domenica 12 febbraio 2023

Sono tornate a fiorire le strade

Bene. È finito. Non l'ho visto, e proprio per questo sento di avere le competenze per parlarne. Negli anni '70 e '80 (poi non so) Sanremo veniva percepito come un oggetto inattuale e bizzarro buone cose di pessimo gusto avrebbe detto Gozzano – dalla frammentata galassia dei giovani, a cui per privilegio anagrafico, più che autentica vocazione al nuovo, ero associato. Anche quando si trattava di canzoni bellissime che potevano appartenere ai Mattia Bazar, Drupi, Anna Oxa, Mietta e Minghi ecc., comunque erano caratterizzate da tratti melodici e di bel canto, riferibili a una tradizione da noi vissuta come estranea; era il mondo dei padri, il loro stigma estetico a cui ribellarsi.

Lo specchio, non importa se un po' appannato, in cui trovare traccia del nostro volto, andava dunque ricercato fuori dal palco adornato da primizie floreali dell'Ariston, armati solo dell'infallibile bussola costituita dalla formazione reattiva – detto in parole semplici: se una canzone era bella per Sanremo non doveva esserlo per noi, una questione di principio prima ancora che un'esperienza sensoriale (ovviamente ci prendevamo spesso delle cantonate, Perdere l'amore o Maledetta primavera erano, e rimangono, dei capolavori assoluti).

In altre e più rare occasioni capitava in quel contenitore qualcosa di eccentrico, vite spericolate, come quella di Vasco Rossi, che sbagliavano la strada per il Roxy Bar e finivano nel ponente ligure con un microfono in mano. Già che erano lì, tanto vale cantare qualcosa. Ma erano comunque canzoni consegnate ai margini inferiori della classifica, se non escluse prima dell'ultima serata. Esisteva insomma ciò che i filosofi chiamano dualismo epistemologico: la verità dei vecchi e la verità dei giovani. I quali, come giusto, dovevano compiere una propria quest, intraprendere un cammino di ricerca sostenuto dal bastone del passaparola, per trovare infine dei modelli di riferimento musicale autonomi, che spesso erano modelli tout court.

Confesso che alcuni testi di Paolo Conte oppure Francesco De Gregori, Lou Reed, Leonard Cohen mi hanno segnato più delle letture scolastiche di Pascoli e Leopardi, e non vado certo orgoglioso di questa gerarchia. Ma a scuola tutto era già cotto e servito e perfino forzato in gola, se alla maniera di un tacchino sazio ti rifiutavi di aprire il becco. Potremmo guardare a Sanremo come a una forma di didattica a distanza ante litteram: bastava, e basta ancora, accendere il televisore per assimilare passivamente suoni e parole. Mentre con Perfect Day l'accidentalità della scoperta (a cui si era accompagnata quella della sangria che Lou Reed sorseggia al Central Park) ne ingigantiva la perfezione complice la dritta del mio amico Federico, che come mentore trovavo più attendibile di Pippo Baudo o Mike Bongiorno.

Ciò che oggi mi procura imbarazzo è la sostituzione dell'inattualità di Sanremo a favore di un presente assoluto che fagocita il passato, i Maneskin ne sono plastico emblema: bravi sono bravi, ma a fare cosa? Citazioni dall'epopea glam. Mossette trasgressive e ampie porzioni di epidermide. Integrazione rassicurante dell'osceno. Un format giovanilistico, più che autenticamente giovane, nel quale vengono ricomposti i lembi anagrafici più distanti come potrebbe fare una cerniera
, a unire disposizioni postume e anteriori alla vita, che per definizione è sempre altrove. Ciò che li unisce è la subentrata incapacità di prendere le distanze, come avveniva quando mio padre ascoltava per sbaglio un brano dei Sex Pistols, e subito girava stizzito la manopola dell'autoradio. Non male dicono invece i miei coetanei dal divano da cui guardano l'esibizione di Blanco assieme ai figli adolescenti; certo: poteva risparmiarsi di infierire sulle rose...

Un'istantanea di conciliata intimità familiare, un Natale senza albero né presepe che sancisce l'armistizio tra le generazioni o, a ben vedere, la sconfitta di entrambi i fronti, accompagnata dalla sigla finale della dialettica come motore della storia, canzonetta con cui la biografia diviene per conto terzi e non più in nome proprio. Tutto ciò mi riporta a tempi e canzoni diverse, dove era già presente in forma di dolente profezia. Così Francesco Guccini, era il 1996:

Son tornate a sbocciare le strade
Ideali ricami del mondo
Ci girano tronfie la figlia e la madre
Nel viso uguali e nel culo tondo.

In testa identiche, senza storia
Sfidando tutto senza confini
Frantumano un attimo quella boria
Grida di rondini e ragazzini.

mercoledì 8 febbraio 2023

Post Addiction Syndrome

Prologo

Ho il timore di avere sviluppato la sindrome del sopravvissuto a una dipendenza, che a suo modo è una nuova malattia: ex fumatori, alcolisti, drogati, giocatori d'azzardo ecc. Tutta gente che, rispetto alla propria precedente condizione, matura in seguito un sentimento di astio, supponenza verso chi ancora ne è coinvolto. Per farla breve, diventano odiosi.

Primo tempo

– Che cosa ci troverete... – disse un cuoco rivolgendosi con la voce, ma non con lo sguardo e la postura del busto, a me e a un amico, stavamo seduti accanto sugli sgabelli di fronte al bancone del Bar Piero. – Mah, contenti voi.

Sulle prime non capimmo. Fu lui a indirizzare l'interpretazione della frase sibillina, gettando un'occhiataccia di spregio ai nostri calici vuoti. Il barista, che non si chiama Piero ma Mileo, stava versandoci dell'ottimo Riesling delle valli renane. Quindi continuò rivolto al nulla: – D'altronde anch'io un tempo... Che scemo che ero. Ma poi ho capito. E ho smesso.

– Hai smesso di bere? – chiese il mio amico dopo avere dato una lunga sorsata al suo Riesling. Fresco, fruttato, con un leggero retrogusto minerale e di idrocarburi. Idrocarburi?! Così sta scritto, ma al Bar Piero si guarda più che altro alla sostanza. Quella a cui subito venne il cuoco.

– Ebbene sì – rispose finalmente guardandoci in faccia. – Ero arrivato anche a una bottiglia di vodka al giorno, più tutto il resto. Ma ve ne accorgerete, ve ne accorgerete...

La frase sfumò in un minaccioso risolino, presto sostituito dalla materializzazione del suono in posa silenziosa delle labbra. Un rictus di serafica compostezza, Buddha in meditazione sotto l'albero della conoscenza, mummia che dal regno di Anubi osserva chi trascina i pesanti blocchi con cui costruirgli il giaciglio piramidale.

– E da quanto hai smesso? se posso permettermi – intervenni io infrangendo la lunga pausa, il tono era quello di chi risponde furtivamente al telefono in chiesa.

– Una settimana.

– Ma vaffanculo! – esclamammo in coro io, il mio amico e pure Mileo, a cui un giorno devo ricordarmi di chiedere perché il bar invece si chiama Piero.

Secondo tempo

Sappiate voi che state seguendo Sanremo e intanto commentate, chiosate su Facebook, ci tenete a mantenermi aggiornato sulle performance di Blanco e l'outfit della Ferragni, la sua letterina al sé bambina boicottata (nell'attenzione maschile) dai capezzoli che fanno capolino sul trompe l'oeil dress di Dior color musino di criceto, sappiate che io Sanremo l'ho sempre sorbito fino all'ultima goccia di Dopofestival, perlomeno da quando avevo dieci anni in poi.

Mi sono pure incazzato quando Amedeo Minghi, con quel capolavoro assoluto che è 
1950, non arrivò neppure in finale, venne eliminato come uno Scialpi qualunque. Era la stessa edizione in cui Vita spericolata di Vasco Rossi si piazzò al penultimo posto davanti a Pupo con Cieli azzurri, mentre a vincere fu Tiziana Rivale, Sarà quel che sarà la canzone. Un titolo che le si ritorse contro in forma di profezia.

Ma a tutto c'è un limite! Quest'anno no, proprio non ci riesco. Nemmeno a leggere i vostri commenti. Mi viene un misto di voglia di pigiare col telecomando su Rai1 (nostalgia, nostalgia canaglia...) e sensazione di essere sul punto di vomitare, menare pugni a casaccio ogni volta che qualcuno nomina Sanremo. Cosa che sui social avviene, come minimo, in un intervento su due, nemmeno gli amici su WhatsApp mi risparmiano.

Conclusione

Non chiedo dispense né pietà, beninteso. Come recita la battuta di quel film: continuiamo a farci del male... Ma in ogni storia o cucina si nasconde un cuoco che sta cercando di smettere di bere – ah, per la cronaca: dopo una decina di giorni il nostro aveva già ripreso con la vodka. Io forse anche prima, con lo Zeitgeist nazional-pop-terminale. Ma, per i prossimi quattro giorni, il ruolo di cuoco ex alcolizzato spetta a me, e con Sanremo questa volta non mi tirate dentro. Deve pure esserci un plafond anche nella caduta degli gnostici, un amor proprio che arresta il piede a un passo dal burrone.

Ci risentiamo lunedì per commentare la foto di qualche gattino tenerino, selfie ammiccante, copertina di libro o insulto politico o personale. La normalità, insomma. Salute, prosit, cin cin.
 

lunedì 6 febbraio 2023

3243

Dal mio profilo Facebook risulta che ho 3243 "amici". Con una ventina, forse trenta ma non di più, ho avuto qualche scambio, mentre con meno di dieci ci siamo inviati dei messaggi privati; qualcosa che in effetti si avvicina all'amicizia, perfino all'affetto in un numero ancora minore di casi. Sono dunque felice di avere incrociato queste persone, nonostante, perlopiù, il rapporto sia rimasto virtuale. Ipotesi di uomini e di donne, come cantava Vecchioni nella sua Lettera da Marsala.

Il problema sono i restanti 3213, vado a spanne. Verso un 5% scarso (un centinaio di persone, via) provo interesse, a volte anche erotico, oppure invidia per l'intelligenza o cultura o sensibilità, nella peggiore delle ipotesi sono curioso. Quando mi capita leggo dunque volentieri ciò che scrivono – raro che lo vada cercare, mi sembrerebbe di tradire la natura di accadimento dei social –, e sia che mi trovi d'accordo sia che dissenta, mi emozioni, incavoli, non è mai tempo perso.

Vi è poi un 45% verso cui subentra una sana e fisiologica indifferenza. Siano parole, citazioni, immagini o video prelevati da YouYube, la sensazione è quella di quando osservo la vetrina di un negozio di sigarette elettroniche. Non fumo. Tutto qui. E per concludere il rimanente 50%, da cui fortuna vuole che l'algoritmo Facebook mi tenga a debita distanza; quasi nulla so del loro contributo al banchetto, come adornino le portate da riversare nella mangiatoia comune. Ma nelle occasioni, non poi così infrequenti, in cui ne intercetto qualche boccone, avverto una repulsione immediata, viscerale. Massì, diciamolo pure: mi stanno sul cazzo.

E stiamo parlando di amici, ricordo, non di nemici, infedeli da passare a fil di spada, una bella crociata per ricacciarli fuori dall'orizzonte ottico. Penso allora a cosa succederebbe se mi stesse sul cazzo il 50% delle persone che incontro per strada, oppure su una spiaggia affollata a luglio o ad agosto...

Invece non è così. Nel secondo caso, come scriveva Antonio Delfini, vederli uscire dall'acqua gracilini, un pallore da crema solare 100, oppure abbronzati e muscolosi, pieni di tatuaggi o, ancora, con floride tette al vento, mi procura un moto istintivo di simpatia, che lo stesso Delfini attribuiva alla percezione fraterna di una vulnerabilità, a fare da specchio a un medesimo destino: la loro, la mia, qualsiasi vita proviene e infine si spegne in quel mare. Ma aggiungerei anche – lo scrittore modenese lo taceva – l'assoluta e reciproca ignoranza dell'interiorità, che solo possiamo immaginare sotto le carni esposte.

Su Facebook siamo invece tutti immortali, le parole scritte ci sopravvivranno, e l'interiorità viene estroflessa come un cucciolo di canguro terminato lo svezzamento nel marsupio, subito saltellandoci incontro per raccontarci come si stava là dentro. Sarà per questo che, una volta su due, magari riguarda proprio te che in questo momento mi stai leggendo e avverti nei miei confronti lo stesso bilioso sentimento, non ci sopportiamo, la conoscenza disunisce invece di conciliare. Ci odiamo, addirittura!

Ma siamo talmente smaniosi di battere un colpo, ehilà, ci sono anch'io, da preferire l'odio al pudore, un like a centinaia di taciti vaffanculo. E sì che basterebbe un poco di astinenza, contare fino a dieci prima di condividere i nostri pensieri e canguri; più canguri che pensieri in effetti, per parafrasare il titolo di un bel libro di Aldo Busi. O forse è solo l'antica obliata virtù di chiudere il becco.