Seguendo la recente
intervista televisiva ad Alessandro Baricco ho pensato: Pinocchio. Non che
Baricco racconti balle, o le raccontasse, ma in tutto ciò che fa ho sempre
avvertito un elemento artificioso; per paradosso, nel suo caso mette in scena
un più di naturalità. Con grande consapevolezza dei propri mezzi espressivi lui
la chiama narrazione – la narrazione unita ai fatti va a comporre la realtà,
non esiste realtà senza narrazione ci ricorda nell’intervista. E ha ragione. Ma
i fatti, quando narrati in quel modo lì, tutto suo, contengono appunto un
retrogusto un po’ pinocchiesco. Se il modo di parlare, meglio, di narrare di
Baricco non è mutato, ora però si avverte un altro elemento proprio della
narrativa chiamato “arco di trasformazione del personaggio”. Quale probabile
conseguenza della malattia – è lui a confessarlo senza apparente imbarazzo – il
burattino è infatti diventato un uomo di mezza età, il naso ha smesso di
crescere. E quanto è più bello ora, anche se sotto il cappello a bombetta
indossato nello studio televisivo di Fazio probabilmente non ci stanno più i
folti boccoli castani, al posto della camicia bianca arrotolata ai gomiti dei
guantini da pilota che lasciano le dita scoperte, a ripararlo dalla fragilità
della nuova condizione. Se dunque Abel fosse pure il suo romanzo più bello, come in
molti, tra cui lui stesso, lasciano intendere, il capolavoro realizzato da
Baricco va ricercato altrove. L'opera maggiore di un essere umano, suggeriva
Jung, sta nella propria vita. E qui Baricco ha davvero fatto centro, e quasi
commovente è stato assistere al suo disarmato e finalmente sincero ecce homo.
mercoledì 31 gennaio 2024
Pinocchio
domenica 28 gennaio 2024
Un uomo e una donna
Trovo il volto di quest'uomo di una struggente disperata bellezza. Se fossi stato una giovane donna e avessi vissuto a Ostrava a cavallo del millennio, avrei cercato di consolarlo, di amarlo, chi se ne frega se lui avrebbe o meno amato me. Noi donne immaginarie siamo fatte così, come le eroine romantiche che si trovano nelle pagine dei romanzi. Lui, Jan Balabán, di romanzi ne ha scritti un paio, entrambi notevolissimi, più svariate raccolte di racconti. Con la letteratura ceca sembra non avere niente in comune: tanto abili sono i suoi colleghi in ariose ironiche digressioni, tanto lui è determinato nell'andare dritto al punto. Si muore, questo il punto, che non si trasforma mai in due punti, principio di una nuova frase della vita. Ogni respiro contiene così quell'ipoteca finale, continuata a sondare con le sue parole non meno che con il suo volto, il corpo massiccio, da metalmeccanico, quasi un ossimoro rispetto a una sensibilità accesa e rarefatta. Fare cambiare idea a un uomo così è difficile, ma la donna che non sono ci avrebbe comunque provato, sapendo che l'amicizia tra maschi non risana certe ferite: "Dai Jan, andiamo a farci due birre" gli avrei detto, "due caraffe belle grandi con molta schiuma. Poi lasciamola depositare sulle labbra come i baffi di Babbo Natale, prima di baciarci mescolando barba e saliva." Lui forse avrebbe piegato le labbra in qualcosa che ricorda un sorriso, ma il taglio degli occhi sarebbe rimasto rivolto verso il basso, verso terra, verso la terra da cui viene e ritorna il figlio dell'uomo. Non sappiamo se davvero si sia tolto la vita come si mormora, certo è che era il 23 aprile del 2010, il giorno in cui Lubiana diventava capitale mondiale del libro e a Dubai veniva inaugurato il grattacielo più alto del mondo. Aveva quarantanove anni.
venerdì 26 gennaio 2024
Patriarcato
È tornato l'Uomo dell'inverno. Viene chiamato così perché nessuno ne conosce l'identità, da quarant'anni compare solo nei mesi invernali – oggi si è manifestato di fronte all'Ufficio postale di Sondrio – indossando abiti che appaiono incongrui sia al luogo sia alla stagione, sempre gli stessi come le maschere della commedia dell'arte: cappellaccio da cowboy, stivali texani, gilè nero in pelle e camicia di flanella a stampa scozzese, con i primi due bottoni schiusi. Mentre percorreva il marciapiedi leggermente proteso in avanti imprecava contro il donnino (in senso puramente letterale, fisico) che da uguale tempo lo segue. Lei tre o quattro passi dietro, capo chino, gravata di pesi alla maniera di un mulo. Con la mano destra sorregge un sacchetto della spesa e sulla stessa spalla ha un borsone ricolmo, a tratti ne fanno vacillare il passo, ma con uno sforzo caparbio subito ritrova la verticalità, si rimette in scia come nello sci d'acqua, dove non si può sfuggire alla schiuma bianca del motoscafo. Lui si guarda bene dall'aiutarla o attenderla per camminare al suo fianco, sarebbe l'infrazione di una regola probabilmente mai detta, una prossemica nella quale non sono ammesse varianti, quasi un rituale, si mormora di buon auspicio per chi li incroci per caso. Nemmeno i corpi sembrano mutare al passare dei decenni, si potrebbe pensarli congelati in un eterno presente, a conferma della natura invernale di entrambi. Ma perché invece di andare a vedere l'ultimo film della Cortellesi non venite a farvi un giro dalle mie parti? Se volete capire cosa significa il termine patriarcato, qui c'è l'arrosto e non il fumo.
martedì 23 gennaio 2024
Che cazzo volete? o sull'enigma della gioventù
Shultz è impazzito, ha cambiato ventimila lire in monetine e ora li sta dilapidando a Pac-Man! Non so chi diffuse la voce, ma fatto sta che montammo immediatamente sulle Vespe suddivise, più o meno equamente, tra ET3 e PX (io avevo un PX 125 bianco con l'adesivo di Radio Studio 105) e ci precipitammo al Bar Sole per salvare Shultz dalla sua follia. Quando arrivammo Shultz era seduto su uno sgabello di fronte al bancone sorseggiando una Stella Artois alla spina. È vero, prima si era fatto tre o quattro partite a Pac-Man, ma al momento guardava alle nostre felpe Stone Island come la ragazza rapita dai Comanche guarda all'arrivo di John Wayne. Poi disse in unico suono che non conteneva nessuna erre, dunque senza il suo consueto rotacismo, non sembrava nemmeno lui, poi disse quasi ridacchiando: "Ma che cazzo volete?" Una domanda che perfora i decenni producendo eco – che cazzo volete ete ete... – ripresentandosi ora in forma di enigma da risolvere: cosa volevamo, già, in quel pomeriggio di giugno del 1982, cosa pensavamo di poter/dover fare per Shultz, da dove questa idea romantica e anche un po' equivoca per cui il tutto incorpora le parti, se ne prende cura secondo logiche da formicaio, o alveare? Un enigma a cui, per comodità, diamo il nome di gioventù.
giovedì 11 gennaio 2024
L’agenda Draghi, o sul giorno della marmotta politica
Quando leggo che Giorgia Meloni non fa che riproporre l’agenda Draghi, mi viene da pensare a quanto distratto deve essere stato Draghi: ha seminato agende ovunque – Letta ne aveva trovata a sua volta una, Macron un’altra, Scholz un’altra ancora e così via. Il fatto è che ciò che per comodità chiamiamo agenda Draghi non è altro che la formalizzazione economico-politica, non politico-economica, attenzione, del sistema liberale e capitalistico con guida statunitense, a cui pare non esistere alternativa; non il comunismo almeno, non più.
L’idea che mi sono fatta è che per potere sfogliare
un’agenda diversa da quella di Draghi dovrebbero esistere come minimo sei
condizioni: 1) sovranità monetaria; 2) un esercito degno di questo nome
(Vannacci non fa testo, dunque); 3) mercato interno sufficiente a coprire la
produzione; 4) forza lavoro per sostenerla; 5) autonomia energetica; 6)
autonomia alimentare.
Di queste condizioni l’Italia non ne possiede nemmeno
una, e la stessa Europa è messa piuttosto maluccio. Dei sei punti summenzionati
riesce a soddisfarne solamente due, l'1 e il 6; con un po' di buona volontà
anche il 4, ma unicamente per via della forte immigrazione che la ripopola. Non
esiste alcuna realistica possibilità di un'uscita dalla Nato e di una agenda
diversa da quella che il prodigio Draghi distribuisce, come facevano un tempo
gli istituti bancari all'approssimarsi del Natale: agenda e calendario e
panettone, ma solo ai correntisti più capienti.
L’unica maniera per restituire alla politica europea
un ruolo disciplinare sull’economia suona vagamente fantascientifica, di certo
utopica, almeno nel presente. Consiste in ciò che i tedeschi chiamano
Ostpolitik, e cioè includere la Russia in uno spazio geopolitico integrato –
non lo “spazio vitale” auspicato da Hitler, ovviamente, ma una dimensione di
scambio armonico, democratico e sociale. Potremmo anche chiamarlo socialista...
altrimenti si tradurrebbe in una controfigurazione del liberal-capitalismo.
Possibilità che, con Putin al comando e la guerra in
Ucraina, non è ovviamente praticabile, quindi è una possibilità impossibile, un
ossimoro che ci condanna a un infinito giorno della marmotta di agende Draghi;
anche Elly Schlein ha già in tasca la sua agenda Draghi bella e pronta: basta
aggiungere un po’ di maquillage green e queer e il gioco e fatto. Per il resto,
non cambierebbe nulla.
Ma ve lo ricordate come finiva quel film? Per rompere
l’incantesimo che condanna a ripetere il giorno della marmotta è necessario
innamorarsi: di una donna, di un cane, di un’idea politica... Di qualsiasi
cosa. Innamorarsi del sogno che da qualche parte esista una tipografia piccola
e sperduta, nella quale non vengono stampate unicamente agende Draghi.