buon auspicio per l'anno entrante: lo si attende speranzosi, qualcuno pare lo invochi perfino, un rituale dello sguardo simile al sangue di San Gennaro che viene fatto sciogliere a Napoli. Solo che qui siamo a Sondrio, e le temperature nel periodo possono scendere ben sotto lo zero.

Per l'Uomo dell'inverno non sembra però rappresentare un problema. Da che ne ho memoria, dunque più di cinquant'anni, indossa una camicia a disegni scozzesi con i primi due bottoni schiusi, gilet di pelle nero aperto, jeans, stivali texani e cappellaccio da cow boy, anch'esso di pelle. La capigliatura è ipotetica, celata com'è sotto le lunghe falde del copricapo, ma dal colore dei baffi a manubrio si suppone rossiccia. Nell'insieme ricorda il personaggio di un celebre cartoon della Warner, Yosemite Sam.

Lo accompagna a debita distanza, tre o quattro metri dietro come fa il chierichetto col parroco, un donnino che sembra patire tutto il freddo che l'Uomo dell'inverno non avverte, da cui si protegge con abiti pesanti in fitti strati a cipolla. Forse è la moglie, la fidanza… o più probabilmente è una creatura mitologica come lui, con cui condivide l'aspetto immutabile al trascorrere del tempo.

Sono convinto che anche tra cent'anni, poco prima di capodanno, un grumo di tendini e intelligenza artificiale ancora incrocerà l'Uomo dell'inverno e il suo angelo custode, e come me si domanderà: Ma chi cazzo sono questi due?!

E non basteranno tutti i suoi algoritmi per offrire una risposta plausibile.

venerdì 22 dicembre 2023

Contro BEE

 

Stefano Brugnolo, critico letterario capace di speleologia ma anche di ironiche pattinate sulla superficie dei testi, nei giorni scorsi ha scritto su internet un intervento contro Bret Easton Ellis, e ciò a partire già dal titolo che riprendo.

Non è del tutto chiaro se nella circostanza prevalga la prima o la seconda delle sue disposizioni, ma mi sento in totale sintonia con quanto scrive. Anche a me BEE non piace, e come lui non ho letto l'ultimo celebrato romanzo, Le schegge, Giulio Einaudi editore, attenendomi ai pregiudizi che ho maturato.

Eppure non è stato sempre così. Quando per la prima volta incrociai le pagine di American Psycho rimasi colpito, di più, entusiasta, il cui etimo rimanda alla presenza di un dio dentro di noi (en-theós). Ma ai successivi romanzi la potenza irradiante di quel dio ha cominciato a decrescere, fino a tornare a essere un fantolino dentro la paglia di una mangiatoia.

Cosa diavolo era successo?

La risposta che mi sono dato, ma dopo molto tempo, è che ci sono opere dell'ingegno umano il cui piacere è condizionato dalla novità, venendo vanificate dalla ripetizione. L'esempio forse più illuminante è quello di Duchamp: prendere un orinatoio e metterlo in una galleria d'arte fu un gesto rivoluzionario, mostrandoci come il contesto contribuisca a definire la percezione dell'opera.

Ma tu guarda, non me ne ero mai accorto... Quanto sono belle le linee aggettanti di quell'ammasso di ceramica in cui negli autogrill pisciamo accanto a un camionista bulgaro, senza prestarvi alcuna attenzione. La bellezza si mostra – emerge proprio, in un moto opposto al flusso delle nostre deiezioni – solo cambiando arbitrariamente funzione all'oggetto, in un'anticipazione figurale della celebre formula di McLuhan: the medium is the message.

Il problema è che l'effetto si realizza solo la prima volta, one shot, e chi volesse riposizionare nuovamente un orinatoio in una galleria d'arte otterrebbe solo disinteresse, la meraviglia verrebbe convertita in sbadiglio. È il limite dell'arte concettuale: passata la festa, gabbato lo santo.


Ciò che ha fatto BEE è qualcosa di simile. Ha preso il male assoluto, incarnato da un serial killer, e l'ha stornato da un'altra parte, dallo scaffale dell'etica a quello dell'estetica. Un'operazione perfettamente riuscita, ottenuta per il tramite di una scrittura oggettiva che Brugnolo giustamente associa a Hemingway e Carver: un behaviorismo letterario che non lascia spazio ad approfondimenti motivazionali, psicologia, l'umano insomma così come è stato inteso da Agostino in poi, il quale per primo vi associò il concetto di anima inventato da Platone. Tutto lumeggia in superficie come i resti di un naufragio.

Ma in quella superficie, e in quei resti, più che tracce biografiche del suo protagonista si mostra molto di noi come comunità, anche se magari individualmente non strapperemmo neppure una piuma al canarino dello zio. Le marche dei vestiti, degli occhiali da sole, automobili sportive dove sniffare cocaina, "sono le cose che parlano" cantava Lucio Battisti. E ciò che le cose dicono è che in luogo dell'anima si è annidata nei corpi una caricatura glamour del mondo. Non il male, ma neppure il suo argine. Piuttosto il contesto da cui muove – fusione perversa di Tecnica e Capitale – alla maniera dello spazio artistico che ci consente di guardare con occhi diversi l'orinatoio.

Il guaio è che BEE ha perseverato in ciò che Duchamp si è invece guardato bene dal fare: ha replicato la sua formidabile intuizione, rendendo ozioso il gioco. Ok, saremo anche una società tossica e fatua, disanimata, ma ciò in cui la letteratura è massimamente attrezzata è immergersi nel flusso psichico e biografico dei personaggi, istituendo delle relazioni di senso. La meccanica dei comportamenti viene restituita molto meglio dal cinema, per dire.

Ecco, l'impressione è che BEE abbia scoperto il cinema con quasi un secolo di ritardo. E se la prima volta, replicando lo shock degli spettatori dei Lumière, leggendolo siamo balzati sulle poltroncine all'arrivo della locomotiva, adesso ci chiediamo: da dove viene quel treno, dove va, perché i passeggeri sono saliti a bordo?

Tutte domande a cui lo scrittore non risponde, e pare anzi beffarsi, come fece con David Foster Wallace, di chi provi a offrire una risposta sensata; sarà pure discrezionale ma è intimamente legata alla pratica narrativa, scaturita dalla consapevolezza delle potenzialità di un'azione che si è andata definendo nei secoli. Ciò che invece fa è riproporci il suo orinatoio ormai ingiallito, in uno scarto dalla norma che è improprio chiamare trasgressione, essendo divenuto nel frattempo maniera. Perciò ha smesso di sorprenderci. E dunque di piacerci.

sabato 16 dicembre 2023

Ndo cojo cojo, o su share e gradimento al tempo dei social

Negli anni Settanta esisteva una trasmissione radiofonica intitolata Alto gradimento. Ideata e condotta da Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, con la sulfurea partecipazione di Mario Marenco e Giorgio Bracardi, alternava brani musicali a gag umoristiche, il tutto trasmesso all'ora di pranzo dal secondo canale della Rai.

Il gradimento, nel caso di mio padre, era effettivo e talmente intenso che aveva iniziato a registrare le puntate. Il guaio è che non esistevano ancora i radioregistratori, e così, quando iniziava la diretta, metteva un piccolo registratore da ufficio di fronte alla radio a transistor presente in cucina. Si mangiava in silenzio per godersi senza distrazioni il programma, ma soprattutto per non interferire nella registrazione.

Riascoltando in seguito i nastri, di tanto in tanto si udiva il suono delle posate a contatto con piatti, una sirena lontana o la voce della mamma che chiedeva se volevamo ancora un po' di pastasciutta, subito fulminata dallo sguardo di papà: Aristea, le diceva senza dire, sto registrando!

Io alcune battute le capivo e altre no – mi piaceva molto Bracardi nel fare la parodia di un fascista della prima ora, meno la comicità di Marenco che era più astratta e surreale, solo adesso ne comprendo il genio – ma venivo assorbito dal clima di concentrata ritualità di fronte all'apparecchio radiofonico, fino a coincidervi in una condizione di presenza che ha qualcosa in comune con la pratica zen.

Non so se altre famiglie celebrassero il medesimo culto laico, allora non erano presenti sistemi per il monitoraggio dello share, e si parlava appunto di gradimento, che è il piacere singolare nel vivere un'esperienza. La diffusione, che è appunto lo share, poteva solo essere ipotizzata, ad esempio dalle conversazioni al bar: "Li peguri li peguri" sentivi dire a qualcuno mentre il barista gli versava un goccio di Sambuca nel caffè, e da ciò capivi che anche lui seguiva Alto gradimento, replicandone un tormentone.

Ma adesso, ha ancora senso parlare di gradimento? I like sui social, mettiamo: sono share oppure gradimento?

Stento a immaginare la trascrizione di un post di Chiara Ferragni o di Calenda, con centinaia di pollicioni in calce, da rileggere la sera prima di addormentarsi. Ho piuttosto l'impressione che si tratti anche in questo caso di share: ognuno batte il suo tamburo, come cantava Lou Reed, per ampliare orizzontalmente la finestra da cui sporgersi sul mondo, chi se ne frega se sia davvero piaciuta la foto del gatto che gioca con un gomitolo di lana, domani ci inventeremo qualcosa di nuovo per fare cassa. Importante è che gli altri posino una pietra d'inciampo, qui ha vissuto una creatura di segni e simboli protesi. 

In altre parole, non è più in gioco la bellezza, che comunque presuppone la certezza di una forma, anche brutta, ma la forma stessa e la sua ipotetica sostanza, talmente incerta da richiedere continue verifiche, collaudi numerici. E ciò vale a tutti i livelli: se in tanti dicono che la terra è piatta o nei vaccini inseriscono dei microchip per controllare se hai l'amante, il dubbio viene... Poco importa che astronomi e scienziati dicano il contrario. Gli scienziati fanno pochi like.

Gli eroi del nostro tempo diventano così tutti quelli che inviano, in genere senza una selezione ragionata, ndo cojo cojo come per i volantini dell’Unieuro, la richiesta più volgare: "Tal dei Tali ti chiede di mettere mi piace alla sua pagina Facebook". Ma perché dovrei dire che mi piace una cosa che neppure conosco? Che avventatezza questo Tal dei Tali, che coraggio!

E invece ha ragione lui. Il termine giusto non è infatti piacere, andrebbe corretta la domanda, non è neppure gradimento, ma qualcos'altro che ora comincio a intuire. Tal dei Tali sta mendicando il tuo (infinitamente replicabile) gettone di share – e daglielo, che così non rompe più i coglioni. Avere un ampio share non equivale a essere più amabili, ma più visibili. In pratica, Tal dei Tali, ti chiede di obliterarne l'esistenza, vengo "likato" dunque sono.

Perciò d'ora in avanti comincerò a elargire i miei like a tutti gli accattoni di consenso, all'inizio farò un po' fatica ma se lo meritano. Che mi costa, in fondo? Neppure sono tenuto a guardare di che si tratta. Così avrò tutto il tempo di riascoltarmi i nastri con le vecchie puntate di Alto gradimento, li ho ritrovati in soffitta accanto al Subbuteo e a un paio di sci Spalding impolverati.

giovedì 14 dicembre 2023

Orvieto, a true sentimental story

Alle scuole medie avevo un compagno di classe che si chiamava Orvieto, come la città. È passato talmente tanto tempo che ricordo solo il cognome e il cespuglio nero e crespo dei capelli, spiccava nella fila dei banchi alla mia sinistra, verso i finestroni da cui si scorgeva il cubo di cemento della palestra e più dietro l'arco dell'Adamello dalle cime innevate fino a tarda primavera.

Il suo anonimato si rifletteva negli studi, in cui non brillava di certo, ma nemmeno collezionava note sul registro come me. Una via di mezzo, una media leggermente al ribasso, con tutte le premesse per diventare un uomo altrettanto medio, abbozzi di vita in cui la cornice si ingoia piano piano il ritratto. O perlomeno così appariva, e questa è una storia che mi ha insegnato a diffidare delle apparenze.

In ogni caso, quella brava era l'Acquistapace. Piccolina, occhi azzurri, capelli lunghi e lisci e biondi. Talmente bella che l'avrei posata nel muschio del presepe al posto della Madonna. Di lei naturalmente ricordo tutto, tra cui il nome, Simona, e l'odore di marzapane che emanava quando si alzava per andare alla cattedra a ritirare il suo tema, dopo che la professoressa Cozzini ne aveva letto uno stralcio.

Trascorsi pochi giorni dal compito in classe di italiano, era una prassi a cui avevamo preso l'abitudine: sia la lettura di qualche passaggio dal tema con il voto più alto, sia che quel tema appartenesse all'Acquistapace. Fu dunque grande lo stupore, una mattina in cui il sole tardava a manifestarsi e l'Adamello era più innevato del solito, nel non sentire leggere il solito tema dell'Acquistapace, ma per intero quello di Orvieto. Titolo: Parla di tuo padre.

A un certo punto la Cozzini si commosse pure un po'. Fu quando, con parole semplici e sentite, Orvieto descriveva il ritorno dal Belgio del padre, dopo anni in miniera. La gratitudine per quest'uomo che sentiva tossire nel letto, la silicosi come forma concreta dell'affetto di un padre per il figlio, che lo ricambiava con l'uguale concretezza dell'inchiostro.

Non sto dicendo che fosse un capolavoro, ma per la prima volta intuivo la differenza tra sentimento e sentimentalismo. Se i miei temi erano pieni di sarcasmo per sfuggire la trappola del glucosio in forma verbale – avevo una fama da bullo da mantenere –, non la grande letteratura ma il tema di Orvieto mi mostrava ora il mondo da una prospettiva diversa: essere porosi, assorbire, non avere fretta di restituire l'esperienza. Il sentimento somiglia piuttosto a un alambicco, che dalle cose distilla lentamente una goccia preziosa, possiamo anche chiamarla lacrima.

Ecco, quella era una possibilità che non avevo considerato, come nello stesso periodo il triangolo cantato da Renato Zero. Per me scrivere era invece una partita a tennis, la pallina andava ributtata subito dall'altra parte, e l'eventuale bellezza era costituita dalla veronica di Panatta, il gesto plastico e virtuoso che strappa l'applauso al pubblico del Foro italico.

Una contrapposizione che vedo riproporsi anche adesso: chi si esalta per lo stile, gli sperimentalisti, i gaddiani, chi per le belle storie che toccano il cuore. Quella di Orvieto non finisce in quell'inverno lontano, gli anni Settanta che sfumano e cedono il loro piombo ai sabati sera infebbrati, ero riuscito a vedere la pellicola con John Travolta anche se non avevo ancora compiuto i quattordici anni richiesti. Devono passare altri tre decenni.

Posso solo immaginarlo quando si presenta di fronte all'armeria gestita dai genitori dell'Acquistapace, ormai è un uomo di mezza età. È lei ad avermelo raccontato, dopo lo stesso periodo di tempo in cui neppure noi ci siamo visti, sono state di nuovo le parole scritte a farci ritrovare, questa volta da me. Nel salutarci con un bacino sulla guancia mi sono accorto che odorava sempre di marzapane.

Orvieto prima si guarda in giro, legge bene l’insegna, esita. Poi entra nel negozio, continua l'Acquistapace, e posa un fucile sul bancone. È avvolto nella carta marroncina come fanno nei film americani con la bottiglia di whisky.

– Posso lasciarlo qui? – chiede Orvieto alla madre dell'Acquistapace.

– Mi dispiace, non trattiamo armi usate – risponde lei.

Poi però lo scarta, soppesa il calcio in legno di ontano controllando che non ci siano graffi, scorre le dita sul cane, verifica che la sicura sia inserita e preme leggermente il grilletto: – Comunque sembra in buono stato, può farci ancora qualche centinaio di euro.

– Mi scusi, c'è un equivoco. Non sono qui per i soldi: mi basta liberarmene, non voglio più vedere questo fucile!

– Non capisco...

– Ero compagno di scuola di sua figlia. Me la saluti, a proposito, quando la sente. Lo consideri un regalo.

Tocca ora fare una pausa e ricordarsi del tema delle medie. Il padre che tossisce, la silicosi, fatica e dignità nel campare una famiglia, la propria famiglia. Amore, diciamolo pure senza girarci attorno. Show don't tell insegnano nei corsi di scrittura. E noi invece lo diciamo, non vogliamo mica essere i primi della classe, dei sotuttoio come l'Acquistapace. Piuttosto degli Orvieto, persone che si barcamenano tra concetti spesso troppo difficili per loro – la crisi climatica, il PNNR, la geopolitica – ma almeno una cosa l'hanno imparata, anzi lui la possedeva al massimo grado e senza bisogno di studio. I sentimenti.

– Con questo fucile – conclude Orvieto –, mio padre la settimana scorsa si è sparato.

domenica 10 dicembre 2023

Psiche e merda


Da qualche anno ho sviluppato la convinzione che l'attività professionale più sgangherata e tronfia sia il counseling psicologico. Ma in generale e pur riconoscendo alla psicologia clinica una maggiore dignità, per qualche ragione mi suscita anch'essa diffidenza, estendendosi alle psicologhe che ne rappresentano per numero e passione il verbo, con buona pace di Paolo Crepet e dei suoi cache-col di seta a stampa floreale.

Mi vergogno un po' non solo a dirlo ma anche a pensarlo – c'è certamente del sessismo in questa affermazione –, ma più faccio autodafé e più si fortifica il mio pregiudizio. E poi non è vero che contiene un'ipoteca negativa verso le donne, per altre categorie funziona esattamente all'opposto: di norma ho più fiducia in un medico di sesso diverso dal mio, oppure in un'avvocatessa, tremando al solo pensiero di trovarmela contro in una controversia giudiziaria. Per non parlare della poesia, in cui prediligo le voci femminili.

Naturalmente sono valutazioni relative, frutto di una statistica del tutto soggettiva e balzana; diciamo otto casi su dieci, facciamo otto e mezzo, come il film. Ma tornando alle psicologhe, quelle otto e mezzo che mi stanno sul gozzo sembra riescano a coniugare tre fondamentali caratteristiche del nostro tempo, due delle quali parrebbero escludersi a vicenda: superficialità, dietrologia (dietro ogni semplice gesto si cela un complotto psichico, e se le contraddici non fai che confermare la congiura), il tutto espresso per mezzo di un lessico saccente e parascientifico, con le memorie dolorose che si convertono in vissuti emotivi disfunzionali, tenere botta in resilienza acting out 
in luogo di mandare qualcuno a fare in culo.

Attraverso tali strategie viene aggirata la scabrosità delle vite concrete, le quali trovano ordinata collocazione in un abbecedario semplificato. Il tema mi sembra così diventare antropologico: non sono le psicologhe a fare male il loro lavoro, ma la domanda di senso che proviene dalla società – e parlo naturalmente di quella sua porzione egemone che per comodità chiamiamo Occidente – a reclamare delle scorciatoie, amplificando o viceversa trascurando importanti aspetti del vivere assieme.

Se ad esempio la tua fidanzata ti lascia, pensiamo a Filippo Turretta, quello sì che è un problema, e che problema! Bisogna andare subito da una psicologa. Mentre se un tornitore con tre figli viene messo in cassa integrazione: non pervenuto, la psicologia non ha tempo di occuparsi di questi inciampi, dovevi laurearti anche tu, fare l'Erasmus in Germania, il master negli Stati Uniti e quindi aprire uno studio di counseling, invece di giocare col tornio. Anche perché il cassaintegrato con quali soldi potrebbe pagare la seduta, dalla parcella di norma cospicua?

No no, meglio perderli che trovarli pazienti così, diciamo pure poveri. Concentriamoci piuttosto sui moderni giovani Werther con le loro pene d'amore, le questioni gender e queer, l'ingozzo o il digiuno a un banchetto dove non fanno mai difetto le portate, padri che invece di picchiare il pugno sul tavolo corteggiamo le compagne di scuola dei figli. Questi sono i nostri problemi, questo è l'Occidente percepito, come la temperatura percepita in estate, per definizione diversa da quella reale.

Hanno dunque ragione le psicologhe nell'essere come sono, massì, diciamolo senza eufemistici slalom: un po' cretine. Ma in realtà non lo sono, lo fanno, come si dice a fin di bene. Sono infatti il nostro specchio di Grimilde, a sussurrarci che siamo sempre i più belli del reame, nonostante ci sembra di possedere un pene minuscolo a fronte di un’enorme canappia, almeno se confrontata al grazioso nasino di Di Caprio.

Non dica sciocchezze, il suo naso è perfettamente nella norma. E per quell'altro coso, in effetti è un po' piccino, ma le misure non sono importanti, non per noi donne almeno. Guardi le statue greche, non YouPorn. E adesso suvvia smetta di piangere! (Rumore di fazzolettini Kleenex, naso soffiato, lunga pausa). Tutto ok, meglio adesso...? Sì sì, grazie. Bene. Fanno ottanta euro. Ci vediamo giovedì prossimo, magari venga dieci minuti prima che poi devo andare dal parrucchiere.

Detto in altre parole, quelle della teoria psicoanalitica del transfert con cui imbrattiamo l'immagine dell'altro, fino a confonderlo con i ritratti ingialliti dei nostri antenati, ma le parole anche di una vecchia canzone di Giorgio Gaber, se quando incroci una psicologa avverti un sottile ma insistente tanfo di merda, non basta il profumo Hermes a coprirlo, facile che sia tu, non lei, a esserti cagato addosso.

domenica 3 dicembre 2023

Patriarcato e maschilismo

Semplificando al massimo, il patriarcato è una forma di organizzazione sociale in cui il potere è distribuito in vario modo tra maschi adulti – i giovani non hanno alcun margine di autonomia, qualsiasi sia il loro sesso biologico – e TUTTE le donne sono asservite, con benefici nella migliore delle ipotesi riflessi (ad esempio essere la moglie del capo tribù).

Diversamente, in ciò che viene detto maschilismo la condizione femminile è come se si sdoppiasse: le donne brutte restano a margine, mentre, per quelle belle, l'aspetto fisico diventa a sua volta una forma di potere, con cui ottenere vantaggi frazionari dall'ordine maschile.

La variabile che subentra nel patriarcato a convertirlo in maschilismo è la sillaba no: le donne possono dire no (non esco con te, non mi piaci, non mi faccio mandare dalla mamma a prendere il latte), mentre nel patriarcato il diniego femminile è inconcepibile. Lo possiamo verificare in alcune culture ancora pienamente patriarcali, ad esempio quella pakistana che non significa automaticamente islamica  i retaggi indoeuropei lì sono ancora molto forti , con i matrimoni stabiliti attraverso contratti tra i maschi adulti di famiglia.

In quei casi i femminicidi non sono la vendetta a un sì poi revocato (tipicamente: un amore unilateralmente concluso, come nel caso di Giulia Cecchettin), ma la conseguenza di un no subito espresso. Come no? Qui non esiste no è la risposta compatta dei maschi al vertice.

Il fotogramma di una celebre trasmissione televisiva che ho riportato non rappresenta dunque la conferma del sistema patriarcale che sarebbe tutt'ora presente in Occidente, macché, è una visione ingenua e purtroppo diffusa di leggere i segni del tempo. Semmai, di un suo superamento in chiave maschilista.

La bella ragazza tra due maschi ghignanti e quasi anziani: lei in costume da bagno, loro in abito scuro da gala. Lo squilibrio è imbarazzante, ma avrebbe potuto dire no, non se ne parla proprio! Evidentemente ha valutato che con quella sola apparizione televisiva poteva guadagnare, in cinque minuti, quanto una coetanea meno bella in un mese di lavoro al pup Crazy Hamburger. Oppure la remunerazione è nei termini di umano desiderio di riconoscimento e approvazione, alla maniera delle palette con il voto a Miss Italia.

Non è nemmeno detto che il vanto per il culo sia superiore a quello per il cervello. Intanto ti fai strada con il culo (il cervello non si vede), e poi capitalizzi con intelligenza e capacità, come ha fatto Sofia Loren arrivando quarta proprio al concorso di Miss Italia, era l'anno in cui Pavese si tolse la vita e usciva la Fiat 1400. Il corpo utilizzato strategicamente con funzione di apripista. Il campione di sci arriva dopo.

Sono scelte, magari non le condividiamo – quanto è bella la ragazza che fa da muta sottiletta tra Bonolis e Laurenti, quanto è ottusa e brutta l’immagine in cui guadagna il centro focale – ma è giusto rispettarle. Come andare o non andare a letto col produttore per avere un ruolo nel film; pratica che Marylin ammetteva con il suo consueto candore, accompagnando il tutto con un sospiro.

Semmai è discutibile la domanda, non la risposta, che può essere appunto anche no, o ancora meglio I would prefer not to, come rispondeva lo scrivano Bartleby a ogni richiesta a lui rivolta. Ma se la sventurata risponde affermativamente, partecipa, nei fatti quanto nei simboli, a quel sistema di potere. Dove a essere emarginate non sono le donne, ma le donne brutte. Per gli uomini l'avvenenza fisica comincia ad avere una timida ricaduta sociale solo da qualche decennio.

Gli esempi di un potere che non ha bisogno di forza per ottenere si sprecano. Nell'antichità abbiamo la sua premessa mitica con Elena e Circe, che trasformava i maschi in porci, mentre diventa effettivo a seguito dell'affermazione della società borghese nell'Ottocento, di cui possiamo individuare un emblema in Virginia Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria Oldoini, meglio nota come Contessa di Castiglione.

Anche lei si levava gli abiti di fronte a maschi adulti e di potere, probabilmente andava ben oltre, qui si fa l'Italia o si muore, ma al netto dell'enfasi risorgimentale si faceva poi solo l'amore. Ma chi tra di essi dirigeva il gioco e chi era diretto? La risposta non è così scontata.

mercoledì 29 novembre 2023

Inno nazionale ombra

Negli anni Settanta essere italiani equivaleva a riconoscersi in una manciata di nomi, sempre gli stessi, di numero grossomodo equivalente a una squadra di calcio, con tanto di riserve e massaggiatori. La sua formazione si irradiava da minuscole radioline a transistor appese allo specchietto retrovisore di auto con i sedili ancora incellofanati (così quando le rivendevi sembravano nuove), e avrebbe potuto costituire un inno nazionale ombra, come il governo ombra realizzato dal PCI.

Avrebbe?

In realtà quell'inno esiste per davvero, si intitola Nuntereggae più e uscì nel 1978 per l'etichetta It, Rino Gaetano ne firmò musica e testi, prima di interpretarlo con la sua meravigliosa voce cartavetrata. Era il riflesso incarnato di un Italia che già sentiva di avere un piede fuori dagli anni di piombo – il discrimine non fu politico ma coincise con l'uscita nelle sale della Febbre del sabato sera – e composto dai seguenti giocatori, intonati nella strofa che precede il refrain:

"Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli, Susanna Agnelli, Monti, Pirelli dribbla Causio che passa a Tardelli, Musiello, Antognoni, Zaccarelli (nun te reggae più) Gianni Brera (nun te reggae più) Bearzot (nun te reggae più) Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio, Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno, Villaggio, Raffa, Guccini..."

Bene, proviamo a immaginare cosa ne sarebbe oggi di un inno nazionale per nomi e cognomi, che è anche un modo – confrontando le due formazioni – per fare un provvisorio bilancio di questi cinquant'anni, senza impegolarsi con i dati Istat e la sociologia. Basta guardare chi è uscito e chi è entrato in campo al suo posto:

Mauro Corona, Fabrizio Corona, birra Corona, Ilary Totti in tackle scivolato su Francesco Totti (nun te regghe più), Alfonso Signorini passa a Mughini, Morgan dribbla Mentana, Bobo Vieri fa la telecronaca sulla Bobo Tivù (nun te regghe più), Lilli Gruber accavalla le gambe, Marco Travaglio fa le faccine, Massimo Cacciari si incazza di brutto (nun te regghe più), batte Sinner su Mariotto che alza la paletta, Arisa mostra e non mostra le tette sulle notifiche dello smartphone (nun te regghe più), Oscar Farinetti e il made in Eataly, Carlo Cracco, Salvini spara la palla in tribuna contro tre marocchini, Meloni, Sallusti di testa a Maria De Filippi (nun te regghe più), Fedez crossa dal lato sinistro che indistinguibile dal destro, Fabio Volo prende la mira mentre gli altri scrittori fanno le corna e mormorano venduto (nun te regghe più), para di pugno Selvaggia Lucarelli, Fazio Fabio dichiara serafico importante che vinca lo sport, Platinette non pervenuta, Elly Schlein già arrivata al capolinea (nun te regghe più), Alba Parietti dibatte di geopolica con Rocco Siffredi, i virologi si scaldano a bordo campo in attesa della prossima pandemia, Ferragni dice la palla è mia non gioco più, Sgarbi, che era smarcato, le grida capra capra capra!

A me il risultato di questa ipotetica partita tra passato e futuro appare evidente, e mette il magone. Non c'è che da fare il tifo per una prossima realizzazione della macchina del tempo. Pazienza se ci toccherà mangiare nuovamente i ghiaccioli rossi rossi, ricolmi di ogni chimica schifezza.

lunedì 27 novembre 2023

Patriarcato

Il dibattito di questi giorni sul patriarcato mi ha ricordato una battuta pronunciata da Kant, che per una volta mostra di possedere non solo intelligenza ma anche senso dell'umorismo: c’è un genere di medici insinua il filosofo di Königsberg, i medici della mente, che pensano, ogni volta che trovano un nome, di aver trovato una malattia.

Ora quella frecciatina andrebbe forse ribaltata di segno, già che nel suo significato letterale – e cioè aderendo alle categorie antropologiche da cui proviene – il termine patriarcato è del tutto improprio a descrivere il presente: è una vecchia parola per definire una nuova malattia.

Il patriarcato, come ha ricordato Massimo Cacciari ospite da Lilli Gruber, può essere sintetizzato dal concetto di patria potestas, che prima delle parole latine che lo esprimono (in questo aveva ragione Kant: le parole arrivano quasi sempre dopo le cose, quando non le generano come nella buona novella cristiana) si manifesta in Occidente a partire dall'invasione dei Dori, intorno alla metà del secondo millennio a.C. Quindi si consolida nelle successive ondate ariane dall'Asia centrale, che dilagando nelle terre del tramonto importano il loro modello sociale fondato sulla tripartizione tra sacerdoti, guerrieri e contadini o piccoli artigiani. Tutti maschi, naturalmente.

L'organizzazione anteriore può essere solo ipotizzata – il matriarcato? – ma è certo che da quel momento in poi il padre ha un dominio totale sulla famiglia e l'uomo sulla comunità, con interessanti variazioni che però non ne stravolgono il modello. A Sparta, ad esempio, la donna aveva un ruolo molto più rilevante che ad Atene, dove ci si stupiva che Pericle compisse dei gesti pubblici di tenerezza verso la compagna Aspasia.

Poi il patriarcato entra in crisi, come è evidente, continua Cacciari, nelle tragedie shakespeariane: Otello, Macbeth e Lear sono tutti maschi la cui potestas vacilla, senza però crollare come avverrà a seguito della rivoluzione industriale con conseguente urbanizzazione, dando vita alla classe borghese che si accompagna alla fine del patriarcato. Un mondo ancora ampiamente sbilanciato verso il lato maschile, ma in cui l'eccezione alla regola si fa quantomeno licenza.

È di nuovo l'arte a testimoniare il cambiamento: tra Emma e Carlo Bovary, poniamo, chi guida e chi è guidato? A me sembra che si siano persi entrambi; con la differenza che Emma cerca nuove direzioni al suo malessere, finendo con l'essere travolta da quella bussola ingannevole che è il desiderio mediato, mai davvero suo, e Carlo si involve, ripiegando su sé stesso come un fiore senza acqua.

Lo psicoanalista Massimo Recalcati concede al patriarcato un ulteriore secolo di sopravvivenza, anche se io sarei più propenso a chiamare quella fase di trapasso maschilismo – l'epoca dei vari fascismi lo fu al massimo grado, con significative differenze tra nord e sud, campagne e città – culminando comunque nel 1968. Da lì in poi nulla è stato come prima.

Carlo Bovary o Zeno Cosini o, ancora, i maschi inetti alla vita nelle opere di Cechov, divengono così l'emblema involontario del maggio francese, e la dolente involuzione del loro status virile non si discosta molto dal presente digitalizzato; mentre nelle donne il bovarismo si converte in rapporti sempre più saldi con il reale, emancipandosi dalla pappa di sogno romantica.

In una percentuale minoritaria di maschi, il progressivo svuotamento di potere sulla donna che smette di essere davvero propria, se non nei testi delle canzoni, si traduce in rabbia e rancore; ed è la probabile altra faccia della medaglia costituita dallo sconcerto provato da chi ha compiuto diciotto anni il 20 settembre del 1958, giorno in cui la legge Merlin imponeva la chiusura dei bordelli. E io…? avranno pensato i più focosi tra di essi, in un sentimento di espropriazione che è tutto il contrario dell’onnipotenza simbolica confezionata dal sistema patriarcale.

Dal punto di vista testosteronico, ossia limitato alla sola forza fisica e non biologica, gli uomini rimangono però potenzialmente dominanti, e così a qualcuno potrebbe venire la tentazione di infrangere la teca in cui lumeggia l'oggetto desiderato, guardare ma non toccare. No, io voglio dunque io posso, è la reazione di quei pochissimi alla perdita del regno. Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli, ancora recita una preghiera rivolta a un maschio caucasico anziano e con la barba.

È questo il pensiero anche di Erri De Luca che, senza l'assertività spiccia di Cacciari o le volute intellettuali barocche di Recalcati, ma con la dolcezza partenopea che lo contraddistingue, parla di sentimento maschile della disgregazione. Quella disgregazione del maschio che nel cinema ha trovato forse la migliore sintesi nelle pellicole di Marco Ferreri; rispetto al languore romantico o alla vertigine primonovecentesca fotografano un elemento più attuale: la donna percepita come alterità ontologica assoluta, e non solo come subalterna emancipata.

Peccato che nel cinema contemporaneo non sia presente quell’acutezza di sguardo, sempre accompagnato da una poetica bizzarria, affettuoso sberleffo di chi non giudica ma apprende. Pensiamo alla pur apprezzabile pellicola di Paola Cortellesi: l'impegno civile è qui massimo, ma flette la coscienza analitica che dovrebbe fargli da sfondo, restituendo una vicenda particolare che non riesce guadagnare risonanza universale, farsi stemma di mondo. Si ha piuttosto l'impressione che cerchi di dare un vecchio nome alla confusione instabile del presente. E invece dovremmo fare ciò che Kant rimproverava a un genere di medici, i medici della mente: cercare nuovi nomi, nuove forme e ragionamenti. Più complessità, insomma.

Ma va bene partire anche da lì, Cortellesi, più che i fasti di un ormai inesistente patriarcato, ci ha mostrato gli strascichi di quella cultura sopravvissuta oltre due millenni; non un canto del cigno, ma l’ululato del lupo braccato dai cacciatori. Ora sarebbe bello che qualcuno ne afferrasse il testimone e sviluppasse il discorso, lo precisasse. A un tempo complesso parole e immagini complesse. Nuove.

giovedì 23 novembre 2023

Lo sfigato e la puttana, o su come le parole fanno mondo


I femminicidi stanno diventando un fenomeno simile ai monsoni nel subcontinente indiano: vengono vigliaccamente compiuti da un maschio, se ne parla molto e non di rado a sproposito, poi, per un poco, ce ne scordiamo in un'apparente quiete di vento, fino a che una nuova tempesta si abbatte. Una ricorsività priva di fantasia di cui sorprende solo la nostra memoria corta.

Giulia Cecchettin avrebbe potuto chiamarsi Concetta Scognamiglio o Anna Rossi, la sua morte era comunque attesa, come purtroppo la prossima vittima, speriamo il più tardi possibile. Ma proprio perché siamo una specie smemorata è tanto più forte la reazione emotiva, al punto che qualcuno si chiedeva in questi giorni quale fosse l'equivalente maschile di puttana, riferito a una donna con intento offensivo. Non ho dovuto pensarci molto prima di concludere: sfigato.

È interessante notare come i due termini coincidano nel giudizio di valore, che non potrebbe essere più sprezzante. Si pongono però in antitesi quanto al loro significato: da un lato, con puttana, abbiamo una sorta di eccesso – poco importa se l'esubero (di “figa”) venga spartito per noia, professione o come Bocca di rosa né uno né l'altro, lei lo faceva per passione – mentre lo sfigato sconta l'avvilente regime della penuria. Ma sei puttana anche se revochi l'offerta di ciò che è e rimane tuo a chi si illudeva di esserne monopolista, e sfigato se non fai valere questo illusorio diritto. Da qui il femminicidio.

Ancora più interessante è indagare l'uso accidentale dei termini. Se ad esempio troviamo l'auto lasciata in sosta con una lunga ammaccatura sulla fiancata, l'esclamazione che segue non sarà porco patriarcato, ma più verosimilmente porca puttana! Potremmo pensare a qualcosa di simile all'inconscio psicoanalitico – già Lacan poneva un'analogia tra linguaggio e inconscio –, ma a differenza di quello non si mostra nei sogni e negli atti mancati, ma attraverso imprecazioni che emergono quando rabbia e dolore prendono il sopravvento.

Pensiamo alla sequenza del film Berlinguer ti voglio bene, con Benigni, nel ruolo di Mario Cioni, che ha appena ricevuto la notizia della morte della madre; fortunatamente si rivelerà solo un macabro scherzo degli amici. Mentre attraversa i campi per raggiungere la casa di famiglia è tutto un gorgogliare di frasi sconce – “la merda della maiala degli stronzoli nel culo…” –, un vulcano che solo così riesce a eruttare il suo male.

Per comprendere il codice di ciò che fa tana sotto i discorsi nei talk show, dove si commenta forbitamente la tragedia del giorno, meglio sarebbe allora spegnere il televisore e andare in vacanza con Filini, quindi tenere in posizione verticale il picchetto della tenda mentre questi cerca di conficcarlo al suolo con un grosso martello. Non rivelerò cosa avviene dopo, essere italiani comporta la conoscenza di quest'altro film e delle memorabili sventure del suo protagonista, il rag. Ugo Fantozzi.

Se in condizioni estreme la donna, nell'immaginario maschile, si converte in puttana, e la puttana in porca, bisogna riconoscere che nella maggior parte dei casi il pregiudizio non viene replicato nei gesti. Nel nostro solo Paese si verificano ogni anno un centinaio di femminicidi, ma per ognuno di essi abbiamo migliaia di maschi gentili e premurosi verso le loro compagne. Le esclamazioni sessiste sono insomma solo modi di dire, come le donne dicono di quel tale ma l'hai visto, che sfigato!, conversando sotto il casco del parrucchiere.

Tutto bene dunque, tutto a posto? Sì e no. Perché tra la regola e l'eccezione si mostra un sottilissimo filo, costituito appunto dal linguaggio. Per reciderlo e fare volare il palloncino in cielo dovremmo imparare la difficile arte dello sdoppiamento vigile, ascoltarsi mentre una lingua ci parla (con l'illusione essere noi a parlarla) potrebbe essere una buona propedeutica.

Magari continueremo a dire porca puttana, porca troia, sfigato – succede mica niente, a catechismo venivano chiamati peccati veniali. Ma almeno avremo intuito da quali oscure profondità alfabetiche provengono i comportamenti che gli fanno da specchio, dove non esiste lo smaltimento dei rifiuti verbali. Si trasmettono da una generazione all'altra, saturano il cazzeggio negli spogliatoi, si accumulano alla maniera delle pile degli smartphone che prima o poi dovremo spedire sulla luna.

L'omicidio di una donna da parte di un uomo respinto rappresenterà pure un caso su un milione, come il legno con cui viene costruita una ghigliottina. Ma prima è stato un albero uguale a tutti gli altri, prima ancora un seme, che non a caso possiede lo stesso etimo di semantica. Una parola insomma, seppellita sotto la terra dissodata dal conversare distratto. Se le condizioni ambientali le sono propizie poi accade quel che accade. Mentre con il diserbante della consapevolezza, la si può forse stroncare prima che sbocci.

Inappropriate, o sull'ordine simbolico e la meraviglia

La differenza tra la vita e il cinema, ti dicono, è che nella prima il male accade, così, semplicemente e senza un senso, mentre nel secondo è un segno, rimanda quasi sempre a un'idea di mondo. Un mondo ammalorato, appunto, che grazie a quel segno lo spettatore si presume possa riconoscere, prendendone le distanze.

Eppure, a volte anche le storie della vita insinuano dei segni, ma per intenderli dobbiamo guardarli come se fosse un film, puntellato da reconditi messaggi creati ad arte dal regista, dallo sceneggiatore e perfino dal costumista.

Immaginiamo allora per un istante che la sorella della povera Giulia Cecchettin, Elena, sia un'attrice, e che l'orrenda felpa con la quale ha rilasciato le interviste fosse un abito di scena, si è addirittura parlato di satanismo. Il commento più ricorrente è però stato di inappropriatezza: non ci si presenta in pubblico conciate a quella maniera, a maggior ragione quando tua sorella è appena morta.

Nell'ipotetico film che interpreta, non si potrebbe trovare migliore aggettivo per commentare l'intera vicenda: inappropriata, che sta a significare di non proprietà, ciò che si porge non contiene l'ipoteca di nessuno, e perciò lo si può anche revocare.

Elena Cecchettin è dunque stata davvero inappropriata, almeno in senso letterale, come lo era la sorella Giulia: entrambe fuori dal possesso di un solo uomo o di un'intera benpensante comunità. Di più. Tutte le donne, ma in fondo tutti senza distinzione di genere, dovrebbero essere inappropriati, sia nel lasciare la persona che non si ama più, sia nell'indossare indumenti di discutibile gusto. O meglio: il proprio gusto.

L'unica proprietà che un'altra persona ha su di noi è quella di inviare segni, a cui, a nostra volta, abbiamo proprietà di corrispondere o meno. Quando si realizza la corrispondenza abbiamo amore, amicizia, comunità. Diversamente, quei tizi che stanno al bancone a bere da soli, nei pub inglesi li chiamano sad bastard.

Possiamo anche intendere l'ordine simbolico come il codice del gruppo, e la meraviglia un'inattesa singolarità che non nuoce, ma disorienta e fa pensare. Forse per questo Aristotele sosteneva che la filosofia proviene dalla meraviglia. L'abbigliamento di Elena Cecchettin diviene così un gesto filosofico meraviglioso, in cui l'abituale – andare in tivù compunti e contriti a esibire il lutto – viene rielaborato in nuova forma. E dopo il primo stordimento, le sono grato per avermi arruffato i pensieri.

lunedì 20 novembre 2023

Aggettivi, o sul nesso tra parole e mondo

 

Ho appena letto sul web un commento social che prende avvio dalle seguenti parole: "il punto è sempre l'analfabetismo emotivo dei maschi".

Ovviamente ci si riferisce alla terribile vicenda di Giulia Cecchettin. Ovviamente è scritto da una donna, con cui non ho alcuna intenzione di polemizzare. Solo, mi ha ricordato come nella lingua italiana, a differenza di quella inglese, gli aggettivi abbiano un ruolo spesso negletto, specie negli ultimi anni.

Ad esempio, la frase citata cambierebbe in traduzione, e per quel che mi riguarda diventerebbe anche più vera, perfino più bella. Traduzione non completamente fedele, ma aggiustata con uno di quegli aggettivi che gli anglosassoni non si fanno mai mancare: the point is always the emotional illiteracy of some males.

Meglio, no?

Nessuno ci vieta di fare lo stesso, è sufficiente l'introduzione del medesimo aggettivo, some, in italiano alcuni: il punto è sempre l'analfabetismo emotivo di alcuni maschi. Non c'è più l'effetto “auanagana” di Alberto Sordi in Un americano a Roma, ma mica male.

È solo una possibilità, intendiamoci. Non so se esistano statistiche a riguardo, verosimile che l'analfabetismo emotivo sia diffuso, e sebbene con grado diverso (e soprattutto effetti diversi) si declini in entrambi i sessi. Uno stanco cliché ci ricorda che, oltre a un padre, dietro a un ragazzo c'è sempre anche una madre, a trasmettere una pedagogia di mondo spesso allineata. Bastano semplici gesti, qual è la gerarchia nel servire la pastasciutta: prima il marito, poi il figlio maschio, quindi la femmina e in ultimo lei. 

Allora fuori alcuni e dentro l'aggettivo parecchi, come fa l'allenatore col giocatore inconcludente. Oppure tanti, molti, più ancora renderebbe la sua forma superlativa: moltissimi. Devoto Oli e Zanichelli alla mano, non c'è che l'imbarazzo della scelta.

Ma detta così, i maschi, un aggettivo comunque lo possiede, sebbene in forma implicita. È tutti: tutti i maschi sono degli analfabeti emotivi (anche Topo Gigio, sì, anche Papa Bergoglio e il Mago Zurlì) che è un'evidente sciocchezza.

In un altro film, Palombella rossa, Nanni Moretti si scaglia contro una giornalista che gli fa domande sconclusionate. "Chi parla male pensa male e vive male!" la rimbrotta stizzito. Io aggiungerei che, talvolta, chi parla male uccide la "propria" donna, non avendo compreso che le donne sono tutte improprie, non appartenendo a nessuno. Ed è così che si mostra un nesso non casuale tra analfabetismo emotivo e analfabetismo letterale.

Usiamoli dunque questi aggettivi, anzi questi benedetti aggettivi, che è pure un aggettivo. Soppesiamoli, ragioniamoci sopra prima di strillare il nostro sdegno. La perfida Albione non ne possiede il monopolio, al contrario dei cappelli in pelliccia d'orso canadese che svettano sul capo delle guardie reali.

domenica 19 novembre 2023

Relax

 

Una quindicina di anni fa si è suicidata la madre di un mio amico gettandosi nell'Adda, là dove il fiume si biforca prima del ponte che collega Sondrio ad Albosaggia. Aveva perso un figlio, Federico, il mio amico, in un incidente stradale. Da allora viveva in uno stato di dolente torpore, intervallato dai rari soprassalti che, al risveglio, le procurava l'ascolto dei nastri registrati mentre la dose notturna dei sonniferi faceva effetto, e in cui le pareva di riconoscere la voce di Federico. È questo il modo che hanno i morti di comunicare con noi, le aveva detto qualcuno.

Avrei dovuto essere in auto con lui quella notte del 1987, ma mi stavo annoiando al Vogue, la discoteca dove eravamo andati a bere un paio di Gin Tonic e vedere se riuscivamo a rimorchiare; peccato che le ragazze fossero già tutte accompagnate, nemmeno tanto belle a dirla tutta. Giudizio che, allora, si poteva pronunciare senza decorosi eufemismi, in una disposizione non troppo diversa dalla sosta di fronte alle vetrine dei negozi del centro. In quei momenti la forma è già sostanza, e a smontare il giocattolo il più delle volte si resta delusi. Poco male se, a nostra volta, finivamo con l'essere inclusi nella cornucopia degli anni Ottanta, dove l'occhio che ti scruta somiglia alla paletta dei giurati di Miss Italia.

Nonostante la base elettronica di Relax, la mia canzone preferita, stesse subentrando alla coda di It's a Sin dei Pet Shop Boys, ho così approfittato del passaggio offerto da un tizio robusto col ciuffo; quando gli cascava sui Ray-Ban lo ricacciava in alto soffiando con il labbro posto a balconcino, in un gesto che era poi diventato un tic. Potevi riconoscerlo perfino di spalle, magari mentre al bar giocavi a Pac-Land, versione aggiornata e peggiorata di Pac-Man, dal suono sibilato dell'aria che mitragliava ciuffi ormai del tutto ipotetici. Ciao Piero, gli dicevi senza girarti

Era infatti anche lui un amico, ma di quelli che vedi raramente e il più del tempo lo passi a dare e ricevere pacche sulle spalle, riproponendosi uscite poi sempre rimandate. Mentre declinavo il timbro sulla mano con cui il buttafuori  voleva marcarmi (no, non rientro) prima di varcare in senso inverso il portoncino blindato posto all'ingresso del Vogue, giusto il tempo di ascoltare: relax, don't do it / when you wanna go do it / relax, don't do it / when you wanna come...

Il giorno in cui la madre del mio primo amico ha fatto ciò che ha fatto, un terzo amico, appena terminato il lavoro, l'ha incrociata per strada. Il suo ufficio sta a un centinaio di metri dal ponte, l'acqua che scorre di sotto era quella gelida e scura dei mesi invernali, e a posteriori abbiamo intuito dove la donna fosse diretta. Pedalava con foga su una bicicletta di tipo Graziella, lo sguardo acceso fissato su un punto che vedeva solamente lei, esercitando la stessa attrazione della calamita con la limatura del ferro. Sembrava, come dire... e qui il mio amico ha un momento di esitazione – massì: sembrava finalmente felice.

Quel tipo di felicità di cui oggi colgo un prenatalizio bagliore. Lo sbaglio era stato nel collocarla all'inizio, nell'età dell'oro, nel tempo lieto delle felpe Stone Island e delle Vespe PX con l'adesivo di Radio Studio 105, dei Frankie Goes to Hollywood con la loro Relax. Invece stava alla fine, nel tempo della limatura del ferro, già si intravedono le prime tracce di ruggine. Dai Guido, una piccola pedalata ancora, il fiume è paziente, sa aspettare. Non come una madre che conta i minuti nell'attesa notturna del figlio, ma come fa il figlio con la madre. Basta cambiare solo una piccola parola nel refrain: relax, then do it...