Una mattina, mi sono svegliato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao… Mi piace cominciare da qui, la mia idea di identità
nazionale parte da questa canzone, non da mille giubbe rosse salpate da Quarto, alla volta di
Marsala, su barconi simili a quelli che ora arrancano dalla Libia; nemmeno i gabbiani li seguono più, sapendo non esserci avanzi per loro. Ancora prima
vennero i canti del lavoro, in altri si intonava la grama vita di
montagna o il fervore politico nelle sue diverse sensibilità: Faccetta nera,
Figli dell'officina, L'Internazionale, Addio Lugano bella "o dolce terra pia,
cacciati senza colpa gli anarchici van via".
La canzone napoletana era popolare solo per finta — i testi scritti dai migliori poeti della città e musicati da compositori che avevano frequentato il Conservatorio di San Pietro a Majella, ma il popolo si riconosceva comunque —, per arrivare con un arrischiato balzo al dopoguerra, dove le canzoni contribuiscono a fondare un nuovo senso di individualità: Nel blu dipinto di blu e Io che amo solo te e Insieme a te non ci sto più, Azzurro; o, a un livello più spensierato, Sapore di sale, Il ballo del mattone, Abbronzatissima, Tintarella di luna. Più tardi gli anni della contestazione politica, dove il ritratto canoro torna a essere collettivo; Contessa di Paolo Pietrangeli quale equivalente italiano, più incazzato ma meno ispirato, di Blowin' In The Wind, i Rockes si guardano allo specchio chiedendosi: ma che colpa abbiamo noi?
Altre foto di classe in musica: Piccola città di Guccini – “vecchie suore nere che con fede \ in quelle sere avete dato a noi il senso di peccato e di espiazione” – o la borghesia odiata ma in fondo rimpianta da Claudio Lolli, il liceo Giulio Cesare cantato da Venditti, i cieli sempre più blu di Rino Gaetano, dove c’è “chi vive in baracca, chi suda il salario, chi ama l'amore e i sogni di gloria”. Intanto, De André comincia a comporre un suo diorama poetico quasi avulso, gli italiani che acquistavano il frigorifero a rate non entravano nella città vecchia. Fino ad arrivare a Vasco, De Gregori, Battiato, Dalla, Baglioni con quella sua maglietta fina da cui si immaginava tutto. Ma nei juke-box continuava a tenere banco Tu di Umberto Tozzi, "dimmi che non sei tu un miraggio ma sei tu, tabadam tabadam tabadam."
Alla musica popolare non sono richiesti i virtuosismi della musica colta, basta che abbia una melodia gradevole su cui innestare parole che diano riflesso a un preciso tempo storico, e in particolare a una generazione. Se penso a quella di mio padre vedo i ragazzi scimmia del jazz della canzone di Paolo Conte (“così eravamo noi, così eravamo noi”), la Genova con il suo mare scuro che si muove anche di notte, a un tempo richiama e respinge, rende le facce un po' così, o ancora il naso triste come una salita di Bartali, i suoi occhi allegri da italiano in gita vengono attesi seduti in cima a un paracarro, “tra una moto e l'altra c'è un silenzio che descriverti non saprei…”
Paolo Conte è il cantore della provincia italiana che si fa mondo, mentre le grandi città sono già sotto l'ipoteca di ciò che Pasolini chiamerà mutazione antropologica; a parte i drop-out felicemente tratteggiati da Jannacci (Giovanni telegrafista, il palo della banda dell'ortica, Mario) si inizia, nei testi di Gaber e Buscaglione, a intravedere quella nuova umanità colonizzata dall’immaginario vagamente malavitoso delle pellicole noir, Hollywood già dettava la linea; troppo nostrano il nome Cerutti Gino, per gli amici del bar del Giambellino molto meglio chiamarlo Drago, “dicevan che era un mago”. Ancora più esplicito Carosone: “tu vo' fa' l'americano, ma se bevi, whisky and soda, po' te siente 'e disturbà.”
Ci sono voluti decenni per accorgermi che le canzoni a cui appartengo, prima ancora di appartenermi, non coincidono con la musica allora ascoltata; per lo più proveniva da Inghilterra e Stati Uniti, Talking Heads, Bruce Springsteen, Genesis, roba così. Se dovessi scegliere due canzoni emblema di ciò che siamo stati come cuccioli in un'epoca di soglia, in cui la società affluente ancora pompava latte e Nesquik nei nostri biberon, direi senz'altro Sabato italiano di Sergio Caputo, ma soprattutto Gli anni degli 883. Quando, da Sondrio, mi trasferii a Pavia nel 1986 per iniziare gli studi universitari, mi capitava spesso di incrociare Max Pezzali al Celebrità, una discoteca citata anche in una sua canzone poco memorabile, La regina del Celebrità. Ma a riascoltarla adesso, Gli anni davvero ti sfonda:
Gli anni d'oro del grande Real
Gli anni di Happy Days e di Ralph Malph
Gli anni delle immense compagnie
Gli anni in motorino, sempre in due
Gli anni di "Che belli erano i film"
Gli anni dei Roy Roger's come jeans
Gli anni di "Qualsiasi cosa fai"
Gli anni del "Tranquillo, siam qui noi, siamo qui noi.
Niente di cui essere particolarmente orgogliosi, intendiamoci. Solo nostalgia. Come per i ragazzi scimmia del Jazz di Paolo Conte, così eravamo noi, così eravamo noi. Ci potevi trovare tutti i giovedì sera al bancone del Celebrità (al mercoledì si andava al Mulino della Frega) con un Gin Fizz in una mano e nell’altra una Merit. Che poi non sono nemmeno sicuro si trattasse di Max Pezzali, di certo gli somigliava parecchio. Un ventenne come me, ovviamente non era ancora famoso e con tutti i suoi capelli castani in testa, ci siamo sfiorati decine di volte a bordo dei riquadri stroboscopici della pista, ma mai rivolti la parola; i pavesi non legavano volentieri con gli studenti, e viceversa. Eravamo entrambi saturi di film che ci sembravano tutti belli, telefilm, timidezze con le ragazze mascherate da marchi di abbigliamento, su cui spiccavano le tasche a cerniera dei Roy Roger's come jeans, circondati da un muro fitto di coetanei con la stessa identica divisa d'ordinanza. Che metti caso qualcuno ti urtava mentre stavi ballando, tranquillo, siam qui noi. Siamo qui noi.
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