mercoledì 31 maggio 2023

Chiara Ferragni second track, o sull'ornamento

Finalmente, o forse purtroppo, ho compreso le ragioni dell'ennesima polemica su Chiara Ferragni, di cui ho scritto nei giorni scorsi sollecitato dall'eco ottenuta sui social, ma senza conoscere la voce originale. Un continuo rimbalzare tra gli utenti che ne moltiplicavano e ingigantivano la sillaba finale, al punto che ane può diventare cane, pane, banane... Ma alla fine la curiosità ha preso il sopravvento e ho chiesto soccorso a Google.

Tanto rumore per nulla, mi viene ora da commentare. Stava semplicemente rispondendo a una bambina di undici anni, o così viene dichiarato col puntiglio di chi sente di avere un diritto di prelazione sul futuro, che su Instagram le rimprovera comportamenti scostumati; per una volta, il termine va inteso in senso letterale. E anche qui nulla di nuovo sotto il sole.

Eppure divampa la contesa: brava, gliele ha cantate di santa ragione, oppure questi bambini moralisti, che poi bambini... sarà di certo opera di uno dei genitori. I bookmaker danno la mamma per favorita, la quale ha poi attribuito il pensiero alla piccola per guadagnare quell'attenzione che fa tutt'uno con la tenerezza.

Se pure così fosse, non si sbagliava. E bisogna riconoscere che sarebbero entrambi degli ottimi spin doctor: sia Ferragni con il suo non ho niente da dire e, con il corpo, lo dico, come suggeriva sardonico John Cage, sia la mamma della bambina che trova una strategia comunicativa di pari effetto. Diversamente non ne staremmo parlando da giorni, fino alla prossima spallina che scivola a scoprire l'altro capezzolo.

Ma proviamo a passare dal gioco del se fosse a quello dell'è: cosa sono, cosa dicono le parole nel loro stare in placida e leggibile superficie, alla maniera dello stronzo che galleggia al termine della canzone di Colapesce e Dimartino? In fondo Mozart teneva concerti ben prima degli undici anni, e non si capisce perché un'undicenne attuale non dovrebbe essere in grado di scrivere il proprio temino intitolato o tempora, o mores.

Stando al dettato nominale, la questione su cui (eventualmente) dibattere prende una diversa formulazione: non se Ferragni faccia bene o male a fotografarsi con porzioni di epidermide sempre più esposte, ma se sia ancora lecito possedere, già a partire dall'infanzia, una visione estetica prima ancora che morale, nella quale i propri gesti vengono connessi nel giudizio a quelli degli altri.

In prima battuta mi verrebbe da rispondere: no, assolutamente NO! Ferragni smutandata non contravviene infatti a nessuna restrizione giuridica, e non solo l'afflato evangelico – non giudicate se non volete essere giudicati – ma anche la teoria liberale avrebbe dovuto indurre la bambina a chiudere il becco. Quanto alla pubblica decenza, è un concetto talmente indecente da non essere nemmeno preso in considerazione.

Tutti d’accordo dunque, problema chiuso?

Sì e no… Ferragni è infatti un personaggio pubblico, il suo non è un comportamento privato (il topless sulla spiaggia di Stintino della signora Bianchi, mentre la sua amica Rossi non se l'è sentita) ma un vero e proprio segno, che va contribuire a una trama collettiva, un ordine simbolico. Lacan, lo psicoanalista francese col ciuffo, lo chiamava grand Autre. Altrimenti perché useremmo il termine influencer, se non perché alcune persone, tra cui Chiara Ferragni che ha più follower degli ultimi due presidenti degli Stati Uniti, influenzano qualcosa che per convenzione chiamiamo mondo.

In fin dei conti, come noi adulti ci prendiamo la briga di dire che l'ultimo film di Moretti fa schifo – a dire il vero a me è piaciucchiato – perché una bambina di undici anni non potrebbe dire che la reiterata e tautologica esibizione del corpo di Chiara Ferragni le provoca la stessa sensazione?

Quel corpo la riguarda, è un testo, un'opera di finzione come il film di Moretti, con cui condivide la ricerca del consenso del pubblico, è un racconto del presente per figure. Ma a volte le narrazioni ritornano come un boomerang tra le mani di chi l’ha scagliato, contribuendo, come già abbiamo visto, a fare del mondo uno specifico mondo.

Il termine viene fatto risalire alla radice indoeuropea mand, con significato di ornamento, ma anche di pulizia, da cui mondare. E quando una superficie è pulita si può leggere l'ornamento impresso su una materia altrimenti informe. In un racconto di Karen Blixen, le impronte lasciate casualmente al suolo durante una notte di tempesta al mattino si rivelano in forma di cicogna. 

Con mondo si intende dunque qualcosa di ben diverso dalla naturalità del globo terracqueo. E il mondo, l'ordine simbolico, l'ornamento, il grande Altro, la cicogna, chiamiamolo pure come ci pare, la bambina lo chiama Chiara Ferragni. Ciò che associa a quel nome, che è appunto un segno, non le piace. No grazie, diventa allora il senso della sua ingenua reprimenda. Voglio un altro mondo.

Prima di liquidarla come una pedante rompicoglioni, oppure per l'eterodiretto strumento di una madre altrettanto rompicoglioni, io conterei fino a dieci mentre mi pongo questa domanda: fatto salvo l'impegno per l'ambiente, il global warming, i gabbiani impiastricciati di petrolio e le scatolette di pomodoro da scagliare per protesta su un dipinto di van Gogh, non esisterà un aspetto non ecologico del mondo che riguarda anche me? Si tratta, come per Karen Blixen, di unire le tracce e cercare la sagoma della cicogna.

E allora facciamocelo anche noi un selfie davanti allo specchio. Sì, mettiamoci pure nudi, tanto non ci vede nessuno, tette in fuori come dice la signora Maisel prima di entrare in scena. E adesso pensiamo all'undicenne che portava il nostro nome. A quando abbiamo fatto a botte al ritorno da scuola, la cartella appoggiata al muretto. La prima e la seconda e la terza bicicletta che ci hanno fregato. Pensiamo a ciò che avremmo voluto essere e non siamo stati.

Quindi pensiamo a Chiara Ferragni, non a ciò che è – nessuno di noi lo sa nemmeno di sé stesso – ma a ciò che mostra di essere, anzi che mostra e basta. Pensiamo al mondo come a una immensa mostra, la bancarella di un luogo turistico pieno di gente in ciabatte e bermuda. Noi però possiamo scegliere solamente un souvenir. Sbagliato dice il venditore, e ci porge un oggetto diverso da quello che gli abbiamo indicato, a sua discrezione.

Ecco, quello è l'ornamento, il diadema. Un'inquietante misteriosa figura dove tutto si tiene e le distinzioni sono solo imbrogli dello sguardo. E bene ha fatto la bambina a restituirlo se non è ciò che desiderava. Quando cala l'inverno, le cicogne migrano verso continenti più tiepidi e accoglienti.

lunedì 29 maggio 2023

Chiara Ferragni c’est moi

 


Non ho capito bene cosa abbia detto o fatto o mostrato di recente Chiara Ferragni, e perché sui social, ancora, se ne stia battibeccando, ma qualsiasi cosa mi sembra giusta a prescindere. Giusta come è giusta la taglia di un abito mentre la commessa irrompe nel camerino, trovandoti in mutande. Oppure la musica, non troppo invadente, da accompagnare all'happy hour. Il corpo da rivestire è ovviamente quello del nostro tempo, e noi coloro che pescano un'olivetta sul bancone mentre con l'altra mano impugnano il mojito d'ordinanza.

Ma facciamo un passo indietro, anzi una maratona. Correva infatti l'anno 1961 quando Umberto Eco pubblicava Diario minimo, dove è inclusa la celebre Fenomenologia di Mike Bongiorno. Il successo del presentatore viene attributo alla più comune delle premesse: essere un uomo medio, o più propriamente mediocre. Così il filosofo alessandrino: "Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità."

Una trionfante mediocrità che ritroviamo nel suo modo di vestire, muoversi, parlare e scegliere il taglio dei capelli, di cui si è discusso a lungo se non fossero invece una parrucca. No, erano più modestamente capelli parruccati. Quindi sventolare gli occhiali mentre pronuncia il saluto per cui viene ricordato: ALLEGRIA! Uno stato d'animo che contraddistingue le persone semplici e i grandi saggi, ma, con ragionevole convinzione, escludiamo pure la seconda ipotesi. Semplicità e una mente non propriamente brillante, con cui si possono però fare anche cose meritevoli, tipo partecipare alla resistenza al nazifascismo. E mi sembra doveroso ricordarlo anche per questo. 

Se generalizziamo il caso di Mike Bongiorno, potremmo ipotizzare che negli anni successivi al boom economico si sia passati da un immaginario collettivo fondato sulla dialettica mitica tra uomini e dèi, al rispecchiamento laico che segue all'epitaffio nietzschiano sulla morte di Dio, di cui lo slogan del Movimento 5 Stelle è sintesi sbiadita: uno uguale uno. La servetta trace, che vede Talete cadere nel pozzo e ne ride, è dunque da considerarsi uguale al grande filosofo, ed entrambi ad Apollo ed Ermes. Poco importa che questi prendessero le sembianze di Clark Gable e Vittorio Gassman, i quali giganteggiavano su uno schermo proverbialmente grande. Ma era per l'appunto prima.

In quel dopo che chiamiamo adesso abbiamo sempre bisogno di derivati mitici – sulle riviste dei barbieri dobbiamo pur stampare qualcosa – ma come per l'aurea mediocritas del presentatore non devono essere abbarbicati sull'Olimpo, per conservare l'illusione di poter prendere un giorno il loro posto. In altre parole, Chiara Ferragni c'est moi. Ha solo una chioma più folta e denaro sul conto, a seno mi batte, seppur di poco, e in quanto ad anni e peli superflui vinco io. Per il resto siamo intercambiabili. Ma avremmo potuto dire Flavio Briatore è mio fratello, Fabrizio Corona il cugino scapestrato, la famiglia queer non è quella di Michela Murgia, ma composta dai tronisti di Maria de Filippi o dai naufraghi dell'Isola dei famosi. Gli esempi non mancano e ciascuno scelga il proprio, mentre io torno a Chiara Ferragni.

Ferragni, come il marito, è bella ma non bellissima, intelligente ma non geniale, capace di moltiplicazione di pani e pesci senza avere appreso nessuna tecnica di pesca: abboccano spontaneamente all'amo. Se pure possiede un qualche talento naturale non ne siamo a conoscenza, non è stato fatto fiorire con anni di studio e duro esercizio. Tempo perso. È semplicemente giovane e bionda, come sono giovani e bionde milioni di ragazze. Mica bionda come lo era Monica Vitti, che, con tutta la nostra buona volontà, qualsiasi cosa facesse la faceva meglio di noi, riusciva a sopravanzarci pure nel sonno.

Da lì in poi è stata una progressiva miniaturizzazione degli orizzonti psichici, fino ad arrivare all'attuale scenario lillipuziano: la statura di John Wayne, un metro e novantatré, sul display dello smartphone viene scorciata alla dimensione di un'unghia. Perfino gridare voglio una donna è diventato più agevole, se l'albero su cui arrampicarsi è in formato bonsai (Tinder, Meetic, Badoo, c'è solo l'imbarazzo della scelta). Lo stesso termine influencer possiede una sfumatura di compressa orizzontalità: un principe, un re e appunto una divinità non influenzano nessuno, ma lo sovrastano.

Si tratta forse della riduzione generalizzata dell'aura di cose e persone, Benjamin l’attribuiva alla riproducibilità tecnica; in fondo anche le relazioni su internet sono riproduzioni, scambi tra avatar. Ferragni è solo una statuetta in scala tra infinite altre, solo più esposta. Ma un passaggio in vetrina non viene negato nessuno, e da qui il passo è breve ai famigerati cinque minuti di notorietà che fanno da optional alla condizione di moderni – se non sempre nel reale, almeno nell'immaginario con cui ci affrettiamo a condividere il nostro pensiero su Facebook, certi dell'interesse che susciterà.

Con questo spirito ci affidiamo allo specchio di Grimilde, è anch'esso diminuito di proporzioni, uno specchietto per le ciglia, che continuiamo a interrogare speranzosi: Specchio specchio delle mie brame, qual è l'argomento del giorno su cui scornarsi nel social-reame...? La risposta, amico mio, soffia nel vento. Quando i sette nani stanno già tutti nella domanda.

domenica 28 maggio 2023

Il lettore esplicito, o sulla selezione all'ingresso dei romanzi


Lettore implicito è un concetto elaborato negli studi sulla narrazione. Sembra uno di quei paroloni difficili che usano gli accademici (e i medici) per mettere in soggezione e guadagnare una qualche forma di potere, ma a ben vedere parla di qualcosa di molto semplice. Dovremmo provarlo tutti: il rispetto.

In questo caso, rispetto verso un lettore ideale che chi scrive si prefigura; in genere gli rassomiglia, ma potrebbe essere anche molto diverso. Proprio perché rispetta questa figura ancora ipotetica di lettore – in realtà è un do ut des, rispettandolo guadagnerà il suo rispetto, che è ciò che muove la mano nello sfogliare le pagine – lo scrittore cercherà di farsi capire da lui, o da lei, che è già una prima importante differenziazione.

Quindi si ingegnerà per coinvolgerlo/a, emozionarlo/a, farlo/a riflettere; insomma offrirgli una varietà di piaceri che la scrittura è ancora in grado di offrire, trasformando il lettore implicito in un numero più o meno ampio di lettori empirici. Potremmo vedere il rapporto alla maniera del tiro con l’arco: il lettore implicito è la freccia, quello empirico il centro del bersaglio. Se il lancio è ben eseguito i due lettori coincideranno.

In fondo anche un cuoco ha un suo mangiatore implicito, per quanto i piaceri sono ben diversi. Ma la diversità a cui ci siamo già più volte riferiti presuppone, per logica, un concetto speculare, su cui la narratologia è in genere omertosa. Si tratta del lettore esplicito.

Le dinamiche sono le medesime, ma ribaltate di segno. Proprio perché non si può piacere a tutti, all'ingresso di ogni romanzo, come al Billionaire, è presente un buttafuori che fa una severa selezione: Tu sì... tu sì... tu no... entri prego Commendatore... tu non se ne parla proprio, vai a cambiarti quella giacchetta fucsia e poi vediamo.

Ma se vogliamo essere coerenti nell'analisi, chi scrive non solo dovrà rispettare il proprio lettore implicito, ma disprezzare il lettore esplicito. Proprio così: disprezzo, che del rispetto è l'ombra.

Non è snobismo, attenzione! Lo stai avvertendo già dalle prime parole che lì dentro si annoierebbe a morte – un disprezzo rispettoso, mettiamola così, con un ossimoro – e se procede è a suo rischio e pericolo. Una sorta di disclaimer che trova conferma nell'etimologia: dis-prezzo, letteralmente significa non ha prezzo. Dunque neppure commercio, in tutti i sensi, tra piani che faticano a comunicare, senza con ciò volere istituire una gerarchia di valore.

Perciò anche l'accogliente e simpatico Fabio Volo, pur non dandolo a vedere, disprezzerà i lettori, che so, di Emmanuel Carrère, così diversi dai propri. Magari nel segreto invidierà il grande autore francese, ma gli adelphiani lettori di Carrère non hanno il pass per il privé del bresciano. E fa benissimo a respingerli se vuole continuare a essere Fabio Volo, e non diventare una brutta copia di qualcun altro.

sabato 27 maggio 2023

Dopo

Da quando è subentrato un desiderio del dopo, ho cominciato a provare le vertigini. Prima non ne avevo mai sofferto. È una vocina, il mio desiderio del dopo, che sussurra all'orecchio con il tono di chi racconta pettegolezzi, ogni giorno sempre più pettegolezzi a sfondo sessuale: quello c'ha le corna, deve abbassare la testa quando passa dalle porte, lo sai, vero, come la moglie ha fatto carriera... Di notte la vocina si moltiplica in un coro di sconcezze senza ritegno. Finita anche l'ultima serie su Netflix e spento il televisore posato davanti al letto, nel dormiveglia il desiderio si precisa. Vedo il mio corpo afferrato da una forza che sono e non sono io, lo solleva da terra come fosse leggerissimo, quindi lo scaglia nel vuoto successivo a uno strapiombo, dove sosta per un tempo che mi appare irragionevolmente lungo. Il corpo che porta il mio nome non è però spaventato, semmai possiede quello spregio verso la gravitazione di Willy Coyote: per l'ennesima volta ha pasticciato con la dinamite, ed è rimasto sospeso sul cornicione di un canyon. È solo dopo, quando realizza che canyon e cornicione sono ormai definitivamente separati, che comincia a precipitare, e con lui precipito anch'io. Ma qualcuno, evidentemente non coincide con me, si è intrufolato da clandestino nella stiva del mio desiderio, e continua a vedere anche dopo, sempre dopo. Forse si tratta dello spettatore di una sequenza cinematografica girata con il dolly che si abbassa lentamente, fino sondare nel dettaglio i brani carnali sparsi al suolo – la rotula che esce dal ginocchio, lo sterno fratturato, i denti, quanti denti da frantumare ci stanno dentro una bocca? – disarticolati su una superficie da immaginare la più dura possibile. Meglio sarebbero cubetti di porfido maculati, vengono accostati stretti stretti come fanno i giocatori di basket prima di entrare in campo, e quando si sciolgono lanciano un urlo che non si capisce mai cosa dicono. Quando giocavo a pallacanestro mi inventavo ogni volta parole diverse, cuccuruccucu, ahpperò, ciapalchelghè, bastava pronunciare velocemente e mettere l'accento sull'ultima vocale. Oppure schiantarsi su bitume raffreddato dall'inverno  non gli inverni miti di adesso, ma quelli in cui si contavano i giorni che mancano a Natale. Il sangue, dopo qualche ora dall'impatto, si raggruma, ed è difficile da lavare, ci vogliono detersivi speciali e olio di gomito mal remunerato – guarda che lavori mi tocca fare… pensa la donna ucraina delle pulizie. Non è diverso dal sangue di un gatto malaccorto nel traversare la strada (il proprietario del SUV scende per vedere se la carrozzeria si è ammaccata) o un piccione colpito da un monello con la fionda, bel colpo gli dice l'amico con i capelli rossi e le lentiggini. A terra lo stesso corpo, gli stessi abiti perfino: la felpa color carta da zucchero con la cerniera da sostituire, i jeans diventati troppo larghi per via di un continuo dimagrimento, la t-shirt con la scritta "ricerco un bene / fuori di me / non so chi 'l tiene / non so cos'è"... Massì, sono proprio io, mentre mi affaccio sul balconcino al quarto piano dove vivo da sempre, ma subito dopo mi ritiro scosso da quei capogiri che dicono induca un eccesso di bellezza. È forse per questo che la sposa si aggrappa al braccio che le porge l'orgoglio di un padre: non per le foto ricordo da inserire in una cornice d'argento, ma per rimanere ritta nell'approssimarsi all'altare, evitando di afflosciarsi nella navata dove sostano le bare durante i funerali, mostrando a tutti le mutande. Un destino di obliquità che ho incontrato per la prima volta a otto anni, e giunto senza neppure affanno alla cima, dopo i proverbiali 294 gradini, salutavo la zia con un fazzoletto bianco come avevo visto fare da un giapponese; ricambiava, piccola piccola, da sotto il gesto la moglie, che non era voluta salire sulla Torre. Vai tu deve avergli detto in una lingua tutta spigoli e gargarismi, io devo fare la pipì, ci rivediamo dopo. Intanto la zia mi strillava Allontanati, allontanati!, ma delle sue parole mi arrivava solo lo sbracciarsi con cui le accompagnava, che interpretavo in forma di saluto e continuavo ad agitare il fazzoletto. Si rivolgeva allora allo zio: Franco, tira via il bambino da lì, si sta sporgendo troppo, e poi si copriva gli occhi per non guardare quello che avrebbe potuto accadere dopo. Io ridevo della sua paura delle altezze, che l'aveva fatta rimanere, senza nemmeno la scusa di una pipì, ad aspettarci sul prato di un verde innaturale, chimico, di Piazza dei Miracoli, tra la moglie del giapponese, un uomo grasso in camicia hawaiana che leccava un enorme cono di gelato, tre paracadutisti dal passo sincronizzato come cavalli viennesi e una comitiva di suore, si scambiavano con una specie di inchino una bottiglietta di Oransoda da bere a canna. La zia nel frattempo aveva riaperto gli occhi. Chissà se anche lei, in una sua parte sommersa, desiderava ciò che in superficie al contrario tutti temiamo, alla maniera dei tennisti che fanno doppio fallo arrivati al match point. Tra vincere subito e perdere dopo, non è infrequente la seconda scelta. E comunque se e quando sarà, non mi infilerò un Tampax nel buco del culo come ha fatto Mishima, per evitare la poco marziale fuoriuscita dell'ultimo fiotto di merda.

venerdì 26 maggio 2023

Letteratura: stile o storia? E se fosse solo una questione di amicizia...

 


Da quando ho smesso di leggere mi capita di chiedermi perché prima lo facessi. E anche abbastanza spesso: sia leggere, in passato, prima di avere problemi agli occhi, sia interrogarmi ora sulle ragioni che mi spingevano farlo.

Mi aspetto sempre delle risposte complesse, tortuose e lambiccate come quelle che certi miei amici pronunciano con una convinzione che sfiora la minaccia (ok ok, non arrabbiarti, beviamoci una camomilla assieme).

Lo stile, ad esempio. Lo stile è tutto dicono quei miei amici intellettuali, il modo in cui le parole vengono selezionate e, quindi, ricomposte sulla pagina. Che un po' forse hanno ragione: ma tutto, tutto tutto...?

Lo specchio a cui porgo la domanda mi restituisce uno scuotere laterale del mento, che in Bulgaria significherebbe sì ma a Sondrio, dove sono nato, no. Decisamente ciò che mi portava a leggere non era lo stile. Le storie piuttosto, direi più che altro per via delle storie, almeno quando si trattava di scrittura narrativa. Quanto alla saggistica la risposta è semplice: per imparare qualcosa.

Ma anche le storie sono sempre le stesse, tre o quattro al massimo, volendo essere generosi non più di dieci. È quanto sostengono i miei amici di prima; a essere precisi sono amici per modo di dire, sono infatti così chiamati i contatti sui social. Ma accidenti, questa è forse una traccia!

Io chiamo amici uomini e donne di cui nemmeno conosco il colore degli occhi – in un romanzo è un particolare che in genere conosco –, e ciò per il semplice fatto di averne letto e a volte condiviso le parole. Se le parole sono sintomi, la lettura crea dunque un'amicizia surrogata.

Ma oltre che sui social network, con chi, con cosa, avverto un legame tale da chiamare amicizia, per quanto non mi sfugga l'elasticità un po' stiracchiata del termine. Con lo stile, con le storie? Manno dai, l'amicizia si può instaurare solamente con i personaggi.

Se questa mia intuizione fosse vera, anche nel caso di tre o quattro solo possibili storie (e continuo a non esserne mica tanto convinto), l'esperienza di lettura cambia profondamente a seconda di chi le interpreta. Ma prendiamo un esempio concreto.

Una persona si candida alla presidenza della nazione più ricca e potente del mondo. Viene eletta, un po' fortunosamente, la differenza di voti con l'antagonista è minima, ma viene eletta. Passano quattro anni in cui avvengono svariate peripezie, e alla fine torna a casa con un'immagine mutata per chi legge (ed elegge) rispetto all'incipit.

Bene, adesso proviamo ad associare a questa storia dei nomi: Biden, Trump, Obama, Bush, Clinton... A me sembrano storie completamente diverse, nonostante la medesima cornice narrativa. Certo, si potrebbe ribattere, smentendo la teoria delle tre o quattro storie, che a essere diverse sono qui le vicende interne, la polpa narrativa.

Ma se il vero punto di discrimine non fosse invece il grado di amicizia, che ciascun lettore ha nel frattempo sviluppato... Come io non mi sento equidistante tra Trump e Obama, verosimilmente – e infatti è ciò che provo – non lo sarò neppure tra Emma Bovary e il Corsaro Nero. Molto più simpatico il secondo, ovviamente.

In altre parole, una storia è determinata dalla somma tra uno o più gesti e uno o più personaggi. Qualsiasi variazione, anche minima, nel rapporto tra questi costituenti, modifica il risultato finale. Quando arriviamo alla resa stilistica abbiamo dunque già infinite possibili storie; potremmo dire che i personaggi sono i mattoni, il plot l'ingegneria narrativa e lo stile la sua architettura.

Certo, confesso di avere mollato la lettura, in alcune tediose circostanze, perché infastidito dalle scelte formali dell'autore. Ma è più frequente che io abbia continuato a leggere una storia intrigante scritta male, che non una storia scritta divinamente le cui pagine però giravano a vuoto, sempre più pesanti da girare.

Ma in quest'ultimo caso, se il personaggio era riuscito a guadagnarsi la mia amicizia ero capace seguirlo in interminabili capitoli in cui non avveniva quasi nulla: sbocconcellava madeleine, girovagava per Dublino, cercava di smettere, senza riuscirci, di fumare. Posso essere irretito in una relazione amichevole anche da animali e perfino oggetti, umanizzando un edificio scolastico come fa Sally, la sorellina di Charlie Brown (e il bello è che l'edificio le risponde).

La letteratura sembra così smentire la radice filosofica del pensiero occidentale, che trova sintesi in una frase attribuita, e probabilmente mai pronunciata, ad Aristotele: "amicus Plato sed magis amica veritas" (sono amico di Platone ma sono ancora più amico della verità).

Macché, proprio il contrario. Come lettore o, meglio, ex lettore, io sono amico della verità formale dello stile, ma la mia amicizia più vera e profonda è rivolta ai personaggi, il cui modo di vivere le vicende narrate determina storie sempre diverse. C'è dunque tempo prima piangere la fine della letteratura.

mercoledì 24 maggio 2023

Queer sì o queer no?


È curioso che a nessuno sia ancora venuto in mente di rintracciare le premesse della famiglia queer, di cui parla Michela Murgia dichiarando di farne parte, nel Giardino degli epicurei, che in esso si ritrovavano in comunità aperte e solidali; diversamente da quelle monastiche erano comprensive di entrambi i sessi, oltre che molto meno rigide e bacchettone.

Lasciando provvisoriamente perdere l’aggettivo anglofono – lo trovo anche un po’ fuori luogo: l’eccentricità, la bizzarria a cui si riferisce non sono caratteristiche intrinseche di tali legami – mi sembra interessante concentrarsi sul sostantivo famiglia, non certo per difenderlo da presunti agguati al modello patriarcale. Al contrario, quel modello fa schifo. Già Gesù ammoniva: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Luca 14-26).

Ma a ben vedere, anche Gesù ci propone un modello di famiglia queer ante litteram, composto da dodici persone, più sé stesso, che girano per la Palestina condividendo pani, pesci, giorni e notti. Pure molto vino, non essendo ancora informati da Antonella Viola della sua nocività. Per il sesso non sappiamo, su ciò i vangeli sono omertosi. In ogni caso: prima sciogliere e poi coagulare, come recita la famosa formula alchemica.

Provando dunque a mettermi nei panni di un bambino che appartiene a una famiglia queer: chi devo odiare, come posso identificare Laio per ucciderlo, quanto tutto è così confuso e indifferenziato, o perlomeno è quanto ho inteso dalle parole di Murgia? Non ruoli fissi ratificati da una struttura sociale a cui rimandano (il papà, la mamma, il nonno e lo zio strambo che si arrampica su un albero, da cui gridare voglio una donna!), ma funzioni relazionali plurime, mobili come mattoncini di Lego. Che così a pelle mi piace molto di più, per quel gusto che avevo fin da ragazzo di scambiarci le felpe tra amici.

Oppure si può diventare ciò che si è senza odiare nessuno, aggiungendo un posto a tavola, questa sì che sarebbe una notizia, lo dico senza ironia. Davvero la famiglia queer potrebbe rivelarsi una soluzione pedagogica. L’esempio evangelico mi porta però a sospettare che il tempo della scelta – di coppie più o meno aperte, percorsi duali o collettivi – e quello della crescita siano momenti separati. Non dico, attenzione, che un bambino abbia diritto a una madre e a un padre, con preciso e distinto genere sessuale. Ma mi chiedo se quello della famiglia queer non sia un sogno adulto, che potrebbe rivelarsi un incubo infantile.

Questa è per l'appunto solo un'interrogazione: non è certo, non lo so io e immagino nessun altro. Sarebbero così interessanti degli studi in materia, approfondimenti cognitivi, ulteriori distinzioni tra queer e queer, che mi sembra il vero punto. Ad esempio, sia quella di Charles Manson sia quella di Mowgli, nel Libro della Giungla, erano famiglie queer, con esiti ben diversi. O per dirla con Dino Risi “il razzismo finirà quando si potrà dare dello stronzo a un negro” (lui pronunciava proprio negro, non nero, e le citazioni non si correggono, a costo di essere sanzionati dal web).

Mentre noi abbiamo la tendenza a entusiasmarci per le parole straniere, specie se ammantate da un’aura di esotismo libertario. Non è dunque una critica alla famiglia queer di Michela Murgia, che, per quel poco che intuisco della persona, sarà certamente virtuosa, ma al modo spensierato con cui accogliamo ogni novità. Novità? Ma se, come abbiamo visto, è pratica vecchia di più di duemila anni.

domenica 21 maggio 2023

Uova, o sull'impossibile ritorno di Pollicino

Uno dei pochi vantaggi dell'infelicità è che si vede la silhouette del suo doppio. Purtroppo solo a posteriori, ma si vede con chiarezza: traccia bianca di gessetto che disegna un preciso contorno al suolo, già rimossi i corpi dei morti ammazzati a cui fa da sostituto. Quando erano ancora in vita facevano troppe cose. Correvano, danzavano, rubavano dal banco delle prelibatezze e poi scappavano via; anche nel sonno continuavano a rigirarsi inquieti. Davvero troppe per non sfocare dentro la foto di classe. Eppure c'è stato un tempo in cui l’infelicità, o come volete chiamare l'imbuto che non porta da nessuna parte, solo pareti scivolose che si restringono nel progredire del flusso, in quel tempo si offriva ribaltato in forma di cornucopia, a eruttare meraviglie con aspetto di normalità. Io per certo ne ho afferrate e conservo almeno tre. La prima è la figurina di Sandokan che con un balzo trafigge la tigre, a sua volta gli si sta avventando contro in un movimento che ricorda l'abbraccio degli emigranti, sono appena rientrati al paese dopo avere fatto fortuna in un'America a caso. O per essere più precisi si trattava dell'ultima, da incollare sull'album, un po' di sbieco ma pazienza, saturando ogni finestrella che si spalancava su un desiderio di completezza, mai più realizzata con le figurine dei calciatori. Mancava sempre qualcuno: Anastasi, Chinaglia, l'introvabile Pizzaballa non veniva scambiato nemmeno per Mazzola e Rivera, da un famoso giornalista con la pipa soprannominato l'Abatino. Un destino nominale che spetta ai maschi, chissà perché, per chi ha avuto in sorte una piccola appendice di cui andiamo tanto fieri, è così difficile coincidere con il proprio nome; mio nonno Alfredo ad esempio, veniva chiamato Pinin. Lo rivedo. Indossa un cappelletto di velluto a coste marrone e tiene in mano l'albo appena uscito di Topolino, me lo andava prendere all'edicola delle due zitelle – si diceva fossero sorelle, o forse amanti... non ho mai capito – ogni volta che rimanevo a casa da scuola con le tonsille in fiamme. Quando mi ristabilivo venivo mandato il fine settimana in campagna dai nonni, per ritemprarmi veniva detto. E dunque il luogo, non la location, attenzione, solo luoghi, spazi fisici in cui ogni recita veniva esclusa da semplici gesti, se proprio vogliamo essere forbiti l'ambientazione coincideva con la fattoria dei miei nonni materni, che si trovava appena fuori dai confini della città. Mucche, Maiali, conigli, gatti, perfino un cavallo acquistato per me, ognuno aveva un suo posto definito in quel minimo cosmo. Solo le galline andavano dove gli pare, nella distribuzione delle carte a loro spettava la funzione di jolly; i nonni non hanno mai voluto tenerle rinchiuse, sostenendo che il brodo viene più buono così. Razzolavano per l'aia tutto il giorno e poi andavano a deporre le uova dove capita capita. Ma a un occhio attento non sfuggivano delle precise strategie evolutive: l'impervio è da preferirsi all'esposto, qui non scoverai mai il mio frutto pensavano le galline con il loro proverbiale cervello da gallina. Il compito di smentirle spettava a me, più simile a un gioco, una caccia al tesoro, ecco, che a uno di quei lavoretti che si dice facciano maturare, contribuendo a rendere i bambini di campagna degli ometti molto prima dei loro coetanei inurbati. Io rappresentavo un ibrido, adesso si direbbe un bambino bifuel. Uno degli sgravatoi prediletti dalle galline era il fienile, dove la nonna faticava ad arrampicarsi; quanto a mio nonno Francesco, da tutti chiamato Cechin, era zoppo, non se ne parlava proprio. Con una scaletta di legno assemblata a mano risalivo quelle che mi apparivano vere e proprie pendici, e raggiunta la vetta iniziava la quest, avvolto dall'odore intenso del fieno che sa di fieno, non di morte come sarebbe forse logico considerata la fine dei fili d'erba recisi. D'altronde, anche il latte, sa di latte, e la merda di vacca di merda. Con eccezione dello spaventapasseri, nel mondo contadino le esperienze sensoriali sono tautologiche, non esiste il principio di analogia che appartiene alla complessità cittadina, dove un saldatore somiglia a un guerriero acheo e un vigile urbano a un pupazzo di neve. E quando prima o poi ne scorgevo uno, un uovo ancora tiepido nella conca soffice dove la gallina si era accovacciata per partorire (allora facevo un po' di confusione tra la fisiologia di mammiferi e volatili da cortile...), quando succedeva provavo una sensazione strana dentro la pancia, a cui non riuscivo a dare un nome. Che tante volte è meglio non avercelo, un nome con cui infilzare le cose e i concetti più difficili, trigonometria, spinterogeno, acceleratore di particelle subatomiche, e una volta che si pensa di averle acciuffate con un suono poterle finalmente raccontare. Chiamarle piuttosto con un fischio, come facevo con il cane; arrivava in un battibaleno e aiutava me e la nonna ad adunare le galline la sera. Almeno la notte, diceva, andava trascorsa nel pollaio, per evitare l'agguato della volpe mentre io venivo riportato in città con la Prinz di mio padre, anche lui Francesco ma dagli alunni detto il Maestro. Le galline nel pollaio e io in un letto tiepido a sognare la figurina di Pizzaballa, portiere di Atalanta, Roma, Verona, Milan e infine di nuovo la sua Atalanta. Seguendo la rotta circolare di Ulisse aveva voluto concludere la carriera dov'era cominciata, vicino a casa. Un ritorno che, più di un tributo al figliol prodigo, era forse parso a lui uno schermo in cui riflettersi. Gli esordi nei campetti di Verdello, dove occupava lo spazio tra due maglie appallottolate e posate al suolo. Poi una corriera blu su cui salire per fare il provino nella grande squadra. Con il Milan due terzi posti in classifica, nel '75 e '76; si poteva forse fare di più ma insomma, lui si limitava a contenere il danno e non a trafiggere la porta degli avversari come Sandokan. Sullo schermo la pellicola però gira a ritroso, nell'illusione di ritrovare, alla fine, l'inizio in cui è ancora intatto il futuro, in un intreccio di sudore, tendini e sogno che per convenzione viene chiamato felicità. Ed eccolo il nome che era meglio non conoscere, la silhouette tracciata con il gesso sul luogo del delitto, il cadavere da portare via. Al suo posto ci sta ora un'impresa edile. Il titolare ha acquistato la fattoria dei nonni a un'asta fallimentare, ogni tanto mi capita di passarci davanti per accompagnare la mamma al fiume, ma c'è sempre qualcosa che richiama lo sguardo di entrambi dall'altra parte, o un bruscolino finito dentro l'occhio. Tanto cosa vuoi ci sia da vedere: uova e galline non ce ne stanno più, non decideremo adesso chi è venuto per prima. Solo betoniere, bancali di mattoni in calcestruzzo, qualche camion in sosta e una gru ingobbita che si protende verso il basso, sempre più in basso e greve senza mai riuscire a coincidere con il suolo, dove dai sacchi di cemento sono fuoriuscite minuscole scie polverose, se non fosse per la cornice potresti confonderle con le tracce lasciate da Pollicino nel bosco. Quando piove si raggrumano in incomprensibili figure, che per Pollicino è poi impossibile decifrare.

sabato 20 maggio 2023

Empatia, o su parole, canguri e cazzi propri (pochissimi i canguri, al solito)

"Le parole sono importanti" strillava un giocatore di pallanuoto alla giornalista che lo stava intervistando a bordo vasca. La scena sta in un film, è diventata talmente famosa che non occorre specificare il titolo. Le parole funzionano allo stesso modo. Prima scappano dalla bocca di un tale, qualcuno le sente e pensa: Chissà cosa vuole dire...? Così le ripete per comprendere, ma intanto si diffondono (si fa sempre la propria porca figura a pronunciare vocaboli inusuali) fino a diventare automatismi di massa.

Pensiamo al termine empatia. Alla fine della partita tra Manchester City e Real Madrid, la commentatrice bionda dice che Guardiola, allenatore della squadra inglese, durante il gioco ha trasmesso empatia ai propri giocatori e al pubblico sugli spalti. "Chi parla male pensa male e vive male", continuava il dialogo nel film. Più spesso però non pensa affatto, ricalca suoni e figure per guadagnare un pixel nel selfie: ecco, mi vedi, sono quello lì! Possiamo dunque assolvere la graziosa commentatrice.

Dire empatia al posto di simpatia, compassione, amore, pietà non è però lo stesso. L'etimologia in questo caso non soccorre, la sua radice greca (en-pathos) rimanda a una sofferenza interiore. In seguito l'espressione ha finito con l'indicare la disposizione raccomandata ai terapeuti: cerca di sentire cosa prova il paziente – il suo patire interno, appunto – senza però condividerlo per non esserne travolto, altrimenti non riusciresti ad arrivare a fine giornata.

In un bell'intervento su Facebook, lo scrittore Raul Montanari suggerisce che la diffusione del termine non è innocente, ma come quasi sempre accade fotografa un mutamento della società: siamo parlati dalle parole, siamo empatici ma, in quell’interiorità bel lungi dall'essere appaltata alla sofferenza dell’altro, come uno psicoanalista già pensiamo al prossimo cliente, o alle fialette antipulci da acquistare per il cane che ieri sera si grattava. Sentire ma non condividere, questo l'implicito su larga scala.

Ha proprio ragione Raul, ho pensato al termine della lettura. E mi è venuto in mente un esempio concreto. La mia ex fidanzata, un rapporto anche quello scivolato dall'amore all'empatia, ha smesso da qualche anno di pagare le rate del mutuo. Non guadagna abbastanza, semplicemente. Si è dunque avviata l'esecuzione giudiziaria, una formula burocratica per dire: portiamole via la casa così rientriamo del prestito. Il resto sono cazzi suoi, si arrangi.

Che è quanto lei ha fatto, si è arrangiata, ma un attimo prima del fatidico marciapiedi, sui cui stava per finire. Ha quindi trovato una ventina di persone che, chi pochi spiccioli chi diecimila euro, le hanno prestato il denaro per trattare la procedura di saldo e stralcio con la banca, l'ho gestita io per suo conto. Ma arrivati al punto – pare sia necessario per la legge antiriciclaggio – in cui andava specificata la provenienza del denaro, quelli della banca non capivano: Come i soldi glieli hanno dati i suoi amici...? Si spieghi meglio, non ci è mai capitata una cosa del genere.

Questa forma di solidarietà, di simpatia autentica, diciamo pure affetto tra persone non legate da vincoli formali, era per loro inaudita, non rientra nell'esperienza contemporanea in cui il denaro produce altro denaro. Il resto è fatica e lavoro in nome proprio.

Eppure ai tempi anche solo di mio nonno le cose andavano in modo diverso. Quando le prime foglie cominciavano a cadere e gli acini d'uva diventavano belli grossi, si organizzava la vendemmia. Tutta la contrada veniva mobilitata, un giorno si andava tra i filari di uno, il giorno successivo ci si spostava da un altro senza venire compensati, se non attraverso questa forma spontanea di do ut des. E se non possedevi una vigna? Non importa, uguale.

Come quando uno partiva per l'Australia. Si organizzava una colletta con cui racimolare il denaro necessario al biglietto per il vapore, che i suoi magri risparmi non erano sufficienti a ricoprire – altrimenti cosa andava in Australia a fare? E prima dell'imbarco un abbraccio forte e qualche salame da infilargli in tasca: Ciao, mandaci una cartolina con un canguro, ammesso che già esistessero le cartoline. I canguri penso proprio di sì.

Dopo molti anni ritornava vestito da signore e con uno strano accento, il portafogli gonfio; ma prima di sera si sarebbe assottigliato, banconote mai viste fuoriuscivano per ripagare i debiti. Oppure non tornava, si diradavano le lettere scritte da qualcun altro più avvezzo, nemmeno un canguro in cartolina, chissà che fine ha fatto... C'est la vie, che tradotto nel dialetto valtellinese diventava: l'è andada inscì.

Ora tutti sono empatici con tutti, addirittura con uno stadio intero, come fa Guardiola, ma guai a farsi carico delle pene altrui, prima viene la compensazione sul libro mastro tra dare e avere. D'altronde anche il terapeuta va pagato a fine seduta, per ottenere quell'espressione assorta e comprensiva alla Lupo de Lupis: un lupo, sì, ma pure tanto buonino.

venerdì 19 maggio 2023

Helmut Berger, o sulla verità come gesto (non sempre virtuoso)

Il rispetto è la virtù dei giusti, l'ipocrisia il vizio dei benpensanti. Tra le varie forme di rispetto c'è quella riservata all'ultimo congedo, dove a essere rispettata, in morte, dovrebbe essere l'immagine che in vita ciascuno ha voluto dare di sé.

Un'ideale carta di identità costituita dai gesti, che nella lingua ebraica fanno tutt'uno con la verità: émet, da cui l'amen pronunciato al termine della preghiera. Ma a differenza della nostra idea di verità, per gli ebrei è qualcosa che si fa, si produce nei comportamenti e nelle scelte quotidiane, non che sonnecchia quale immutabile essenza.

Se vogliamo dare per un momento credito a questa diversa sensibilità, ognuno diviene titolare di regia e sceneggiatura del proprio film; solo il montaggio viene appaltato a uno sguardo esterno, già che come suggeriva Pasolini può essere realizzato solo dopo il ciak finale, nella memoria selettiva di chi ci sopravvive.

Ricordare Helmut Berger, morto ieri a Salisburgo a settantotto anni, con le sue numerose intemperanze non è dunque irriguardoso, ma combina in approssimativa sintesi ciò che ha voluto fare della propria vita, rispettando scelte spesso estreme. Se ne volessimo restituire un santino piccolo borghese saremmo dei sepolcri imbiancati.

Vernice postuma che trovo riversata a litri tra i commenti a un post su Facebook dell'amico Fulvio Abbate, il quale rammenta una serata romana – era forse il 1988, aggiunge – in compagnia del celebre protagonista di Ludwig: “lo ricordo ancora mentre, camminando, piscia sulle maniglie delle auto parcheggiate sul lungotevere davanti all'Ara Pacis.“

Non ho difficoltà a visualizzare la scena, in cui stona l'unico dettaglio di uno strumento di minzione di dimensioni solamente normali, quando in lui tutto doveva essere eccessivo, over size. Più tardi e in anni relativamente recenti rimediò a questo suo "limite", facendosi confezionare dalla chirurgia estetica un uccellone enorme, con cui ora avrebbe potuto pisciare anche sulle maniglie dei camion.

Questo era Helmut Berger, ciò che ha fatto della propria vita e noi ci limitiamo a rispettare: riconoscendolo. Quanto al versante occidentale della verità che coincide con l’essenza, era un essere umano come tutti, di cui gli eccessi facevano probabilmente specchio alle fragilità. E comunque rispetto è anche arrestarsi alla soglia dell'intimo, non offrendo facili risposte sulle ragioni dei comportamenti, qualsiasi essi siano.

Ci sono infatti infinite ragioni – perlopiù alcoliche – per pisciare sulla maniglia di un’auto in sosta. Tutte condannabili, sia chiaro. Ma tutte vere. Perché rivelano ciò che abbiamo fatto, o, più spesso, disfatto con il nostro vivere. Quando anche la vita più sgangherata che si conclude trasmette una struggente enigmatica bellezza. E amen.

giovedì 18 maggio 2023

Le gambe delle donne e la rotta del vapore

In una celebre sequenza di L'homme qui aimait les femmes, il protagonista, Charles Denner, pronuncia la seguente frase: “Le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre in tutte le direzioni, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia”.

Ci ripensavo ieri sera osservando l’ennesimo intervento di Lucio Caracciolo; ospite in televisione faceva il punto sullo squilibrio in cui è precipitato il mondo, la sua geometrica disarmonia. E mi chiedevo: non è che tutto è cominciato quando le gambe delle donne hanno smesso di misurare il globo, spostando le punte dei loro compassi dai marciapiedi, le balere con consumazione inclusa, biciclette con il canotto basso e una mano tesa a non far svolazzare la gonna, magari queste cose ci sono ancora ma oscurate dalle bacheche di un social network? O forse sono stati i maschi a non sbirciare più le gambe delle donne, concentrati come sono sul display del proprio smartphone…

Sembra una boutade, e un po’ lo è, ma al fondo la questione è seria. Il cibo, il sacrificio e soprattutto l’eros, da anni immemori sono gli strumenti attraverso cui vengono allentati i conflitti sociali, posseggono la funzione della valvola nella pentola a pressione: panem et circenses 
e nei circhi a cui allude il motto latino venivano scannati i cristiani, gladiatori e bestie feroci si contendevano l'ultimo respiro. Se ancora non bastava, eccole lì: le gambe delle donne da guardare ma non toccare. Ogni tanto però anche sì, dai, se si sollevava la dogana del consenso.


Di quel mondo premoderno rimangono ora i cuochi stellati. Ma basteranno, per salvarci dal caos cubista, agnelli da fare al forno e guarnire con cavoletti alla Rouventelle (il termine me lo sono inventato di sana pianta, non fingete di annuire), per fortuna non più sacrificati a qualche dio che non c’è? Mentre le gambe delle donne, assieme a quelle degli uomini d’Occidente, stanno sotto al tavolo in attesa della prossima portata. Bada bene senza sfiorarsi in un malizioso piedino.

D’altronde, era stato anticipato in tempi non sospetti. Di solito così cupo e lambiccato, con inattesa e amara ironia – per una volta nella vita me lo immagino vestito con abiti di un colore diverso dal nero – lo suggerisce Søren Kierkegaard: “La nave è in mano al cuoco di bordo. E ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani.”

martedì 16 maggio 2023

Quando tu sei qui con me


Sono affascinato, lo confesso, dalle persone che su internet cercano una relazione, aggiungendo occasionale. Una relazione occasionale, sta scritto proprio così in calce al loro profilo.

Più spesso sono uomini, è forse inutile aggiungerlo. Ma ci sono anche molte donne. In entrambi invidio l'estremo e disincantato realismo, è un talento che dicono si impari con l'età. A cinquantasette anni a me continua a mancare.

Una relazione, qualsiasi relazione, è sempre occasionale, almeno questo l'ho compreso. Perfino se si tratti di matrimonio – occasione che nella circostanza si suppone lunga, ma comunque si conclude alla morte di uno dei coniugi o nell'incontro col fatidico altro, che come nella canzone di Aznavour ci trasforma in un io tra di voi.

Anteporre l'occasionalità del rapporto alla penosa condizione del rientro all'ordine monastico dell'io (da solo vedrò la pena che cresce in me, continua la canzone) è rara proprietà dei saggi, oppure dei cinici che dispongono un'uscita di sicurezza preventiva. Facce della medesima medaglia, probabilmente. La medaglia al sommo valore della rinuncia.

Rinunciando all'illusione del per sempre non è però vero che si gode dell'attimo, ma si degrada l'eternità, proiettata ingenuamente dal sentimento, a una frazione di tempo, a cui ne seguirà un altro, e un altro ancora da colmare con nuove relazioni occasionali. Che è appunto la normalità della vita, il suo senso che viene chiamato buon senso.

Ma c'è un altro senso, gli antichi lo chiamavano tragedia, in cui viene coniugato un dover essere a un non poter essere, condannandosi già da principio al fallimento. Un paradosso, insomma.

Ed è proprio grazie a un paradosso che abbiamo la descrizione più incisiva dell'illusione amorosa, si tratta di un'altra canzone scritta in omaggio al più fugace dei rapporti: quello con una prostituta.

Ma neppure in quel momento Gino Paoli, autore di musica e testo, avverte l'occasionale, non c'è ombra di transitorio in un piacere a misura di parchimetro, in cui denaro e minuti scorrono con uguale velocità. È invece come se non ci fosse niente più niente al mondo, solo alberi infiniti e soffitto viola che non esiste più. Quando tu sei qui con me, naturalmente.

lunedì 15 maggio 2023

Fabio Fazio, o sulla televisione in formato mp3


Fabio Fazio ha sempre fatto una televisione media, quella che gli anglosassoni chiamano mainstream: la corrente principale del fiume, dove fluiscono senza intoppo le acque e non si incagliano i rami spezzati; niente pericolosi mulinelli, ristagni a margine che fanno da cimitero galleggiante a bambolotti senza testa, lattine vuote come crisantemi.

Televisione media per ceti medi acculturati ma non troppo, gente che se deve ordinare a ristorante un vino chiede Brunello di Montalcino, così non sbaglio aggiungono. E non sbaglia neppure Fazio nell’accompagnare le libagioni con bocconi sapidi e di già acquisita fama culinaria – prima regola del consenso: evitare ogni rischio.

Un menu variamente composto ma sempre rassicurante, specie quando gli ospiti vengono riesumati da memorie in bianco e nero, secondo lo schema consolidato della citazione postmoderna: tra il nuovo artista emergente e Bobby Solo sempre scegliere il secondo, a meno che il primo abbia già venduto un milione di copie; copie di qualsiasi cosa, la forma prevale sul contenuto e l'identità è un concetto superato.

Un pubblico perlopiù coetaneo e in tutti i sensi complice – ah te le ricordi le biglie di plastica con cui giocare sulla spiaggia, all'interno contenevano l'immagine colorata di Merckx e Gimondi – al quale si rivolge con garbo nostalgico e ironia, leggerezza che non è sinonimo di stupidità. Tutto ciò costituisce a un tempo limite e virtù, a seconda che si intenda la conduzione svago o strumento di conoscenza, conferma del noto o scoperta del nuovo. Eliminiamo dunque anche la curiosità, un altro inutile sforzo.

Di certo il suo modo, credo naturale, di accostarsi al mondo vellicandone le superfici, lo rende più consono a una emittente commerciale, onestamente pop. Sempre che nel termine servizio pubblico sia ancora implicita una sfumatura pedagogica; pratica ambigua e arrischiata, quando Fazio non ci è mai sembrato un cuor di leone. Lui stesso ci scherza sulla propria assenza di coraggio, in ciò confermandosi una persona intelligente.

Ma c'è intelligenza e intelligenza. Paolo Conte offriva alla lei di una sua canzone "l'intelligenza degli elettricisti", mentre quella di Fazio è piuttosto un'intelligenza da taxisti  dove vuole andare signora, dove la porto?  oppure da crooner che cerca di piacere a tutti, più che da cantautore impegnato e spigoloso. E il gioco del se fosse potrebbe andare avanti all'infinito: se fosse un animale Fazio sarebbe un'iguana, che si mimetizza e adatta all'ambiente.

Peccato che il giornalismo sia un'altra cosa. Insieme a ogni argomento od ospite, un cosa potremmo dire, nel giornalismo viene infatti veicolato un come, ossia un'interpretazione discrezionale e moralmente situata del mondo. E questo come, per Fazio, è sempre stato un come non scontentare nessuno, come essere quella persona per bene che probabilmente è: non offende, non disturba, non mette in imbarazzo l'interlocutore.

Se penso a due conduttori che gli somigliavano mi vengono in mente Corrado e Raimondo Vianello. Entrambi erano lievi e spiritosi, ma, come giusto, furono tra i primi a dirottare sulle reti Mediaset, dove il loro talento leggero trovò riconoscimento popolare e solido successo. Anche Claudio Lippi possiede qualcosa che lo ricorda, ed è un peccato che non faccia più televisione.

Perciò l'imminente congedo dalla Rai di Fabio Fazio non mi sembra la tragedia di cui molti tuonano, pur non sfuggendomi le ragioni – brutte ragioni politiche di tale scelta. Può essere in ogni caso rubricato tra le notizie irrilevanti. Come irrilevanti, per informazione e cultura, sono stati i suoi numerosi anni in Rai, in cui bisogna aggiungere che non ha mai preteso niente che non gli spettasse. Poco importano infatti i suoi compensi a molti zeri, il suo lavoro l'ha sempre fatto con zelo geometrile, non lasciando mai nessun numero al caso. E venendo così ripagato da ascolti e pubblicità.

Ricorderemo con simpatia i siparietti satirici con Luciana Littizzetto, o alcune belle stagioni di Quelli che il calcio, dove lo svago era messo a tema senza ulteriori ambizioni. In quel caso la medietà stava nel registro discreto, più che in un'informazione sul modello dei file musicali nel formato MP3, dove vengono sfrondate le frequenze più alte e più basse. Rimane nuovamente ciò che sta nel mezzo, ma basta e avanza quando vuoi sparare nei timpani del mucchio.

D'altronde non è una perdita, un lutto, e piuttosto una ricollocazione all'interno di un possibile televisivo ampliato negli anni, complici le piattaforme di streaming e altre diavolerie tecnologiche che hanno nel frattempo moltiplicato i canali. Su uno di questi, probabilmente Discovery, quando lo incroceremo lo guarderemo sempre con piacere. Per svagarci. Non per capire un po' di più il mondo e la sua complessità.

sabato 13 maggio 2023

Psicanalisi e prostituzione, o sull'amore fuori legge


La psicoanalisi è un rapporto tra due persone, prima che una terapia di dubbia efficacia. La particolare forma psichica che prende quel rapporto, come noto, nel caso del paziente viene chiamata transfert, e controtransfert la risposta emotiva del terapeuta. Ne parlava Nicole Janigro, analista junghiana a indirizzo mitobiografico, in una interessante conferenza che ho seguito nella mattina di domenica.

Ho scritto seguito e non partecipato perché la modalità di fruizione era a distanza, stavo seduto davanti al computer e non di rado mi alzavo per andare a prendere qualcosa in cucina. Così, confesso, un po' ascoltavo, un po' mangiucchiavo more di gelso e biscotti al grano saraceno, controllando di tanto in tanto le mail e infine mettendo le goccine anti zecca al mio cane, un Hovawart di sei anni di nome Mela.

Non posso dunque dire di avere colto tutto – oltre un secolo di riflessione clinica compresso nel tempo di una partita di pallone – ma mi ha colpito l'ipotesi di Janigro, che vede in quei due termini (transfert e controtransfert) dei sinonimi solo un po' particolari dell'amore, a cui stanno come in insiemistica l'insieme minore sta al maggiore; non a caso, l'incontro iniziava con alcune immagini riprese dal vasto repertorio artistico del mito di Amore e Psiche.

In altre parole, analista e analizzato, se l'analisi funziona, amorevolmente risuonano, con tutti i rischi e tranelli che la condizione comporta, e da cui il mito ci mette in guardia. Meglio che non guardi troppo bene chi ci sta dall'altra parte, sembra suggerirci Apuleio, se vuoi evitarti un bel po' grane. Ma anche l'happy end finale, che in analisi corrisponde alla risoluzione del sintomo.

Il primo rischio, ho pensato dopo avere terminato di spremere la pipetta di Advantix tra il folto pelo di Mela, è quello di essere scoperti. Eh già, perché l'amore in questione è un amore illegittimo, di più, fuori legge, che ci impone di soffocare ogni impulso all'azione. Un amore inagito, per dirla alla maniera degli psicoanalisti a cui piace parlare difficile.

Ma io questa cosa qui la conosco già... Si trascorre un'ora scarsa con una persona (non è un parente, un amico, un compagno di lavoro; è un estraneo o più spesso un'estranea), e in quella frazione di vita si possono dire e fare un mucchio di cose, tranne baciarsi sulla bocca. Quando termina la sabbia nella clessidra uno dei due tira fuori qualche banconota stropicciata, e avanti un altro – a nessuno stanno ronzando le orecchie?

Massì, è la prostituzione!

D'altronde nei rapporti con una prostituta non bisogna sorprendersi se si manifestano dei sentimenti; più spesso vengono provati dal cliente, ma non di rado anche in chi offre il proprio corpo a cottimo. Lo stesso vale per il piacere fisico: mica vero che venga per forza simulato, sebbene rientri in quel galateo omertoso che rende i maschi perennemente incerti: Allora, bene... sei stata bene cara?

Ma la relazione tra i due possiede un limite, non è possibile valicarlo, diventare una coppia alla luce del sole. Credo sia la ragione per cui la prostituzione è una pratica di successo che non risente delle mode stagionali, guadagnando il titolo di mestiere più antico del mondo: tutto è vero e tutto è falso, allo stesso tempo.

I paradossi fanno girare la testa, nel nostro caso l'effetto è ottenuto attraverso ciò che in psicoanalisi viene chiamato rimozione: un artificio della psiche che Bergman ha magnificamente metaforizzato nel gesto di spazzare la polvere sotto al tappeto. Non si tratta però di una psiche individuale, e, senza scomodare il concetto specialistico di inconscio collettivo, mi affiderei alla proverbiale leggerezza mozartiana del così fan tutte, o più frequentemente tutti. E tutti lo tacciono al rientro a casa dalla moglie.

C'è perfino qualcosa di perversamente evangelico in questo non sapere, con la mano sinistra, cosa abbia fatto la destra, ricollocando l'eros sull'immaginaria soglia che separa scena pubblica da oscenità privata. Un luogo a margine, un'isoletta in cui venivano confinati i dissidenti politici, un limbo anarchico che Lacan chiama reale.

Il nome scelto dal grande psicoanalista francese lo trovo discutibile (il reale lacaniano non c'entra niente con la realtà, ossia con la radice latina res, che indica le cose tangibili e certe), ma geniale è la sua intuizione: l’autenticità psichica si offre in forma di evento; i confini angusti del linguaggio non riescono a contenerlo, quindi incasellarlo nei precetti di una legge iscritta su tavole verbali. Da qui l'altra idea di Lacan sull'inconscio strutturato replicando la struttura discorsiva, la cui polarità opposta è costituita dal muto accadere. Reale è dunque ciò che si può solo vivere, mai addomesticare in pettegolezzo.

La relazione con una prostituta, più che infrangere, iper-realizza la piccola meschina legge borghese, ne è il risvolto epifanico e di conseguenza provvisorio. Niente santa messa assieme la domenica mattina. Niente pasticcini acquistati all'uscita per i pargoli, che attendono a casa con i nonni. Solo alberi infiniti quando tu sei qui con me, come cantava Gino Paoli in una canzone non a caso dedicata a una prostituta. Ma quando non sei qui con me viene ripristinato quell'ordine senza il quale saremmo sopraffatti dal caos degli affetti.

Allo stesso modo, la relazione di transfert e controtransfert analitico è "reale" nel suo non potersi realizzare mai, già che è grazie al contenimento che ebolle in potenza generativa, un distillato alchemico in grado di contribuire alla trasformazione del paziente. La guarigione è infatti evento indicibile al di fuori del setting terapeutico, montagne di libri vengono sopraffatti dalla pratica; la teoria è solo il bastone di accompagnamento, senza le gambe nulla.

Di nuovo ci viene in soccorso l'analogia: se in analisi l'unico parziale rischiaramento giunge da maturi signori in panciotto e occhiali tondi che forse fumavano un po' troppo, nella prostituzione è la luce fioca e tremula del neon di un distributore di benzina, ad accompagnare la danza lenta di un pompino. Due semioscurità dove ci si muove per intuizione ed esperienza.

Ma se terminato l'evento erotico l'ordine del mondo viene ripristinato (chiavi nel cruscotto, motore acceso, anabbaglianti e uno svelto saluto), secondo Janigro anche nell'analista abbiamo una trasformazione, per quanto mai ce lo confesserà. D'altronde è un tabù, quel bacio a cui si dispone la mente inconscia ma le labbra non offrono, rimanendo più serrate della porta di un bagno quando ti scappa la pipì.

Che cosa complicata l'amore... ho concluso allungando una mora di gelso, da lei schifata, e quindi un biscotto di grano saraceno a Mela, quest'ultimo ingoiato in un sol boccone. In una manciata di minuti che iniziano con la proverbiale frase mi racconti i suoi sogni o trenta di bocca cinquanta l'amore, possono dischiudersi mondi sentimentali arrischiati, mondi fuori legge come in quelle coppie che tanto ci piacciono quando andiamo a cinema: Bonny e Clyde, Martha Beck e Raymond Fernandez, Silvio Berlusconi e Ruby Mubarak...

A differenza loro, noi non abbiamo però il coraggio di uscire definitivamente dalla legalità, il biglietto è di andata e ritorno – siamo turisti e non viaggiatori, perfino quando ci avventuriamo al fondo della nostra anima –, in un tour guidato nel quale portiamo un gomitolo di lana da srotolare all'ingresso del labirinto. Perché è forse questo il mito amoroso per eccellenza, non Amore e Psiche. A ricordarci che non siamo dèi, e l'amore umano è un troppo da cui la stessa sopravvivenza viene minacciata.

Perciò ci vuole una regola che lo contenga, anelli di fidanzamento, rituali nuziali e ghigliottine cronometriche sulla scrivania in mogano degli analisti, che recidono sul più bello una libera associazione o un pianto catartico fuori tempo massimo; da un'altra parte del medesimo sogno occidentale, giovani donne slave si rimettono in un secondo gonnelline che avevano fatto scivolare a mezza gamba, per fare prima nel dopo. Così corte non le si vedeva dai tempi della Swinging London.

Ma possiamo comprendere entrambi, e non solo perché c'è già il nevrotico o il border line seguente che bussa alla porta, l'arrapato che abbassa il finestrino e chiede Quanto prendi, bella? Piuttosto è l'assenza di un codice normativo per i sentimenti a suggerire di non arrivare fino in fondo, dove potremmo incontrare il muso arruffato del Minotauro, il suo ringhio mostruoso. Scoprendo che somiglia a una vecchia fotografia, ci ritrae riflessi nell'oblò di una nave mentre salpa.

E allora si fa quel passo indietro che fanno i toreri prima di affondare lo stocco nella carne viva, quei due passi indietro che fanno gli psicoanalisti a e le psicoanaliste, a cui guai provare a sfiorare un seno. Due facce della stessa medaglia, come si dice. Una medaglia al valore della prudenza. Anche se quando ho suggerito il parallelo a Nicole Janigro mi guardava un poco storto... Ma forse è solo un mio transfert.