mercoledì 31 agosto 2022

Una Prinz color crema, o sul linguaggio inclusivo


Quando frequentavo gli ultimi anni delle scuole elementari e i primi delle medie ci si passava le suore. Per farlo bastava pronunciare la parola fatidica tua, accompagnandone il suono con un leggero tocco della mano, posata sul corpo dell'amico a cui era indirizzata la transizione.

Tua, già. Un aggettivo possessivo che, ovviamente, non si riferiva alla suora in sé, ma alla sventura che si immaginava accompagnata all'apparire improvviso del suo abito inconfondibile, come avviene con i gatti neri quando ci attraversano la strada. Pensiero magico insomma, e per mezzo della magia di quella formula, tua, si ripristinava la buona sorte.

Più tardi si iniziò a farlo anche con gli omosessuali, o, meglio, con le persone che si vociferava ne avessero inclinazione; in provincia il pettegolezzo è un sale con cui si condiscono giornate sciape, e ci sembrava un gioco simpatico, uno scherzo privo di conseguenze. Era fondato sull'analogia: una cosa vista, per scarto analogico, può trasferirsi a noi. Contaminarci.

Da qui il passo è breve a individuare dei cosiddetti oggetti magici. Se ad esempio un omosessuale o, di nuovo, presunto tale, possiede una certa autovettura, quella può finire col rappresentare il possessore, la linguistica chiama tale ribaltamento metonimia.

Un caso teorico che divenne ben presto reale. Un uomo alto con la barba, non aveva amici e fu più volte visto fare il bagno al fiume completamente nudo e rivolgere la parola ai ragazzini, possedeva una Prinz; automobile economica prodotta dalla NSU e allora piuttosto diffusa, l'aveva anche mio padre. Così presto fatto il nuovo gioco: alla vista di una Prinz si prese a dire tua, come si faceva con le suore e con gli omosessuali. Prinz uguale omosessualità, in altre parole.

E però come la mettiamo col fatto che per andare a trovare i nonni a Busteggia dovevo salire anche io su una Prinz? Se mio padre aveva una Prinz e le colpe dei padri ricadono sui figli per sette generazioni, cavolo, ero fregato, ero colpevole, impuro. L'intero spettro della prinzità, per dirla con Aristotele, finiva col decretare una sorta di ostracismo sociale. E io facevo parte della deiezione.

Fu in quell'esatto momento che realizzai che gli omosessuali – e anche le povere suore – sono persone come me, a cui forse non fa piacere essere "passati". E cominciai a trovare cretino quel modo scanzonato di ingannare il tempo: Tua... Ma che cazzo dici?

Ripenso all'episodio in rapporto all’attuale e diffusa discussione sui generi. Tra cui quello delle desinenze del linguaggio, con uno slancio inclusivo a cancellare ogni differenza, o per contro glorificare il particolare a scapito dell'universale; il passato prossimo del pensiero femminista della differenza si oppone a una nuova cultura dell’indifferenziato.

C'è molta filosofia in tutto ciò, nello specifico il retaggio del decostruzionismo della scuola francese, ha perfettamente ragione Walter Siti che ha scritto un bell'articolo sull'argomento. Parte da lontano, dalla Francia, Parigi, la Sorbonne, l'attuale suscettibilità di alcune minoranze; in particolare quelle che si rifanno alla composita galassia che passa sotto un acronimo che acquista ogni giorno nuovi vagoni alfabetici: da gay a LGBT a LGBTQIA+ e così via.

Ma la filosofia ha finito col rendere tutto più confuso e astratto, non sta aiutando, come dovrebbe, a mettere ordine tra parole mondo. E se provassimo allora ad affidarci nuovamente al pensiero magico?

Intendo. Ci sarà pure qualcosa che somigli alla Prinz, ma su scala più ampia. Ad esempio il respiro. Un gay, una lesbica, un transgender ma anche un bassotto o una giraffa, sono creature viventi che respirano. L’empatia nei loro confronti – ammesso che vi sia, ma credo che sia opinione diffusa che senza empatia non può esserci neppure democrazia – si fonderà così su quel respiro. Siamo tutti uguali nell'atto di inspirare ed espirare.

Dunque attenzione a passarceli quando vediamo una chiassosa e variopinta baraonda di respiranti al Gay Pride. Qualche venusiano, privo di polmoni, potrebbe infatti fare un giorno lo stesso con noi: Abitante del pianeta Terra, tuo!

Ma se tanti respiri fanno un vento, ce ne sono altri che soffiano in direzione opposta: allontanandoci, differenziandoci. Ad esempio non tutte le Prinz erano color crema come l'auto di mio padre (quella dell'uomo nudo al fiume era grigia) e non vedo perché io debba cancellare questa sfumatura cromatica dalle parole che pronuncio, secondo una malintesa idea di inclusione. Non c'è nulla di offensivo nel preferire le auto color crema a quelle grigie, basta non sputare sopra ogni auto grigia a cui passiamo accanto.

Io, ad esempio, stravedo per le ragazze con un abitino di cotone a fiori, e non per gli uomini vestiti come Damiano dei Maneskin, con i pantaloni di pelle con due fori per le chiappe. Che a me fanno pure un po' ridere quei pantaloni lì, ma va benissimo che Damiano li indossi e ci siano persone che emettono gridolini di piacere alla vista dei suoi glutei. A me manco piacciono le canzoni che canta, preferisco di gran lunga Sergio Endrigo, e dire che i Maneskin mi fanno schifo trovo sia un diritto sacrosanto.

Tutto ciò che possiamo chiedere a un linguaggio realmente democratico è dunque questo: includere ciò che è davvero comune, come il respiro, e separare ciò che per esperienza (esperienza non natura, che è un concetto manipolabile e sfuggente) appare separato.

Una riflessione seria e profonda sulle forme dell'unità, che per un apparente paradosso sono plurime, rende difficile scagliarsi su ciò che divide, separa come giusto i diversi. È il principio della dialettica, dell'identità come relazione; prima ancora che dal pensiero moderno lo ricaviamo dal simbolo del Tao, dove un puntino di bianco sopravvive nell'ampia porzione di nero, e viceversa. Quel puntino è il respiro. Che non cancella però il fatto che il bianco è bianco, e il nero è nero.

sabato 27 agosto 2022

Carne, o su un abitino di cotone a fiori part. two

Questa mattina alle 6.48, ho controllato sullo smartphone, mi ha citofonato Michele. Ero sicuro che fosse lui ancora prima di rispondere. Ha infatti un modo inconfondibile e prolungato di pigiare il tasto, l'effetto è quello di un antifurto o dell'allarme rosso di Star Trek, credo abbia svegliato tutto il condominio. E poi i corrieri con le consegne di Amazon non si fanno vivi prima delle 11, e io non ricevo – né prima né dopo – altre visite. Ovviamente, alle 6.48 stavo ancora dormendo.

"HO VINTO, HO VINTO!" gridava Michele mentre mi stropicciavo gli occhi, anticipando la mia domanda su cosa volesse a quell’ora. Si udiva, in lieve fuori sincrono rispetto all'altoparlante del citofono, il suono della voce provenire dalla strada come una lite senza controparte, risaliva la facciata fino al quarto piano, dove, sul mio davanzale, ci stanno le cacche dei piccioni, e infine entrava dalle finestre socchiuse. D’altronde non posso rimproveralo per non avermi telefonato o inviato un messaggio, già che ho bannato il suo numero. Ma che dovevo fare, mi chiamava alle quattro di notte per dirmi Mi sento sooolo, con la vocale centrale strascicata, alla siciliana. Così gli ho chiesto solamente, avvicinandomi al microfono e parlando sottovoce, come se stessimo tramando affari loschi: "Shhh, quanto hai vinto?"

"MILLE, MILLE EEEURO AL GRATTA E VINCI." E pensare che io lo sgrido sempre: Sono soldi buttati, dacci un taglio con il gratta e vinci, che si gratta solo e non si vince nulla. "COSA VUOI DI REGAAALO?" ha strillato Michele interrompendo i miei pensieri, mentre si sentivano tapparelle sollevarsi e immaginavo gente sporgersi, anche nel condominio di fronte, per vedere di che si trattava. "Della carne”, finalmente la voce era scesa di un paio di ottave, “va bene se ti prendo della carne?"

Non so a quale carne si riferisse. Probabilmente manzo, o forse vitello, salsicce, controfiletto; potevo già vedere le sue mani grassocce nel porgermi l'incarto sanguinolento di macelleria. Io mangio solo pollo e tacchino ma lui li considera prodotti minori, l'equivalente di un omogeneizzato sei vai a cena da Cannavacciuolo. Carne, strana offerta davvero per un regalo, anche se a fartela è una persona in cura al CPS. Diciamo pure: matta.

Eppure... mi accorgo che dopo quasi tre anni di emergenza Covid e quattro di Citalopram, un ricapitolatore della serotonina che non va accompagnato alla Ceres, è l'unica domanda che ho fatto, la carne è quanto più mi manca, non necessariamente da mangiare. Anche da guardare, toccare, sfiorare con finta noncuranza quando i bicchieri si incontrano per un brindisi. No, neppure vino ha aggiunto lo psichiatra rialzando lo sguardo dalla ricetta, e leggendomi nel pensiero. Oppure sputarci sopra, sulla mano, che è pur sempre fatta di carne, e dire Affare fatto! Carne viva insomma, non morta.

Michele ha questa virtù: riporta l’erranza astratta della mia mente al cuore delle cose, come se io fossi un chiodino e lui la calamita. Un luogo, concretissimo, dove ritrovo la carne di cui mi nutro sempre meno, il corpo delle persone che ho smesso di abbracciare per profilassi. Non si sa mai, con tutto quello che c'è in giro... Ho cominciato con l'eliminare dalla dieta i cuccioli degli animali; non sarà razionale – crescerli per poi scannarli – ma mi sembra un compromesso accettabile. Almeno fino a quando un maiale non mi ha guardato dritto negli occhi, e ho compreso che eravamo cugini; di secondo grado, ma pur sempre parenti. Niente più carne di maiale, basta! E così via verso una progressiva disincarnazione, che mi ha reso simile a uno gnostico del secondo secolo.

Ma alla fine, tutta questa assenza di carne mi sbilancia. I miei esami del sangue sono perfetti, intendiamoci, più giusto e responsabile nelle scelte etiche, solo ho questa sensazione di scivolare fuori dall'inquadratura. Una dinamica restituita dalle foto ricordo in piazza San Marco, durante la gita scolastica a conclusione delle medie. Compagni dei quali vedi solo un braccio, un ginocchio, la mano che fa le corna. Ma chi erano esattamente? La carne di cui erano composti è affidata a una memoria sempre più labile e incerta. La certezza viene restituita da ciò che si mostra, si tasta come cercando al buio l'interruttore dell'abat-jour, fosse pure in forma surrogata. Il riquadro di luce impresso nel tempo eterno di un clic, più che una testimonianza è un'eucarestia.

E insomma per farla breve, gli ho detto sì. "Però la mangiamo assieme", ho aggiunto. "Tu, io e…" Qualcuno desidera uscire con me e Michele a mangiare carne, essere carne e voce senza filtri, citofoni, telefoni e social network? Il cameriere che chiede: "Porto due stuzzichini?" "No, carne" risponde Michele, "carne e vino." Massì, per una volta chi se ne frega del Citalopram!

Non voletemene, ma preferiremmo entrambi una donna; anzi due, per fare doppia coppia. Meglio ancora se indossassero degli abiti di cotone stampati a fiori, credo si dica alla provenzale. E anche se non si dice non importa, basta che lascino la pelle delle braccia e delle gambe scoperte, un poco di scollatura. Nessuna malizia, piuttosto una finestra tra mondi. Non lo stesso mondo, lo stesso abito a fiori, gli stessi seni che traspaiono senza mostrarsi, a meno che non siano gemelle. Per il conto non c’è problema, paga Michele.

martedì 23 agosto 2022

Un abitino di cotone a fiori, o sul perché, in letteratura, il meglio è nemico del bene


Ho sempre pensato che se fai qualcosa è preferibile farla bene. Non benissimo, semplicemente bene. Credo di essere stato influenzato nella mia convinzione da un proverbio: il meglio è nemico del bene. Lo ripeteva mia nonna ai suoi nipoti, io ero il secondo per età e per statura. Primo mai, sempre secondo. Fedele all’adagio di nonna Celeste.

Mia nonna conosceva numerosi proverbi. Alcuni erano in dialetto milanese, come can magher se taca' i muschi, al cane magro si attaccano le mosche, oppure ofelè fa' el to mesté, anche se non ricordo mai se il mestiere che deve fare l'ofelè sia ol pasticciere oppure il calzolaio. Purtroppo, di molti altri proverbi, mi sono scordato. Non di quello, che vuole il meglio subordinato al bene.

Nel tempo ho cominciato a dubitare che sia adatto a ogni circostanza. La matematica, ad esempio. O gli scacchi, gli sport in generale, e in particolare il pugilato. Se sei un pugile che se la cava benino ma salì sul ring con uno migliore di te, vai giù. Come quando, nei film di Sergio Leone, l'uomo con il fucile incontra l'uomo con la pistola – e l'uomo con la pistola è morto. Lo dice Clint Eastwood a mezza bocca, nell'altra metà pende il sigaro spento. Poi per tre quarti d’ora non dice più nulla.

Ci sono però attività in cui proverbio di mia nonna calza a pennello. La letteratura, per dirne una. Diffido dei miglioristi in letteratura. L’idea che tutto si risolva in uno stile che deve ogni volta superare sé stesso, lo fa per il tramite della lingua, è sempre una questione di lingua ti dicono le persone che hanno fatto del meglio letterario il loro credo. Preferibile non ribattere, solo annuire con postura di gravità (se proprio, potete canticchiare a mente il refrain di una canzone di Drupi, per fagli dispetto) perché quelle persone hanno letto tutti i libri. Come Mallarmè – “j'ai lu tous les livres” – che però aggiungeva: “La chair est triste, helas.”

Al contrario i benisti sono perlopiù gente allegra, vitale. Ma non sciocca. Sanno che la letteratura non può limitarsi a riflettere la vita in modo neutrale, serve un poco di artificio che la vita per definizione non possiede. Pensiamo ai dialoghi. Se provassimo a registrare di nascosto una conversazione comune, quindi a trascriverla e a confrontarla, mettiamo, con un dialogo di Hemingway, sarebbe il secondo ad apparire più realistico. Può sembrare un paradosso, ma un eccesso di realtà possiede qualcosa di falso, stonato. Credo dipenda dal fatto che la nostra mente, per orientarsi, ha bisogno di riconoscere degli schemi. Chiamiamo dunque e provvisoriamente bene questa correzione che viene impressa alla vita per potere essere interpretata e quindi agita. Un’interpret-azione che avviene facendo risaltare le sue strutture profonde, architravi che un demiurgo distratto ha lasciato incompiute. E allora rimbocchiamoci le maniche e subentriamo nel lavoro, come suggerisce lo psichiatra e filosofo austriaco Viktor Frankl, reduce dai campi di sterminio nazisti e fondatore della logoterapia.

Io non ho letto tutti i libri come Mallarmé, ma qualcuno sì. Diversamente, ciò che sto provando a dire, con molti dubbi e incertezze, finirebbe con l’essere un discorso populista, in cui si presume che il bene sia una specie di telecomando, sempre a portata di mano sul bracciolo della poltrona. Nessuno sforzo, studio, lettura. Quelle sono attività da professorini. Basta sentire qualcosa e poi pronunciarla con il cuore, va' dove ti porta il cuore, dai, va', sei ancora qui? È quanto viene fatto sui social network, in cui trionfa la facilità sentimentale dell’opinione. Che si colloca al lato opposto del meglio, i due estremi di un ideale pendolo, ma è ugualmente nemica del bene.

Tra i libri che ho letto ci sono quelli dello scrittore svizzero Peter Bichsel. Si tratta perlopiù di racconti brevi, a volte quasi stenografici, una pagina o due. Sono scritti bene e però non benissimo, non meglio; ed è comunque più che sufficiente per raccontare in forma sintetica e un po' stralunata il bene. Quello che prova, ad esempio, una donna vecchia per una coetanea, da bambine andavano a scuola assieme. Quando passa di fronte al suo palazzo le lascia delle foglie di lattuga nella cassetta delle lettere, le ha appena colte nell'orto. Non sale perché fatica a fare le scale. Trovando la lattuga, pensa, l’amica si ricorderà di lei, come chi riceva una cartolina dall'altro capo del mondo. Una storia piccola piccola, chissà perché mi commuovo sempre quando ne parlo... E poi nelle cassette delle lettere io non vedo mai foglie di lattuga. Forse anche Bichsel ha corretto un poco la vita, ha illuminato le possibilità del bene, o ancora meglio l’ha rivelato, che è ancora una volta un'azione con ricadute concrete. Quelle possibilità, leggendo il racconto, io avverto infatti come reali, e così credo alle sue parole.

La misura umile ma non modesta del bene, fare le cose bene prima ancora che volere astrattamente bene a qualcuno, impegnarsi in ciò che si fa, a me appare più interessante di un sistema letterario rivolto su sé stesso come la risacca di un’onda, un meglio-mondo che parte dalle parole da cui è composto per ritornarci senza curarsi della vita – di più: sostituendosi a essa attraverso la perfezione della forma. Lo so che ci sono grandi scrittori che hanno perseguito questa titanica utopia verbale. Un solo nome, anzi, sei: Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo. Ma i più lo chiamavano soltanto Borges.

Nel meglio, in altre parole, è implicita un’idea laica di trascendenza, andare oltre il proprio limite (katà métron, secondo misura, dicevano i greci), che è anche quello del mezzo che si sta utilizzando. Ma ci sono appunto campi in cui questo sforzo è sconveniente. Pensiamo a una bella ragazza che esce di casa in una giornata di primavera, è vestita bene: un abitino di cotone blu cobalto con piccoli fiori chiari, i capelli sono raccolti, le scarpe basse. È vestita bene ma potremmo certamente fare di meglio. L’abito di seta, invece che di cotone. Naturalmente firmato: Armani, oppure Dolce & Gabbana, Rei Kawakubo, Gianni Versace o chi vi pare. Quindi facciamole indossare gioielli costosi e così via, fino a che quel semplice bene venga convertito in qualcos’altro, qualcosa che non c’entra più nulla con l'immagine da cui siamo partiti. Ecco, il miglioramento della ragazza a primavera a me non interessa. Lo trovo brutto. E penso che uno scrittore dovrebbe cercare di evitarlo.

Mentre scrivevo della ragazza che indossa un abitino blu cobalto con piccoli fiori chiari, mi è venuta in mente un'altra cosa. Se la scrivevo all'inizio forse era meglio, ma, ormai credo si sia capito, il meglio mi procura diffidenza e va bene pure adesso. Mi è venuto in mente l'amore. Come fai ad amare meglio una persona? Forse con performance sessuali da film porno, di quelle che i maschi, in genere mentendo, raccontano al bar. Può darsi. Io però non la vorrei una donna con tali abilità, che pratica la fellatio appesa a testa in giù al lampadario mentre risponde ai messaggi su WhatsApp. Mi basterebbe una donna che mi vuole bene, e a cui io voglio bene.

Tutti gli errori, gli inciampi, le imperfezioni che ci starebbero nel nostro sentimento reciproco non avrei timore che togliessero qualcosa, e anzi forse l'aggiungerebbero. A patto che non si traducano in sciatteria, che è nemica del bene al pari del meglio. E questo perché tra due persone e l'amore ci deve essere la vita, tanta vita ma secondo misura. Katà métron, di nuovo.

Diversamente, il sentimento si perverte in noia, oppure in ossessione. Quindi, tra un bacio e l'altro, si dischiude lo spazio per abitini di cotone con piccoli fiori chiari, partite a bocce, zucchero filato, attesa che il pesce abbocchi, 3x2 all'Esselunga, vernissage con aperitivo incluso, sedute dal dentista, collari anti zecche per il cane ecc. La letteratura, come abbiamo visto, non può essere uno specchio fedele a tutto ciò, e piuttosto una sonda che ne perlustra le scaturigini facendo selezione. La parola che ti abbaglia per splendore sintattico, virgole rutilanti, punti e virgola come bengala in una notte senza luna, mi ricorda invece proprio l'ossessione, nella forma di quei tizi che percorrevano l'intera via Mazzini impennando con la Vespa. Io a sedici anni ci ho anche provato, ma non rimpiango di non esserci riuscito.

È insomma la banalità del bene, quanto quella del male, che può restituire una letteratura disinteressata all’autotrascendenza ossessiva; sempre che riesca a mantenere viva l'attenzione nel lettore. Poco? Tanto? Non lo so. Robert Louis Stevenson lo diceva facile: la letteratura serve a comprendere le lezioni della vita. Lezioni che, senza letteratura, cinema, teatro, fumetti, serie TV, possiedono tempi morti e digressioni inutili, chiassose distrazioni. Così alla fine uno ci non capisce più nulla. Mentre un altro scrittore, Raul Montanari, suggerisce la misura del bene narrativo attraverso un paragone icastico: la letteratura somiglia al tennis, non al sollevamento pesi.

Poi se continua a interessarti il meglio, c'è sempre la matematica, gli scacchi, il pugilato e i film di Sergio Leone. Oppure, meglio ancora, potresti fare il critico letterario. E spiegare agli scrittori troppo ambiziosi perché un abitino a fiori a primavera è meglio di tutti i cappellini della regina Elisabetta.

lunedì 22 agosto 2022

Tutti al mare


Da più di dieci anni non vado al mare. Da più di dieci anni non ho un lavoro. Sono troppo vecchio per trovarne uno, così non ho i soldi per andare al mare. Tutto torna.

Per sapere ciò che accade al mare devo trasferirmi su quel suo surrogato che sono i social network. Belle ragazze distese sulla battigia, uomini abbronzati con petto in fuori e pancia in dentro; mi ricordano Walter Chiari, a cui però la posa veniva meglio e senza alcuno sforzo. E poi tanti figli, amici dei figli, fidanzate dei figli e cagnetti che fanno il bagno. Sono filmati dai proprietari con un orgoglio gongolante superiore, perfino, a quello riservato ai figli, alle fidanzate dei figli ecc.

Tra le tante cose che scopro del mare che a me viene negato come un ostracismo – non soddisfa i requisiti, ripassi l'anno prossimo con un certificato di sana e robusta integrazione – mi ha colpito una notizia che ho letto su Facebook. Si sta affermando, leggo, l’abitudine di coprire anche le bambine con costumi a due pezzi; la parte sopra è imbottita per mimare il seno che ancora non hanno. I pediatri pare che avvallino l’usanza: proteggerebbe parti delicate del corpo femminile. Chi ne scrive, la scrittrice Francesca Piovesan, come me è sorpresa dalla cosa, quasi indignata: e che cavolo, “il corpo di una bambina è un corpo, non un giocattolo da adornare”.

Ho però imparato a frenare lo slancio nei confronti delle cose che mi appaiono troppo condivisibili, e, come i sofisti, provo a realizzare delle antilogie, ossia dei ragionamenti di segno contrario. Lo faccio per finta, d’accordo, però intanto lo faccio. Ad esempio mi sono chiesto, girando la domanda a Francesca Piovesan: dunque è normale, va tutto bene, considerare invece il corpo di una donna di venti, trenta o quarant’anni come un giocattolo da adornare? Una bambina no; una donna, di qualsiasi età, sì.

Prevengo l’obiezione: le tette di una donna sono vere, non finte come l’imbottitura con cui viene gonfiato il costume di una bambina. Una bambina ha un petto, non un seno. Ma insisto. Se è giusto occultare il seno delle donne e non il petto delle bambine… perché? Forse per la stessa ragione per cui a essere celati allo sguardo sono nell'Islam i capelli, maledetti capelli: generano scandalo, scompigliano l’ordine sociale innescando il desiderio dei maschi!

Eppure, in Occidente, le donne girano a capo scoperto senza che accadano particolari tumulti; tutt’al più, qualche pettegolo (o pettegola) potrebbe commentare sulla ricrescita che si scorge sotto all’henné. Viceversa, se io andassi in un ipermercato completamente nudo sarebbero guai. La guardia giurata non mi farebbe neppure entrare. E questo perché ogni comunità umana stabilisce i propri codici estetici e morali, le porzioni di corpo lecite e illecite. Comunità da comune, come viene chiamato il settimo senso che è quello del pudore. L'espressione fa un po' sorridere, ma dice una cosa seria. Il sentire che discrimina ciò che può essere messo in scena – se ne ricava che lo scarto è osceno  davvero viene condiviso, per quanto non abbia altro fondamento del sentire stesso.

Il tema su cui mi sembra urgente riflettere mi accorgo così essere un altro: non il bikini nelle bambine (che a scanso equivoci continuo a considerare una colossale scemenza), ma la convivenza di gruppi umani con schemi di pensiero divergenti, che si applicano al corpo come a tutto il resto. In altre parole, il comune senso del pudore non è più tanto comune.

Per la mia generazione che coincide, grossomodo, con quella di Francesca Piovesan, il corpo di una bambina è un corpo, un petto è un petto e le tette sono tette. Fin qui ci siamo. Ma in una manciata di anni, quelli in cui io divento troppo vecchio per un lavoro e dunque anche per il premio che si chiama mare, sono comparse nuove generazioni: a noi appaiono come alieni, noi a loro probabilmente come dinosauri.

Per i nuovi abitanti del pianeta che ci vede compresenti (qualcosa di simile deve essere accaduto nel paleolitico medio, quando a contendersi la scena erano homo sapiens sapiens e homo neanderthalensis) è del tutto normale che una bambina di sette o otto anni indossi un bikini imbottito. Se gliene chiedi ragione, i più colti tra di loro ti risponderebbero di nuovo citando il più famoso tra i sofisti: “l’uomo è misura di tutte le cose.”

E avrebbero ragione. Come ha ragione il ventenne che incrocio sull’autobus; ascolta in viva voce una musica che io trovo ripugnante, prima sbirciava dei video su YouTube di cui faticavo a intendere perfino le parole, ed erano in italiano. Antropologia. Io e questo ragazzo, realizzo, apparteniamo a tribù antropologiche differenti. Nel passato questi mutamenti accadevano nel corso di centinaia di anni, o a distanza di migliaia di chilometri. Ora si sovrappongono nello spazio a un tempo incalzante; basta non andare al mare per dieci anni e al posto dei pesci, chissà, magari ci trovi coccodrilli di plastica, come era il mio materassino gonfiabile ottenuto nei primi anni Settanta con i punti del formaggino Susanna.

A me tutto ciò inquieta più del bikini indossato dalle bambine, che pure mi inquieta parecchio. Il ventenne è seduto al mio fianco. L'autobus frena all'improvviso per non investire un gatto, poi riparte senza che il gatto si sia accorto di nulla. Così lontani così vicini titolava un film di Wim Wenders. Proveniamo da mondi diversi: io leggo Internazionale, lui segue le rime baciate di un rapper, li immagino incamminarsi assieme verso un altro mondo. Ma qual è la direzione giusta, il mondo giusto? Perché a questo punto sarebbe utile comunicarlo al conducente.

venerdì 19 agosto 2022

Giorgia Meloni, o sulla miopia insiemistica

Ho ricevuto tramite WhatsApp, e a mia volta rigirato ai conoscenti più intimi, il breve filmato in cui una Meloni diciannovenne elogia Mussolini, lo fa durante un’intervista alla televisione francese. Tre cose ho pensato in prima battuta:

1) oltre a inglese e spagnolo, Giorgia Meloni parla molto bene anche in francese. Complimenti! 2) da ragazza era davvero bellissima, e pure ora non scherza; 3) di insiemistica però non ne capiva nulla, peccato. E forse anche dopo avere preso formalmente le distanze dal fascismo nella teoria degli insiemi presenta qualche difficoltà.

Dati per acquisiti i primi due punti, io mi concentrerei sul terzo. A cosa equivale infatti dire, come lei dice, o meglio diceva, che "tutto quello che Mussolini ha fatto l’ha fatto per l’Italia"?

A me appare evidente: c’è un insieme minore costituito dalla soggettività – nella fattispecie Mussolini come individuo incarnato, che per quanto presentasse un’ampia circonferenza toracica era inferiore al perimetro geografico dello Stivale – e poi quello maggiore costituito dal Paese da lui governato per quasi ventun'anni. Tra di essi ci sono insiemi intermedi. Vi troviamo la famiglia, le corporazioni professionali, i tifosi della Sampdoria, l’arma dei Carabinieri, gli amici della domenica che eleggono il vincitore del premio Strega ecc.

Agire per l’interesse collettivo è giustamente considerata una qualità, un segno di altruismo, secondo un'ideale gerarchia virtuosa che procede dal grande al piccolo; possiamo ipotizzare una premessa nel magistero di Socrate, che per non venire meno alla lealtà verso la polis accetta di bere la cicuta. Su questo immagino siano tutti d’accordo. Persone con una disposizione anche solo intuitiva verso l'insiemistica, pure senza avere studiato riescono però a capire che l’insieme dell’Italia non è l’insieme ultimo, l’insieme degli insiemi direbbe Cantor.

Ci sono insiemi ancora più grandi, collettività più estese, in cui l'Italia è inclusa. Quello dell’Europa, ad esempio, o della Terra, di tutti gli abitanti umani e non umani della Terra, gli animali. E poi ancora l’ambiente, il sistema solare, la Via Lattea, l'Universo e il Multiverso, il noumeno kantiano e così via. Corrisponde magari a verità – MAGARI – affermare che tutto quello che Mussolini ha fatto l’ha fatto per l’Italia. Ma facendolo ha danneggiato insiemi dal diametro superiore a quel minimo orticello, basta la foto del Pianeta da un satellite per averne la percezione. Come la madre che, volendo precipitarsi per offrire in orario la poppata al figliolo, investisse con l’auto un’intera scolaresca. I conti non tornano, non è necessario essere laureati in matematica. 

Un paragone immaginario che non abbiamo difficoltà a convertire in storia. L’Europa, come abbiamo visto, è infatti un insieme che comprende le nazioni che ne fanno parte. Dal suo interno, Mussolini muove per “spezzare le reni alla Grecia”, invade l’Albania, sono sempre sotto al suo comando gli aeroplani che bombardano Guernica e le truppe italiane in Francia; vi faceva parte mio nonno, con cannoni di legno avrebbe dovuto dissuadere gli americani dallo sbarcare a Nizza. Ma se allarghiamo ulteriormente la prospettiva, c’è la funesta campagna russa, il sogno imperiale tardivo della Libia, la guerra in Africa. Un disastro politico e morale a tutti i livelli.

È dunque più importante l’insieme minore dell’Italia, per cui Mussolini ha (magari) fatto tutto ciò che ha fatto, o quello maggiore in cui ha procurato danni ogni volta che si è sporto oltre il proprio cranio glabro? E come la mettiamo con l’altro insieme in carne ossa, più ossa che carne a dirla tutta? Era composto, tra gli altri, da zingari, omosessuali, dissidenti politici. Oltre a sei milioni di ebrei gassati nei campi di sterminio, quale effetto anche delle leggi razziali da lui firmate il 17 novembre 1938.

Si può ribattere che era la Meloni del 1996, ora è cambiata, diversa, sempre bella ma più consapevole e accorta. Ma allora sarebbe il caso che lo dichiarasse senza ambiguità. La sua idea di nazionalismo in che cosa consiste esattamente? Lasciamo provvisoriamente perdere il fascismo, solo persone in malafede possono contestarle l'intenzione di replicarlo, è un rischio che non corriamo. Parliamo piuttosto del presente. E del pericolo che nel presente ci siano altre parti scambiate per il tutto, facendo da paraocchi a ciò che esorbita quel confine immaginario. Un cerchio che il bambino traccia attorno a sé sulla battigia e poi dice mare non esisti.

È pronta, Meloni, ad ammettere, anzi a urlare come nei comizi in cui abbiamo il privilegio di ammirare le numerose lingue che padroneggia: Io sono Giorgia, sono una donna, sono italiana, sono cristiana... ma soprattutto sono umana, e nulla di ciò che umano mi è estraneo, come affermava Publio Terenzio (“homo sum, humani nihil a me alienum puto”).

Oppure, per quanto lievemente aggiornata, la sua idea dell’insiemistica non si discosta molto da quanto dichiarava alla televisione francese, aveva solamente diciannove anni ma a quell’età già si vota. E prima che votino anche sessanta milioni di italiani sarebbe utile che chiarisse questo punto. L’insieme particolare dell’Italia, certamente superiore ai confini angusti della soggettività o a quelli lievemente più ampi – ma ugualmente vischiosi – del clan, la famiglia, cosa nostra, continua per lei a rappresentare l’insieme ultimo e universale? Perché in tal caso, più che a Palazzo Chigi, toccherebbe tornare alle scuole medie.

mercoledì 17 agosto 2022

Prima di diventare buoni

Alla fine degli anni Ottanta un mio zio ricco mi regalò uno dei primi videoregistratori, che lui aveva sostituito con un modello più bello. C'era anche la videocamera. Per collaudarla, io e il mio amico Vitto (conosceva a memoria tutte le canzoni di Vecchioni, ma non imbroccava una nota) pensammo a cosa farci...

Un film? Troppo difficile e costoso. Un documentario? Fuochino. Ci voleva però qualcosa di ancora più semplice. Un'intervista, ecco! Ma chi intervistiamo?

In casa c'erano dei baffi finti, residuo di un qualche remoto carnevale, e così Vitto se li mise. Guardandolo gli dissi: "Mi ricordi qualcuno..." Vecchioni?" fece lui con un lampo nello nello sguardo. "No, Clay Regazzoni."

Si trattava di un famoso pilota di formula uno svizzero, si muoveva su una sedia a rotelle dopo un incidente nel corso di una gara. Sempre sorridente col suo cappellino da baseball, non si era lasciato abbattere dalla tragedia; quel genere di persone che ti invitano ogni volta che fanno una grigliata, se abitate vicino. Aveva un marcato accento ticinese, più tardi l'avremmo ritrovato nelle gag di Aldo, Giovanni e Giacomo.

Perfetto, allora facciamo un'intervista a Clay Regazzoni. Io filmo e faccio le domande, e Vitto, con baffoni neri, cappellino preso con i buoni Agip e un cuscino sotto le gambe per farle prendere inermi dalla sedia, così da mimare l'infermità celata da un plaid posato sulle ginocchia, risponde con la cantilena del poliziotto Uber, quando dice "di brutto brutto brutto".

Si va ovviamente a braccio. Domande senza mordente, risposte che intendono essere spiritose e non lo sono, per un po' andiamo avanti a questo modo. E comunque la videocamera sembra funzionare alla perfezione.

A un certo punto Vitto si accende una sigaretta, io lo rimbrotto: "Ma cosa fa, Regazzoni, non sa che in televisione è vietato fumare!" E lui sistemandosi i baffi che gli stavano cadendo di lato, mi raccomando immaginatevi sempre la cadenza di Uber, o se preferite del signor Rezzonico o dello stilista Gervasoni: "Non cammino, ma fumo un casino..." 

Questo per dire come era il mondo prima di diventare tutti buoni.

martedì 16 agosto 2022

Con immenso piacere, o sulle mosche del web


Una quindicina di anni fa mi trovavo in un ristornate di Rio Marina, all'Isola d'Elba. Pochi tavoli più in là sedeva Paolo Villaggio. Terminata la cena, Villaggio che era già vecchio e con evidenti difficoltà nel camminare – veniva sorretto da una ragazzona bionda e riccioluta, immagino fosse la figlia – passò accanto al nostro tavolo. Fu raggiunto da una donna mingherlina con un pareo variopinto, che con voce acuta gli strillò: "Un autografo, mi faccia un autografo signor Fantozzi!"

Ero talmente vicino a lui che ho potuto osservare i minimi mutamenti sul suo volto, a comunicare disappunto e irritazione e stanchezza; tutto desiderava in quel momento (ad esempio sdraiarsi per riposare) tranne che fare un autografo a chi lo confondeva con il suo celebre personaggio. Ha però subito cambiato espressione con un impulso della volontà, rispondendo alla donna: "Con immenso piacere!"

Non solo sì, non solo con piacere, ma con IMMENSO piacere. Un aggettivo che restituisce una colossale bugia, e però come si dice "a fin di bene”. Mi capita di ripensare all’episodio quando entro in un social. Non so perché, ma ci ripenso. Con una nostalgia che non riguarda solo i meravigliosi calamari che lì ho mangiato.

Tre giorni fa ho letto un post di una scrittrice abbastanza conosciuta, forse non famosa ma con un suo seguito meritato. Scriveva di un argomento che mi interessava e ho lasciato un commento (il tono non era offensivo, oserei direi pertinente), dando una scorsa anche a quelli degli altri lettori. Mi sono così accorto di una cosa: la scrittrice rispondeva solo alle persone di pari status, e cioè altri scrittori – evidentemente considera una professione di prestigio essere scrittori, opinione bizzarra guardando le statistiche di lettura, ma tant'è – oppure a coloro che erano inclusi in una cerchia di prono consenso e complicità, a cui Fulvio Abbate ha dato il nome di "amichettismo". Io non ne faccio parte e non ho ricevuto risposta o altri segni di attenzione. Che so un like, o un dislike.

Non scrivo di questo fatto per recriminazione personale, e continuo a considerarla una brava scrittrice. C'è però un aspetto che mi appare emblematico nel suo comportamento, ossia di carattere universale. La giro sotto forma di domanda: c’è ancora qualcuno che, con fatica, stando in piedi a stento, sui social si fermi e dica a uno sconosciuto con immenso piacere, come uno sfinito Paolo Villaggio in un ristorante di Rio Marina?

Una semplice forma di degnazione, d'accordo, ma anche di riconoscimento. Nello specifico, ciò che viene riconosciuta è la domanda implicita nelle parole dell'altro, a cui sentirsi vincolati da un sorta di dovere civile: rispondere. Risposta che in un certo senso è già ricompresa nella domanda, per quanto in stato potenziale come il campo quantistico descritto dai fisici. Non importa se sarà sì, no, forse, ma nello spettro della domanda già sonnecchiando tutte le infinite possibili risposte. Anche vaffanculo no, non ti faccio l'autografo!

Il filosofo Giorgio Agamben chiama tale vincolo giuramento. In un tempo senza tempo, senza luogo e senza neppure bisogno di aprire bocca, per fare parte di una comunità bisognava pronunciare le seguenti parole: giuro di rispondere, di mantenere viva la fiaccola della conversazione che mi viene passata, aggiungendo la mia fiammella. Guai a fare spegnere quel fuoco! È l'equivalente sul piano linguistico del famigerato patto sociale.

Ma in fondo il dizionario della lingua italiana già comprende una parola che lo dice in modo più semplice, i filosofi hanno questo vezzo di parlare difficile. La parola è responsabilità. Letteralmente, sento che una mia risposta sia dovuta, non importa la forma, basta un gesto, o l’autografo che è la traccia verbale del nome. Quello a cui si risponde quando la maestra fa l’appello. Un suono che procurava un brivido familiare nella schiena, a distogliere lo sguardo dalle ciliegie alla lettera C dell'abbecedario.

Una responsabilità, un giuramento, è rimasto in tacito vigore fino a pochi decenni fa, quando il web è subentrato a sparigliare i giochi. Dunque nessuna accusa, e per quanto Flaubert non abbia mai pronunciato la celebre frase, tocca ribadire che Madame Bovary c’est moi, anche io faccio di tanto in tanto orecchie da mercante. Ho cominciato come tutti da internet, ma poi la mia irresponsabilità si è estesa a ogni ambito. Per dirla con le parole di Giorgio Gaber: "non mi interessa Berlusconi in sé, ma il Berlusconi in me", ossia la scrittrice con la puzza sotto il naso in cui mi trasformo di giorno in giorno. Mi interessa la mutazione in corso. Che i social, oltre a generare, riflettono come lo specchio di Grimilde: chi è il più stronzo del reame? Ma tu, mio caro.

Citazioni da cui ricavo che chiunque, non solo gli scrittori con la loro coorte di amichetti, fa benissimo a considerare la parola di uno sconosciuto al pari di una mosca posata sul proprio tavolo; nemmeno serve muovere una mano perché voli via, è come se non fosse mai esistita. Sono io che, di tanto in tanto, mi chiedo se abbia ancora voglia di partecipare a un discorso collettivo la cui pronuncia somiglia al ronzare delle mosche, con qualche moscone a cui prostrarsi ossequiosi.

domenica 14 agosto 2022

L'amore è tutto carte da decifrare

 


Di cosa parliamo quando parliamo di consenso? Se lo chiede, già a partire dal titolo, la filosofa francese Manon Garcia, di cui Einaudi ha appena pubblicato un interessante saggio sull'argomento. A scanso equivoci, il consenso non è quello informato, ma riguarda la disponibilità ad accogliere, ed eventualmente ricambiare, il desiderio erotico, ricordandoci che la violenza sessuale non si limita alle sequenze concitate che vediamo nei film con Charles Bronson. Film dove un giustiziere, naturalmente della notte, vendica soprusi che più stereotipati non potrebbero essere, con donne buonissime e inermi e uomini cattivissimi e violenti. Poi a Bronson gli prende un po' la mano, ma tant'è.

Episodi a cui il codice penale accosta l'aggettivo flagrante, per quanto la statistica suggerisce che la violenza ai danni delle donne è perlopiù sfumata, opera di conoscenti, amici o perfino coniugi disattenti e impulsivi. In quella fase chiamata flirt o, proseguendo nell'abbrivio passionale, petting, a un certo punto la donna cambia idea. Non chiediamoci perché, è un suo diritto. Ma l'uomo vuole andare fino in fondo. E lo fa.

Comunque si tratta di violenza, ha perfettamente ragione Manon Garcia, che include casi ancora più complessi e dubbi. Ad esempio donne a cui la voglia sarebbe anche passata, ma per timidezza o più spesso asimmetria di ruolo – l'uomo occupa un posto di influenza e prestigio, mettiamo sia il suo "capo" – tanto vale fare buon viso a cattivo gioco. In fondo tutto passa e va, capita troppo spesso di pensarlo a donne vittime di un desiderio a senso unico.

Eppure e come ho scritto questi casi sono dubbi, già che nella prima circostanza mancano dei segni manifesti di diniego, a produrre consapevolezza dissuasiva nel maschio, e nel secondo possiamo supporre un vantaggio reciproco, uno scambio. Per quanto i piani siano diversi, tanto da riconfermare l'asimmetria quale forma implicita di violenza. Ma una violenza del Capitale, attenzione, direbbe Marx. Non sessuale.

Sono dunque qui la misura e il contesto a determinare il reato, nello specifico prende il nome di stupro per negligenza. Introdotto in Svezia nel 2018, considera responsabile di violenza chi non si sinceri con sufficiente chiarezza sulle reali intenzioni dell'altro, esplicitando fin da principio le proprie. Ma siamo sicuri che la specie a cui appartiamo sappia sempre ciò che vuole, e non lo scopra a volte durante? Viene così il dubbio che il legislatore svedese non abbia mai limonato, o bevuto un vodka tonic a una festa scolastica...

La Garcia sembra invece cosciente della mutevolezza anche chimica degli umori, ma meno convincente è la soluzione da lei proposta: parlare, chiedere, farlo di continuo, già che un iniziale sì potrebbe convertirsi in un no successivo. La formula da lei utilizzata è curiosa e bisogna riconoscere efficace: "conversazione erotica". Come si conversa del tempo quando piove, di calcio al bar Piero e di motoseghe tra boscaioli in un querceto, così si dovrebbe conversare di sesso mentre si scopa: Ma ti piace, sicura che ti piace...? Guarda dimmelo se non ti piace che guardiamo un film con Charles Bronson.

Mi è così venuta in mente la differenza tra scrivere e trascrivere. "Io scrivo per sapere ciò che penso" affermava lo scrittore Luigi Malerba. Nella trascrizione, invece, lo si conosce già da subito. La prostituzione equivale dunque a una trascrizione. Si inizia con informazioni sul preziario, quindi viene l'accordo su cosa fare e per quanto tempo e di quali parti del corpo l'uomo può disporre. Mai baci sulla bocca, in ogni caso. È la regola numero uno. E adesso i soldi, grazie, prima di cominciare.

Un atto sessuale, non importa se amoroso, occasionale o perfino incluso in una pigra routine matrimoniale, è invece più simile alla scrittura. Ma chi scrive chi? Entrambi, mi appare evidente. Solo che le vicende narrate raramente coincidono. Credo che sia questo il motivo per cui Lacan affermasse che "non esiste rapporto sessuale". Ognuno ha la sua storia, i suoi tempi e le sue fantasie.

Rimane la questione sollevata da Manon Garcia: quando fermarsi, e in che modo comunicarne l'intenzione? Magari, come suggerisce la scrittrice Rosella Postorino in un intervento sullo stesso tema, la conversazione erotica potrebbe avvenire in forma non verbale, così da rendere meno legnoso e (aggiungo io) improbabile il rapporto.

Ma a ogni risposta paiono generarsi nuove domande, che superano le prime per numero e difficoltà, come ciliegie affollate su un singolo ramo. Quali sono, ad esempio, i segni a cui fare affidamento, esiste un codice erotico non verbale unanimemente accettato, sul modello del linguaggio dei sordomuti?

Segni che una donna invia a un uomo, ovviamente. Ma mica tanto se ci pensiamo bene. Ho sentito la storia di un uomo morto di infarto durante un amplesso, con la donna che continuava a muoversi sopra di lui. Non una mantide, un'erinne o un'amazzone. Semplicemente, non si era accorta di nulla. Una storia forse non vera, se ne dicono tante, ma verosimile. Perché come cantava Ivano Fossati l'amore è tutto carte da decifrare. E non è detto che gli amanti assegnino alle carte lo stesso valore simbolico.

Se si vuole la certezza di un'interpretazione convergente si deve così tornare al linguaggio esplicito raccomandato da Manon Garcia, alla sua conversazione erotica. Ma anche qui: quando farlo? Ogni dieci minuti, cinque, o magari e addirittura tra un bacio e l'altro... Ehi, tu, dico a te là sotto, sei ancora vivo?

Se così fosse, oltre che legnosa, la situazione diventerebbe tecnica, procedurale. E cioè, di nuovo, non scrittura ma trascrizione. Troppo simile alla prostituzione per essere davvero emotivamente coinvolgente. Troppo telefonata come diceva il mio allenatore di basket, riferendosi a quei passaggi che l'avversario poteva intuire prima ancora che il pallone si congedasse dalle mani, vanificando la sorpresa di cui non solo la pallacanestro ma anche l'eros si nutre.

All'insieme delle domande che ho incontrato in questa scrittura, che è stata tale perché mi sono trovato a esprimere pensieri di cui non immaginavo la conoscenza, non possiedo risposta. Socraticamente so di non sapere, ecco.

Se non forse che l'esposizione del corpo all'amore, al sesso, a quello che ci pare purché sia presente un altro con il suo corpo, ugualmente esposto e vivo, espone contemporaneamente all'errore. Fa anche rima: non cuore amore, la rima più difficile del mondo secondo Umberto Saba, ma amore errore. E per essere certi di non sbagliare c'è una sola ricetta: la castità. Per tutto il resto continuerei ad affidarmi al buon senso, e nei casi estremi ai film con Charles Bronson.

venerdì 12 agosto 2022

La realtà semplificata


Pasolini ha scritto e detto molte cose. Io avevo nove anni quando è morto Pasolini. Nove e mezzo, per la precisione.
Ricordo le copertine de L’Espresso col suo volto scavato, nelle pagine interne le foto del corpo tumefatto, nudo, violato. Stavano in casa del mio amico Daniele; i miei genitori, meno politicizzati, leggevano Epoca.
Pasolini ha detto e scritto molte cose, ma ho dovuto risalirle a posteriori come fanno i salmoni nuotando verso la sorgente. Sono stato per nove anni e mezzo, la lunghezza media della vita di un boxer, coevo di Pasolini. Un minuscolo abitante della stessa terra, respiravamo la stessa aria inquinata ma ero troppo piccolo per comprendere la sua "disperata fame d'amore, amore di corpi senza anima". A volte proveniva da film, altre volte da immagini, severi moniti del corpo asciutto e in posa, non mancava mai una certa componente di astuzia. E poi tante, tantissime parole.
Senza saperlo, ho applicato nei confronti delle parole di Pasolini la tecnica che Tolstoj suggeriva nella lettura dei vangeli: segna con una matita rossa tutto ciò che comprendi, che ti risuona. Il resto lascialo perdere. Dopo avere sottolineato con una matita rossa le parole di Pasolini che mi risuonavano, le trasferivo su un quadernetto di uguale colore.
Non vi ha mai trovato posto l’invito a ridurre l’età scolare, per non corrompere la (presunta) saggezza arcaica del sottoproletariato. Mi appariva – e tutt’ora appare – come una postura estetizzante, l'ennesimo no per distinguersi dalla muta latrante che corre dietro a una lepre di pezza, scambiandola per la vita.
Mi capita però di ripensarci leggendo alcuni status su Facebook. Proprio questa mattina ho trovato una poesia di una ragazza che conosco, abita in un paese vicino a dove sono nato, era nove anni e mezzo prima che il boxer concludesse il suo ciclo, la carcassa abbandonata sul litorale di Ostia. È una cara persona, non voglio fare polemica né parlarne male. Semplicemente, non mi piacciono le sue poesie. Di più: le trovo brutte. Si può essere belle persone e scrivere brutte poesie. Ne trascrivo una a caso:
Abbiamo cuori che pesano tantissimo.
Come tutte le vite che si sono soffermate dentro.
Oppure un’altra:
Ho sognato trasparente.
Ho sognato che c’eri tu e che mi abbracciavi tantissimo, anche se la valle era scura, fredda e misteriosa.
E io sentivo arrivare tutta la tua luce.
E tu la mia.
E un'altra ancora:
Manca amore.
Lo dicono gli animali.
Lo dicono gli alberi.
Lo dicono i bambini.
Lo dicono gli anziani.
Li teniamo tutti rinchiusi da qualche parte.
Come la bocca.
Come il cuore.
L’ho anticipato, non voglio fare polemica o suscitare ironia, ammiccamenti saputi. Ognuno scrive come può e come sente. Mi soffermo solo sul dato che mi ha più colpito: una di queste poesie aveva 451 like, e le altre poco meno.
Mi è tornato alla mente il poeta potentino Beppe Salvia, morto suicida a Roma a trentuno anni. Poeta schivo, delicato e profondo, fautore di una parola che ricerca la purezza delle origini, la meraviglia infantile. Ma anche animatore culturale, fondatore della rivista Braci, a cui collaboravano Marco Lodoli, Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Paolo Del Colle e molti altri. In seguito vennero ospitate poesie di Andrea Zanzotto, Carlo Betocchi e Amelia Rosselli. Grandi poeti, insomma. Tra i più grandi del periodo.
Ma quante persone leggevano Braci?
Non lo so esattamente. Secondo Aldo Nove, che ha fatto una ricerca al riguardo, questa fioritura di riviste poetiche aveva comunque tirature limitatissime, per quanto abbia segnato la poesia degli anni a venire. Possiamo dunque immaginare che Beppe Salvia e i suoi compagni di viaggio non arrivassero a 451 lettori. Cosa che fa invece la mia simpatica conoscente – non solo lettori ma estimatori, nel suo caso – con poesie in cui si parla di anziani, alberi, bambini. E soprattutto cuore, tanto cuore.
C’è una morale in tutto ciò? Forse sì. L’aumento della scolarizzazione avvenuta nel nostro Paese a partire dagli anni Cinquanta, non ha portato a un incremento proporzionale di lettori attenti e consapevoli. Al mondo, estetizzante fin che si vuole, rimpianto da Pasolini, è subentrato un sistema di pensiero altrettanto estetizzante, il sociologo e filosofo americano Dwight Macdonald l'ha chiamato midcult. Una nozione contigua a quella di kitsch, a significare “l’emulazione semplificata di modelli alti”.
I 451 like alla poesia della mia conoscente possono essere letti come reazione idiosincratica alla complessità, a cui viene opposta una cartolina rassicurante, una cartolina semplice dai colori pastello. Che non va confusa con la parola innamorata di Beppe Salvia, l’amore è una cosa complessa da maneggiare in parole, specie se si cerca di farlo rimare con cuore ("la rima più difficile del mondo" aggiungeva Umberto Saba). Questi sono invece testi di Umberto Tozzi, ma al netto delle sue belle melodie che ci spensieravano le estati uscendo da un juke-box.
Alla semplificazione del reale che proviene da persone comunque istruite, persone che emulano modelli alti, ovviamente non è una soluzione la proposta di Pasolini: riduciamo l’età scolare, torniamo a un medioevo di primitiva e feroce bellezza. Anche lui in fondo era consapevole della natura di provocazione. Una risposta sbagliata a una domanda giusta.
Intanto, i poeti che hanno partecipato alla formidabile avventura di Braci si sono trasferiti anche loro su Facebook. Non più in gruppo ma per singoli impacciati tentativi di comunicazione – che può fare un poeta, se non comunicare? “Morire, per me, è smettere di comunicare”. Questa è una frase di Pasolini sottolineata in rosso che stava sul mio quadernetto rosso.
Sono così andato a frugare sulla pagina di Paolo Del Colle, un poeta, e una persona, che sento vicina e amica. Vi ho trovato una poesia di Raymond Carver. Secondo lui, e anche secondo me, una delle sue più belle. Sotto ci stavano cinque like, sei più il mio che ho aggiunto all’istante. Trascrivo la poesia e non dico più niente:
Stamattina mi ha svegliato una voce della mia infanzia
che dice È ora di alzarsi e io mi alzo.
Per tutta la notte, nel sonno, ho cercato
un posto dove mia madre potesse vivere
ed essere felice. Se vuoi che vada fuori di testa,
diceva la voce, va bene. Altrimenti
portami via da qui! Insomma, è colpa mia
se si è trasferita in questa città che detesta. Se ho affittato
per lei questa casa che detesta.
Se le ho messo accanto quei detestabili vicini.
Se le ho comprato i mobili che detesta.
Perché, invece, non mi hai dato i soldi da spendere da sola?
Voglio tornare giù in California, dice la voce.
Se resto qui muoio, vuoi farmi morire?
Non c’è risposta a questa o a qualunque
altra cosa, stamattina. Il telefono non fa altro
che squillare. Neanche mi avvicino per paura
di sentire un’altra volta il mio nome. Lo stesso nome
a cui mio padre ha risposto per 53 anni.
Prima di andare a ricevere il premio finale.
È morto subito dopo avere detto: “Porta questo
di là in cucina figliolo.”
La parola figliolo pronunciata dalle sue labbra.
Tentennò nell’aria perché tutti l’ascoltassero.

giovedì 11 agosto 2022

Amichettismo, o sul cortile dei social

Il cortile, al principio, fu qualcosa a cui guardare. Guardare e non toccare, come viene scritto nei musei. Solo dopo viene l’esplorazione, devono averlo pensato anche gli ingegneri spaziali della Nasa, prima di spedire l'Apollo 11 sulla luna. Era il 21 luglio del 1969 e solo lo zio Franco e il papà erano rimasti svegli a osservare quel piccolo passo per un uomo, quel grande passo per l’umanità. Io dormivo già da un pezzo in un letto della pensione Aurora di Rimini.

Ci correvano, in un cortile lungo e stretto racchiuso da contrafforti in cemento, come era anche il suolo, bambini che mi sembravano ometti: quattro, cinque anni più dei miei che stavano sulle dita di una mano. I più piccoli dei grandi già andavano a scuola, io ancora all’asilo. Non ero pronto. Potevo solamente invidiarli incollato alla finestra della cameretta dove giocavo a Lego con Pierantonio.

Fu con i più vicini di età, quando i miei genitori mi consentirono di scendere per la prima volta da solo, che cominciai a stabilire contatti, a cui seguirono quelli con miniature umane che sbocciavano in cortile senza alcun preavviso. Anche loro con la mia stessa cautela arrivavano per singole epifanie; uno aveva i capelli rossi e le lentiggini, un altro le ginocchia sbucciate e la zeppola. Il giorno prima non c'erano ed eccoli apparire all’improvviso dal nulla. Ci sarebbero rimasti per un bel po' di tempo, fino quando si abbandonava il cortile, all'inizio delle superiori, per esplorare porzioni più ampie di una città comunque minuscola.

Per quanti segni di pace e posture di sottomissione che ciascuno era tenuto ad assumere per essere accettato, non mancava lo scotto da pagare ai bulli; ai bulletti, meglio. Ricordo un tizio di nome Andrea. Eravamo alti uguali ma l'ombra di baffi incipienti marcava la distanza tra noi, un vero campione nelle impennate con la bicicletta di tipo Graziella. Di tanto in tanto afferrava me o un altro dei piccoli e ci faceva un buffetto sulla guancia. In teoria avrebbe dovuto essere un gesto affettuoso, ma lui stringeva forte, sempre più forte, ahi mi fai male! A quel comportamento, già di per sé aggressivo, accompagnava le parole: "Te pias la Coca Cola, eh? E la Fanta e la gassosa?"

Tutti ridevano e, con una domanda apparentemente priva di senso, otteneva la riconferma del suo status di cucciolo alfa, mentre alla vittima di turno scendeva qualche lacrima, subito occultata con la manica della felpa. Altre volte le gerarchie venivano ribaltate con reciproca sorpresa. Un ragazzino lungo lungo mi sferrò senza ragione né preavviso un pugno in faccia; credo volesse fare colpo su una bambina di nome Adele, piaceva un po' a tutti. In quel caso reagii. Replicando le mosse che avevo appreso seguendo gli incontri di Muhammad Ali – non ho ancora capito come facessi a cogliere i singoli gesti del suo corpo flessuoso, riprodotti da un minuscolo televisore in bianco e nero che impiegava cinque minuti per accendersi – la vittoria fu mia. Anche se Adele poi si prese amorevolmente cura dei numerosi lividi che avevo procurato al lungagnone, secondo quel principio universale per cui Ettore possiede più fascino di Achille.

Ci furono molti altri episodi simili, ma diluiti nel tempo e tutto sommato sporadici. Dopo gli scontri prevalevano lunghi armistizi, i nuovi equilibri di forze dirottavano l’esubero di energia verso partitelle a calcetto, tornei di biglie o con i tappi a corona delle bottigliette di Coca Cola ("te pias la Coca Cola, eh..." ancora mi risuona odiosa la frase), da sospingere con un colpetto delle dita entro i confini di una pista tracciata con la vernice rossa. Infine una specie di prova iniziatica, trasformata presto in baraonda a metà tra il rugby e la caccia al tesoro, da eseguire nel corsello che conduce ai box interrati; l’avevamo chiamata palla buio perché la palla veniva calciata all’interno senza accendere le luci. Quindi, muovendosi a tentoni, andava ritrovata e riportata in superficie, ci si divideva in due squadre e valeva tutto. Anche mordersi come faceva un mingherlino che non ne combinava una giusta. Di cognome, ironia della sorte, faceva Lapsus.

Dalle tenebre dei garage qualcuno usciva vincente, altri sconfitti, ma c'era sempre una seconda occasione. Prima o poi eri tu a scovare la palla, e con l'aiuto di alleati e sfuggendo gli agguati dei nemici, venivi infine baciato dai raggi del sole e dalle labbra di Adele. Mi chiedo così quali siano le prove iniziatiche – faticose per definizione, a volte umilianti come i buffetti di Andrea – a cui uno debba sottostare in quell'immenso cortile che sono i social network. Ammesso che sia prevista una sfida, un climax e una trasformazione successiva, come in ogni storia che fa diventare grandi. E non solo un lento inesorabile declino.

I pugni in faccia nemmeno li puoi nominare, pena ritrovarti l'account sospeso, e a ogni attacco verbale si risponde bannando l’avversario, equivalente 2.0 della formula pronunciata dai figli di papà: "La palla è mia, nessuno gioca più." Quelli, i signorini, già allora non li potevamo digerire; noi con le t-shirt della Standa, loro già in Lacoste. Non sto nemmeno dicendo che l'equilibrio darwiniano del cortile fosse giusto – alla fine, come tutte le cose umane e in fondo disumane, si fondava sulla ratifica di asimmetrie di potenza. Natura, insomma.

Ma possiamo ancora considerare naturale l’immagine di una neo umanità imbelle e svigorita che ci proviene dal cortile dei social, in cui ogni attrito viene risolto attraverso una progressiva compartimentazione? Ti banno, non rispondo, vattene via!

L’esisto configura un fenomeno sociale sempre più diffuso, lo scrittore Fulvio Abbate l'ha battezzato amichettismo. Non corrisponde alla formalizzazione su larga scala dell'amicizia, ma a una sua caricatura di cui i social rappresentano una sintesi plastica, quando in ogni ambito viene rimossa l'emergenza del conflitto, la sua manifestazione che increspa la superficie dei rapporti. Salvo poi, espulso dalla porta, il conflitto rientra dalla finestra, lo fa in scala maggiorata. Bisogna però che caschi una bomba sul capo per nominare il reale, il resto è ancora finzione da infotainment. Così nella piscina delle nostre vite pende floscia una bandiera bianca, c'è calma di vento e l'acqua è tiepida e balneabile. Ma solo da chi possiede la tessera del club.

Potremmo intenderlo anche come un gioco di specchi tra consimili; gli stessi libri letti e fotografati, gli stessi amici di amici, la stessa, in sintesi, medesimità, assurta a valore assoluto mentre si biasima come intollerante la controparte che vota per Salvini, e non vuole extracomunitari a rovinare l’idillio biondo del banchetto. E anche in questo caso l'amicizia non c'entra nulla, è piuttosto una solidarietà contro il comune nemico. Il diverso avverso. L’amichettismo politico.

Anche io li banno i rompicoglioni, intendiamoci, come a suo tempo avrei volentieri fatto scomparire Andrea dalla mia vista, e soprattutto dalla mia vita. D'altronde, è l'unica forma di ecologia concessa sui social, altra forma di difesa non ne abbiamo. Sono le regole a cui ci si dispone entrando nel gioco, che però mi sembra a somma sotto zero: cui prodest direbbero i latini, cosa ci guadagno ad avere attorno a me solo una minima coorte di amichetti plaudenti, e a essere snobbato da tutti gli altri, da cui a mia volta mantengo sgombro l'orizzonte non solo relazionale, ma percettivo? Divento forse più sano più temprato più intelligente, o consapevole dei miei punti di forza (ad esempio il rapido alternarsi di jab sinistro e diretto destro al volto, come scoprii nel mio primo incontro pugilistico con lo spasimante di Adele) quanto delle mie manchevolezze, che mi venivano puntualmente rinfacciate nel cortile di via Parolo? Ok, lo ammetto, a biglie ero una frana, e a calcio quando la palla mi finiva sul piede sinistro diventavo incerto e balbettante.

E poi non è vero che i tempi della giustizia siano quelli del desiderio, un clic veloce sul mouse e la persona sgradita scompare, opplà, bacchetta magica. Anche senza aver letto i Promessi sposi la vita offre riparazioni postume a chi possiede la virtù della pazienza. Così, raggiunta la soglia trent'anni, sentii suonare il campanello della mia abitazione; non era cambiata, si sporgeva sempre su quel minimo fazzoletto di cemento, ormai sbiadita ma non scomparsa la traccia della vernice rossa che faceva da pista per i tappi. Strano pensai, non aspetto nessuno. Le quattro di un pomeriggio invernale in cui la luce scompare presto, come quando ci si immergeva nei box per ritrovare il Sacro Graal di gomma. Davanti alla porta spalancata trovo due adulti e un bambino, sono vestiti in modo decoroso. Non eleganti, non casual. Quasi triste.

“Buongiorno” mi dice l'adulto più basso, non mi arrivava neppure alle spalle, “siamo Testimoni di Geova. La fine è vicina, li vede i segni, ma siamo qui per tenderle una mano. L’accetti se vuole salvarsi.” Guardai bene e a fondo quell'uomo, il tono della voce, c’era qualcosa… Massì, era lui! E così gli risposi con un sorrisetto sornione e un buffetto sulla guancia: “Andrea Andrea... te pias la Coca Cola, eh? E la Fanta e la gassosa?”