martedì 29 marzo 2022

Tu chiamale se vuoi, emozioni

 


Detournement era la parola chiave dei situazionisti, il loro manifesto programmatico. In italiano potremmo tradurre con deviazione; ma anche scarto di lato, diversione, abbandono della retta via – quell’autostrada in cui basta prendere il biglietto e poi accendere l’autoradio –, per quella piccola e incerta, che si snoda tra paesini a volte nemmeno segnati sulle mappe.

Leggendo la quantità di commenti (su giornali, social, ovunque) riguardo lo sberlone che Will Smith ha assetto a Chris Rock durante la cerimonia di assegnazione degli Oscar, ho pensato subito a quel termine: detournement. Nel mio caso, lo scarto laterale è dal piano etico a quello linguistico, quindi logico.

Tutti parlano di tutti, per cominciare. O perlomeno così si sente la pluralità dei commentatori: un Don Chisciotte che ha contro di sé il mondo intero. Solo che ci sono dei tutti che rimproverano agli altri tutti di non biasimare, come fanno loro, il gesto di Will Smith, a cui viene risposto pan per focaccia: lo schiaffo è pienamente legittimo, addirittura sacrosanto: ha difeso la propria donna, e che cavolo! Ma con lei pure la dignità di tutti i deboli (di nuovo questo pronome, tutti) vessati dai forti.

Il problema è che tutti significa tutti, una sola eccezione lo trasforma in moltissimi, e a scalare molti, tanti, qualcuno ecc. Entriamo così nel regime semantico del paradosso, ad esempio quello del mentitore così espresso da Epimenide di Creta: “tutti i cretesi mentono”. Ma come, se anche Epimedide è un cretese non potrà dire la verità… Quindi l’affermazione è falsa. Ma se è falsa Epimenide sta dicendo il vero, dunque tutti i cretesi mentono, e non se ne esce più.

Nella circostanza, se tutti sono contrari al comportamento di Will Smith, chi sono i tutti che ho incrociato io, i suoi numerosi difensori... Come è possibile? Forse per avvicinarci alla verità, ma una verità con l'iniziale minuscola, bisogna compiere un nuovo detournement, e passare dal piano della logica a quello della psicologia. A tutti piace sentirsi diversi da tutti gli altri: originali, brillanti, gente che dice le cose come stanno. “Gliele ho cantate sul muso”, come si dice.

In questo caso il “muso” è quello sghignazzante di Chris Rock, il quale credeva di poter scherzare, anche lui, su tutto, compreso la malattia. E lasciando provvisoriamente perdere che magari non ne fosse informato –  dell'alopecia di cui soffre la moglie di Smith, forse pensava al suo cranio glabro come a un nuovo eccentrico look.

E così si ingarbuglia il filo del discorso, in forma nuovamente interrogativa: perché tutti, i tutti che in nome di valori quali dignità, onore, rispetto di fragili e diversi plaudono allo schiaffo in mondovisione, non hanno risposto con la stessa indignata sollecitudine quando Maurizio Crozza irrideva la statura di Brunetta? In fondo, sul manuale Cencelli del politicamente corretto, un handicap fisico vale più di un'alopecia...

Oppure, qualcuno si ricorda dell’imitazione che Teo Teocoli faceva di Ray Charles? Con degli occhiali scuri girava sul palco a tentoni fingendo di non trovare il pianoforte. E giù tutti, davvero tutti a ridere. Ci sono poi stati i siparietti sul trapianto di capelli di Berlusconi con relativa bandana (fosse anche quello un caso di alopecia…), Benigni che si prende burla dell'obesità di Giuliano Ferrara e della gobba di Andreotti, altri hanno satireggiato sulle labbra di Valeria Marini frutto di un intervento chirurgico non proprio riuscito. Disagi fisici, minorità, probabili sofferenze. Ma anche tante, forse troppe risate.

Ci sono infiniti episodi del genere, la satira è sempre stata un poco stronza (“In fondo, era solo una tartaruga” titolò il foglio satirico Il Male nel giorno della morte di Ugo La Malfa), e ogni stronzata si crede abbia diritto di cittadinanza, almeno quando indirizzata a un personaggio pubblico qual è senza ombra di dubbio Jada Pinkett Smith, moglie difesa con manone da cestista dal più celebre marito.

Dunque mi sto iscrivendo anche io al club del tutti che contestano Will Smith, giusto? Non proprio. Il fatto che qualcosa sia accettato per consuetudine – in questo caso la satira – non significa che sia anche bello, oppure buono. Legittimo magari sì, ma la virtù è altra cosa. Gli esempi che ho citato e, in particolare, l'irrisione della statura di Brunetta, li trovo odiosi, e se fossi stato nella moglie di Brunetta avrei aspettato Crozza nel camerino: con un randello.

Avrebbe potuto comportarsi alla stessa maniera anche l'attore pluripremiato, invece di salire sul palco e aggiungere spettacolo a spettacolo, kitsch a kitsch; attendere il rivale di fuori per risolvere la faccenda con le maniche della camicia risvoltate, alla vecchia maniera. E così le possibilità in cui schierarsi si moltiplicano: non solo fare o non fare, ma anche fare dopo, dilazionare il lavaggio dell'onta subita. E ciascuna mi appare possedere un aspetto condivisibile, e uno da rigettare.

Il guaio è che ciò che trova il mio assenso non si oppone a ciò che avverto come stridente, ma vi coincide in una moltiplicazione del paradosso di Epimenide. Nella circostanza, la difesa di quel che ti è più caro, della ferita da proteggere e medicare a cui si giustappone la sua sguaiata esibizione, in un gioco al massacro che ricorda i freak show dell'Ottocento. Se però questa nobilissima arte della cura prende forma di aggressione, abbiamo il suo rifiuto; e per quanto si trattava solo di un ceffone, riportiamo le cose alla loro misura. In ogni caso è quella porzione del vero che, come le due parti sinuosamente ricomposte nel simbolo del Tao, rigetta ogni forma di violenza, fisica o verbale. Tra cui quella di Chris Rock.

Un intrico di gesti espliciti e impliciti, sfumature, sottotracce che alla fine ci fa concludere con il verso di una canzone di Battisti: “tu chiamale se vuoi, emozioni”. Quelle che avrà certamente provato Will Smith nel sentire la malattia della moglie oggetto delle grasse risate che riescono a sgorgare solo dalla gola degli americani. E così è salito sul palco. Ha fatto quel che ha fatto. Poi è tornato al suo posto strillando qualcosa, sedendosi l’ha nuovamente sillabato: "Keep my wife's name out of your fuking mouth!"

È giusto? È sbagliato? A me è sembrato semplicemente umano, talmente umano da risultare una specie di specchio, a spiegazione parziale della quantità di commenti che si sono spesi. Ma si sa che la nostra specie non sempre offre il meglio di sé, né tantomeno il giusto.

 

lunedì 28 marzo 2022

Non gioco più


Oggi mi è venuto in mente il quiz che si faceva da bambini del
se fosse: se fosse un animale, se fosse una città, se fosse una pietanza… Nel mio caso, se fosse una canzone, sarebbe una canzone di Mina. Nemmeno ne ricordo il titolo, solo che, a un certo punto, tira le sillabe lunghe lunghe, mentre dice: “non gioooco piùuu, mee ne vaaadooo…”

Poi ho controllato, è proprio quello il titolo, la prima parte. E ho capito che quel titolo e ciò che segue stavano cercando di dirmi qualcosa. Mi capita spesso con le canzoni, Freud avrebbe dovuto inserirle tra gli atti mancati e i lapsus: mi trovo a canticchiare un motivetto e solo dopo scopro che è nascosta la risposta a un problema, come quel mio amico a cui ho sentito intonare "son contento di morire ma mi dispiace". Sua moglie, più tardi, mi ha rivelato che gli avevano diagnosticato un tumore ai polmoni con metastasi diffuse. Lui però non sapeva ancora nulla, le parole della canzone gli venivano da sole alla bocca.

Non gioco più dunque, me ne vado  ma da dove, se da due anni sono sempre chiuso in casa? Dai social ad esempio, forse dovrei allontanarmi da Facebook, almeno per un po'. Lasciare andare il mio profilo come una bottiglia vuota nell’oceano. Alla deriva.

Tutto ciò che ho pubblicato negli anni rimarrebbe compresso al suo interno, qualche sbirciatina distratta da un polpo di passaggio, gli animali marini più intelligenti dopo i delfini, che di certo avranno di meglio da leggere; comunque non gli darò fuoco come intimò di fare Kafka a Max Brod. O secondo un paragone più commisurato, un gratta e vinci in cui non sono uscite le tre stelle d'oro. Carta straccia. In effetti lo è tutto ciò che scriviamo sul web: dopo un giorno, massimo due ed è buona per la stufa.

È possibile che nel futuro mi venga di nuovo la tentazione – si ritorna sempre sul luogo del misfatto –, ma in forma più intima e meno accalcata; non ci sarà bisogno della selezione del buttafuori all'ingresso, penso a qualcosa di più discreto del privè del Billionaire. Penso a un nuovo profilo social, sì, un ricomincio da tre o quattro contro gli attuali 3171 contatti, con cui perlopiù convivo con reciproca indifferenza, siamo seduti fianco fianco alla maniera di passeggeri su un treno. Ed eccola la nuova canzone che viene a soccorrermi: "ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, e ognuno in fondo perso dentro ai fatti suoi..."

La con-versazione di cui parlava Leopardi, quel procedere fraterni nella stessa direzione (verso), si traduce così nella gara a chi emette con la voce il maggior numero di decibel (versi, da non confondere, o forse sì, con quelli dei poeti, di cui i social sono divenuti la riserva indiana), a chi strilla di più per farsi sentire dal conducente, a cui per definizione è vietato parlare. 

Diversamente, scopriremmo che alla guida del convoglio non c'è nessuno, i vagoni avanzano per inerzia come in quel film diretto da Končalovskij e ambientato in Alaska, in cui tra distese di neve e fusti d'albero ischeletriti dal gelo, un altro treno correva verso il nulla. Ma ciò non dissuade i passeggeri dal vociare, al contrario, e non c'è urlo più fragoroso di una scollatura dischiusa con noncurante casualità, o l'attacco, sarcastico, al nemico di turno: "Gliele ho cantante sul muso, dai che facciamo branco e gliele cantiamo ancora più forte!"

O chissà che per pigrizia non ripeschi la vecchia bottiglia, chiedo preventivamente scusa al polpo per avere interrotto la sua ispezione ai reperti di una specie tanto bizzarra, che invece di nuotare scrive la parola nuoto. Ma sarà maggiore la parsimonia nel rabboccarla, minore la dissipazione di parole e tempo, soprattutto tempo che come recita l'ennesimo dono dell'inconscio canoro: "c'è tutto un mondo intorno che gira ogni giorno", e questo diorama semplificato me ne ha distolto troppo spesso lo sguardo. Però con calma, non c’è fretta. Lasciatemi godere il naufragio.

Alle poche persone con cui ho interagito e alle pochissime a cui ho voluto bene – perché è accaduto anche questo, nell'infinita combinazione di alfabeto e immagini: di gattini, tramonti, corpi, copertine di libri, volti, ma più che altro volti immaginati, può succedere –, a tutti voi auguro buona continuazione.

Con qualcuno ho fiducia che ci rincontreremo. Meglio se al tavolino di un caffè, in una giornata di primavera, con due bicchieri quasi fosforescenti di pastis. Sembrerà di stare in una pellicola di Rohmer, in cui le ragazze indossano abiti di cotone a fiori e per fermare i lunghi capelli arruffati infilano una matita, una di quelle mezzo rosso e mezzo blu. L’hanno distolta dal disegno che stavano schizzando sul tovagliolo di carta.

Quanto a me, sento il bisogno di fare lo stesso: interrompere quel disegno caricaturale (la caricatura di me stesso, beninteso) a cui mi sono dedicato per troppo tempo, ma scarsa consapevolezza dei limiti; del mezzo, prima ancora che i miei. Quindi guardare in faccia la persona che mi si presenterà in camicia bianca e farfallino nero, un vassoio in mano:

“Buongiorno, sono il cameriere.”

A quel punto potrò ripetere la battuta che sogno di pronunciare da anni, poco importa se, in un bistrot affacciato a un boulevard su cui sfrecciano Renault Dauphine e Citroen DS, l’ha già detta Jean-Paul Sartre: “No, Lei non è il cameriere: Lei fa il cameriere. Non si confonda a questo proposito.”

E così nessuno di noi è la miniatura incazzosa o saccente o ammiccante o moralista o gigiona o corporativa (i cantanti d'opera se la fanno con i cantanti d'opera, gli scrittori con gli scrittori, i radiologi con i radiologi e i nani del circo con i nani del circo) che risulta scorrendo le bacheche di un social netwok. Non confondiamoci a questo proposito.

Eppure, come il cameriere di Sartre, è quanto ho finito anch’io col credere: l’abitudine al fare, di continuo, lo stesso gesto, lo confonde infine con l’essere, in un'ostensione laica (prendete e mangiatene tutti) rivolta a chi ci aspettiamo aspettare solo questo da noi:

“Gradisce? Ne verso un po’ anche alla signora? Non si preoccupi, non è alcolico. È solo un frullato di opinioni personali su tutto."

"Ma tutto TUTTO?"

"Si, certo, ne dubitava? Ma con una spruzzata di imperdibili cazzi miei."

sabato 26 marzo 2022

Premio punizione, o su come i social ci trasformano in cagnacci ringhiosi


Ho avuto una visione, ogni tanto mi accade quando non capisco qualcosa; e non capisco spesso... Una visione che spiegherebbe il rincoglionimento generale a cui assisto sui social, di cui l'eccezione è conferma alla regola. Come a dire: the medium is the message.

Ma torniamo alla mia visione. Quella di un cane, un grosso cagnolone con lo sguardo dolce e le orecchie pendule, un poco mi rassomiglia. Quindi un educatore cinofilo tatuato da capo a piedi, gli sta strillando qualcosa in tedesco.

Ogni volta che il nostro cagnolone piscia sul tappeto, morde il postino, scappa al fischio di richiamo, il tatuato lo premia con un biscotto. Se invece si siede al comando "sitz" e sdraia al "platz", giù un bello sberlone.

E così dagli e ridagli – biscotti e sberloni – non ci vorrà molto per trasformarlo in un cagnaccio ringhioso, anche il più placido Golden retriver capirebbe da che parte tira il vento; una vera e propria tramontana, che ribalta gli oggetti e ne mostra il lato contrario.

Passiamo ora ai social network. Su Facebook ho scritto di recente un post in cui sembravo prendermela con quella macchietta querimoniosa a nome Alessandro Orsini; ma in realtà il tema era la struttura drammaturgica dei talk televisivi, che imbastiscono il racconto attorno alla figura di un cretino da irridere, prima ancora che un nemico da abbattere.

Questa confusione (e cioè l'impressione che anche io ne stessi ricalcando lo schema, attraverso lo scherno del povero Orsini) mi ha fruttato una sessantina di like. Di solito io viaggio molto più basso, non sono come si dice un influencer.

Due giorni dopo ho scritto un nuovo post: senza cretini, nemici, prese per il culo allo zimbello di turno. Solo il tentativo più articolato e, diciamo pure, migliore, di ragionare sul presente, muovendo dalla battuta contenuta dentro a un film di Godard. Like ottenuti: 6. 

Attenzione, non è una geremiade in stile Orsini, ma la presa di coscienza che se ti danno un biscotto ogni volta che ti comporti da merda mentre vieni ignorato quando fai del tuo meglio, alla fine una merda finisci col diventarla per davvero. Come il cagnolone da cui siamo partiti: premio punizione, premio punizione.

Sì, il gioco ormai mi è chiaro, il gioco del ribaltamento prospettico. Fino a che non morderò pure io il polpaccio del postino, mentre mi porge una raccomandata con ricevuta di ritorno.

venerdì 25 marzo 2022

Prepuzio, o sull'incremento delle spese militari


Il Papa fa benissimo a fare il Papa, e a vergognarsi per l'incremento delle spese militari al 2% del PIL. Ma se di lavoro non fai il Papa, mi chiedo quale dovrebbe essere la percentuale giusta: l'1,54% come è stato nel 2021? O magari l'1,2, l'1, addirittura lo 0,8... chi offre di meno?

Il problema è che si tratta di una questione tecnica, prima ancora che ideale – l'idea di fondo è che l'amore e la pace siano meglio della guerra, ma tu pensa...

Da qui il disagio per le diffuse certezze che incrocio: sia nelle parole dei pacifisti che vorrebbero smantellare gli arsenali ("mettete dei fiori nei vostri cannoni"), sia nei nostalgici di libro e moschetto; più moschetti che libri, a dirla tutta.

Per quel che mi riguarda, non ho la minima idea di quanto si dovrebbe spendere per la sicurezza nazionale, nemmeno se vado a spanne. Ma il buon senso mi suggerisce che, senza alcun investimento nella sicurezza (e in questo tempo sghembo è ancora offerta dalle armi, e da chi è in grado di usarle), non esiste neppure nazione.

Quelli si chiamano feudi, dove la difesa è prerogativa di qualcun altro; i signorotti locali, l’imperatore. A cui bisogna però pagare dazio e concedere la moglie se gli viene l’uzzolo. O, più modernamente, si tratta di colonie, riserve indiane, ghetti. E non è tanto bello viverci dentro, almeno se stai dalla parte di chi ha avuto inciso il prepuzio.

giovedì 24 marzo 2022

Il dolore e il nulla, o sulle domane non dette tra le parole strillate


Se i dibattiti televisivi fossero un’equazione matematica, a me sembra che quelli sulla guerra potrebbero essere scomposti. Taglia, semplifica, riduci ai minimi ed elementari termini, si approda così alla domanda fatidica: “Tu cosa sceglieresti?”

Lo chiede Jean Seberg a Jean-Paul Belmondo in una sequenza di À bout de souffle, correva l’anno 1960, la regia è di Jean-Luc Godard. Prima però lei gli legge una frase da "The Wild Palms" di William Faulkner: “Tra il dolore e il nulla io scelgo il dolore.” E tu, dimmi, lo incalza la ragazza con i capelli da maschietto, cosa sceglieresti?

Belmondo all’inizio cincischia, prova, senza troppa convinzione, a spostare il discorso sull’importanza dei piedi nella donna, ma poi risponde: “Il dolore è idiota. Io scelgo il nulla. Non è meglio… ma il dolore è un compromesso. O tutto o niente.”

La stessa risposta sembra offrire Zelensky: vivere da servi, senza una patria integra e sotto il tallone del nemico, è idiota. O tutto o niente. Conclusione a cui Putin fa eco, riaffermando l’antico mito dell’Eurasia sotto l’egemonia dell’orso russo, con l’imprimatur del patriarca ortodosso Cirillo I e del filosofo Aleksandr Gelʹevič Dugin. Tutta gente che ha poca confidenza con quel dolore sommesso e diurno che si chiama ridimensionamento del sogno.

Ed è così che il mondo potrebbe anche terminare, il nulla atomico risulta per entrambi preferibile al dolore di perdere qualcosa, già che in quella cosa apparentemente piccola (per noi) è racchiuso intatto e potente il senso dell’esistenza tutta, come gli oggetti magici nelle fiabe. A centinaia di chilometri di distanza, nei nostri studi televisivi, la medesima contrapposizione prende forma strillata. Anche qui ci sono i nullisti e i doloristi.

Il querimonioso Orsini e l’imbronciata Donatella Di Cesare, ad esempio. Entrami parteggiano smaccatamente per Faulkner: scelgono il dolore. Con l’unica differenza, non poi così trascurabile, che il dolore non è il loro, ma quello degli ucraini. Lo slogan pace subito, pace senza se e senza ma, equivale infatti ad affermare un diritto sul dolore degli altri, per certificare il proprio essere. Non dico che sia completamente illegittimo – lo facciamo da millenni nutrendoci della carne degli animali – ma è importante averne consapevolezza.

Quella stessa consapevolezza che ci si augura nella fazione opposta, di cui è ugualmente lecito dubitare. Siamo infatti sicuri che Rampini, Parenzo, Friedman, Severgnini e così via, abbiano ben chiaro i termini della scelta a cui sono chiamati… Il sospetto è che sia solo una postura muscolare, un selfie in favore di camera in cui la mascella contratta fa velo all’ambiguità che ci cinge da dentro, prima ancora che da fuori.

Quanto a me, subisco da sempre il fascino di Jean Seberg – solo un’altra Jean, Jean Birkin, ma non senza ripensamenti, riuscì a scalfire la mia convinzione che Jean Seberg fosse la donna più bella del mondo – e mi sembra che una mediazione dolorosa sia preferibile alla guerra atomica. Quel compromesso idiota di cui parla Belmondo, già.

Ho però il ritegno di riconoscere che a questo modo sto ipotecando un dolore che non mi appartiene, un dolore per così dire in conto terzi. Da qui un suggerimento per i futuri tavoli per la pace, che oltre a ragioni economiche, geopolitiche e militari, dovrebbero contemplare anche un poco di filosofia, e perché no di arte. Immagino una conversazione tra Putin e Zelensky che ricalchi le battute di À bout de souffle: “E tu cosa sceglieresti?”

Tra il dolore e il nulla, sì, certo, ma pure tra Bach e Mozart, tra Michelangelo e Raffaello, Dostoevskij e Shakespeare, Beatles e Rolling Stones… Tra diverse forme di bellezza, insomma. Perché esistere, non sopravvivere che del nulla è l’anticamera affollata, corrisponde a una remunerazione sensibile, più che a un generico significato da assegnare al trascorrere dei giorni. E quel premio si chiama appunto bellezza.

Diversamente, fa benissimo Jean-Paul Belmondo a infilarsi una Gitanes in bocca e rivendicare il suo tutto o niente. E chi se ne frega se questa scelta porterà al nulla, solamente scorie atomiche e toponi più grandi di asini, se il qualcosa a cui si rinuncia ha il volto butterato di un generale sull’attenti cosparso di mostrine, o le labbra tumefatte da una chirurgia estetica di massa.

La domanda da cui siamo partiti dovrebbe allora essere aggiornata: cosa sceglieresti, tra il kitsch e il nulla?

martedì 22 marzo 2022

C’è noi e noi, o sul poco che ho compreso di questa guerra


Una persona che stimo ha appena scritto su Facebook: “sempre ci si è augurati la pace”. In realtà, proprio perché è una persona stimabile, nel suo post diceva di più e soprattutto di meglio, ma la parte che mi ha colpito è la frase riportata. Me la sono rigirata nella bocca per un po', come una pastiglia per la gola. E alla fine le ho risposto a questo modo:

Sono d’accordo con te, tranne che sul soggetto del verbo augurare: "sempre ci si è augurati la pace", ovvero ci in luogo di noi, tutti noi, uniti nel sempiterno augurio di pace. Quindi pace subito, pace a qualsiasi costo. Se prendiamo le parole sul serio, le cose però non stanno così.

La Russia di Putin, la Russia che in buona parte ancora sta con Putin, ad esempio non si augura la pace, ma l'annessione di significative porzioni del territorio ucraino, se non dell'Ucraina tutta da far rientrare sotto la propria sfera d'influenza, magari con una foglia di fico che ne copra l'oscena brama, come Lukašenko in Bielorussia.

Ma anche gli ucraini non si augurano pace e piuttosto libertà, indipendenza, orizzonte prospettico che si slarga sul destino proprio e quello dei propri figli, come nel finale di una pellicola hollywoodiana con dolly a salire e titoli di coda che scorrono sullo sfondo del cielo. Poco importa se quel film si nutra anche di retorica e nazionalismo: è il loro film. Sono le loro condizioni, e non altre, a cui gli ucraini si augurano la pace.

Siamo dunque noi, quel noi che non è indifferenziato ma coincide con la ristretta porzione di mondo comodamente seduta di fronte al televisore, ad augurar-ci la pace: chi per far calare il prezzo dei carburanti, chi invece, spirito assai più nobile ed empatico, per poter riprendere a seguire una serie su Netflix senza essere turbato dal pensiero di quei giovani corpi dilaniati (ma anche i vecchi muoiono, non solo di Covid ma sotto le bombe russe).

Bisogna dunque essere molto cauti nell’uso dei pronomi. C’è noi e noi. E se sbagliamo noi includendo anche chi la guerra la fa per davvero, ma soprattutto la subisce, rischiamo di ricalcare il più sconcio degli adagi: "fare i fro... va be', gli omosessuali con il sedere degli altri."

lunedì 21 marzo 2022

La cena dei cretini, fenomenologia di Alessandro Orsini


Quando la ragione arranca, non comprende un fenomeno mentre, sempre più ostinate, le mani grattano la fronte, anche gli studiosi più dotti si affidano all’immaginazione. Pensiamo a Newton e alla sua mela: in fondo sembra una sequenza cinematografica, non lo snodo cognitivo che avrebbe portato a una delle rivoluzioni scientifiche più solide e durature.

Pensiamo ora a Alessandro Orsini, direttore e fondatore dell'Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della LUISS. Ci pensiamo e ripensiamo ma non comprendiamo le ragioni – non certo le sue competenze, per altro solide, o la brillantezza nell’eloquio – che l’hanno reso il prezzemolo con cui condire quasi tutte le trasmissioni che parlando della guerra in Ucraina.

Continuiamo a guardarlo, lo ascoltiamo parlare con voce flebile e commossa, sembra sul punto di scoppiare in lacrime, di stramazzare al suolo affranto, ma procede invece come un dromedario onusto sull'invisibile pista che traccia nel deserto, e i conti non tornano: perché lui, perché proprio lui…?

Ed è qui che dovremmo fare lo scarto verso una forma diversa di pensiero, affidandoci alla videoteca. In particolare c'è un film che fa al caso nostro, una pellicola francese del 1998, scritta e diretta da Francis Veber. Si intitola Le dîner de cons, in italiano La cena dei cretini.

Un gruppo di ricchi annoiati organizza una cena a cadenza regolare, in cui ciascuno deve portare con sé un cretino di cui poi ridere alle spalle. Non è molto diverso il funzionamento dell’informazione televisiva, l’abbiamo vista all’opera, seguendo lo stesso cinico schema, nel periodo dell’emergenza Covid: a studiosi seri e preparati veniva accostato un personaggio eccentrico, che so, il cantante Povia, così che questa squisita élite di spiriti superiori (con la scusa del confronto democratico delle opinioni) potesse dargli addosso, metterlo in ridicolo più di quanto già non facesse da solo.

Uno schema antico, già mia nonna ripeteva un proverbio delle sue parti: “tuc i vularia vedè en mat en ciazza ma nigun che’l fus so” (tutti vorrebbero vedere un matto in piazza, purché non fosse un proprio parente), a conferma del fatto che la risata ha bisogno di una prospettiva asimmetrica per sgorgare; un piacere meschino ma a ben vedere umano, o forse meschino proprio perché umano.

E così ora è venuto il turno di Alessandro Orsini. Quanto sghignazzava, senza ritegno proprio, la politologa Nathalie Tocci ogni volta che Orsini apriva bocca a Piazzapulita. Ma siccome per ridere di gusto si deve essere come minimo in due, cercava, con lo sguardo, la complicità di Mario Calabresi, che in modo solo un poco meno sfrontato la ricambiava: eh sì, è proprio un cretino, il contenuto inespresso in quel dischiudersi appena accennato delle labbra.

Ed è stato in quel preciso momento che ho iniziato a tifare per Alessandro Orsini, con cui non condivido un solo pensiero. L’ignaro cretino, l’utile idiota per fare lievitare audience e share, e poco importa se si annebbia la comprensione: sai che risate, in studio e nei salotti in cui il buffo Orsini dilaga quale nuovo eroe della minorità. I nostri salotti, le nostre risate ogni volta che compare un cretino sullo schermo.

Ci sono dunque solo due posture con cui accostarsi al fenomeno: accettarlo, addirittura amplificarlo come avviene nelle trasmissioni di Bonolis e Cruciani (luoghi in cui l'irrisione rasenta il monopolio), oppure spegnere il televisore. L’altra sera ho optato per la seconda opzione, ma lo specchio che ci fa sentire superiori riflettendoci nei limiti altrui – l’unica forma di superiorità che ancora ci è concessa –, è duro da infrangere.

sabato 19 marzo 2022

Do ut des, o su eros e politica



Comprendere il funzionamento di un tavolo diplomatico per la pace, non è difficile. Basta pensare ai nostri appuntamenti galanti. Anche qui abbiamo dei punti di forza – degli asset – e delle debolezze che vengono negoziati.

Ad esempio. Una donna di venticinque anni molto carina possiede, come minimo, queste risorse: bellezza e tempo, di cui è perfettamente consapevole. Perché l’accordo risulti conveniente, l’uomo con cui si siede a bere uno Spritz dovrà essere in grado di esporre sul tavolino delle trattative (tra un posacenere con la scritta Campari e una macchia brunita di caffè, lasciata sulla tovaglietta a quadri dai clienti precedenti) uguali requisiti.

In alternativa – mettiamo che l’uomo sia bruttino e abbia superato i quarant’anni, fatidica età in cui si ribalta la clessidra – potrebbe avere molti soldi, oppure prestigio sociale e professionale, un Suv enorme e scoreggione, talento artistico, doti verbali e intellettive non comuni, o infine e come cantava De Andrè, tra tutte le virtù la più indecente… Diversamente, sarà difficile arrivare a un accordo, a un bacio. Do ut des.

Ma allora è questo l’amore, ciò che negli istituti tecnici commerciali chiamano partita doppia?

No, non l’amore: è l’eros. L’amore, secondo Lacan, consiste nel donare ciò che non si ha, e per amare ed essere amati bisogna svuotarsi di tutto il proprio valore, reale o presunto. Lo stesso per ottenere quel che Immanuel Kant chiamava “pace perpetua”: il forte deve farsi debole, così come, nelle relazioni sentimentali, il bello convertirsi in brutto, il ricco in povero ecc.

Tocca dunque capire se Russia e Ucraina vogliano arrivare a una pace amorosa oppure erotica. Fino a ora, non mi sembra che i contendenti abbiano mostrato di volere donare all’altro ciò che non possiedono, e al contrario di incassare il maggior numero di benefici.

Per interrompere lo sterminio, sarebbe dunque già tanto se riuscissero a ottenere un compromesso erotico al ribasso. Ma io temo che si arriverà a qualcosa che somiglia piuttosto alla prostituzione… 

venerdì 18 marzo 2022

Lupus in fabula, o su Facebook e letteratura

Immaginiamo che questo scambio stia dentro un romanzo, e non sulla bacheca di una scrittrice pubblicata dal più importante editore italiano. La voce narrante che riporta i fatti, come Nick Carraway in The Great Gatsby, non sa se la scrittrice sia brava oppure no, non ha mai letto qualcosa di suo. O forse sì. Forse, come anticipato, è già tutto e solo letteratura.

Scrive la scrittrice: “Leggo un libro in cui l’autore (famoso e bravo) parla della compagna che ha partorito e che la prima notte in ospedale allatta la figlia. Lui osserva questa scena con gli occhi socchiusi e prova una perfetta serenità, tutto si compie. Ho pensato che quest’uomo non ha capito nulla di quel momento, della sua difficoltà e ambiguità, ma vuol fare lo stesso della letteratura. Scene di questo tipo sono frequenti nei romanzi, le scene strane e inutili ma in apparenza riuscite, piazzate lì per essere accettate automaticamente.

Le risponde, tra i commenti, una donna che chiameremo X, di lei non sappiamo nulla se non che è tra i contatti della scrittrice che pubblica per il più importante editore italiano: “Da donna che ha allattato posso dire di aver vissuto quel momento come perfezione e completezza. Non credo che l'esperienza possa essere unificata e codificata per tutte allo stesso modo. Può essere che quella serenità fosse reale e non letteraria.”

Ribatte la scrittrice: “La prima notte in ospedale non allatti quasi. Non entro nelle technicalities ma è un processo diverso, l’immagine del poppante comunemente inteso è cosa successiva. I bambini non mangiano in quel modo nelle prime ore.”

Donna X: “Vabbè, ma non è che la letteratura debba essere un trattato di ostetricia.”

Scrittrice: “Ma che c’entra l’ostetrica. È cogliere il senso della realtà e il suo significato.”

Donna X: “…”

Scrittrice: “Poi permettimi di dire che forse non ti poni seriamente il problema di cos’è letteratura, se fai commenti così banali. Del resto non scrivi e forse non ti importa quando leggi.”

Donna X: “No, non scrivo. Ci mancherebbe che tutti si mettessero a scrivere. Quanto a cosa sia la letteratura non so in che prospettiva lo vuoi intendere. Ma mi sembra un vasto programma.”

Scrittrice: “Se non vuoi dire letteratura diciamo allora pagina non inutile.”

Donna X: “Ci sono milioni di pagine inutili che hanno fatto bene all'anima, per divertimento, per sentimento, per fantasia, per orrore e forse non erano LETTERATURA. Ma non credo che tutte le pagine debbano essere utili per essere letteratura. Dipende da cosa scrivi, perché lo scrivi, chi lo legge, perché lo legge. Ma se c'è una pagina che non corrisponde al reale, che sfugge di mano all'autore, non mi sembra il caso di farne una tragedia, se non è abitudine alla cialtroneria.”

Scrittrice: “Credo che tu ti stia occupando di problemi che non conosci e che non ti sei mai posta, senza dunque avere le competenze o anche solo un reale interesse. Del resto è Facebook.”

Lo scambio finisce qui. È da un po’ di tempo che ci sto pensando: ai suoi contenuti, ma soprattutto ai toni. E al perché mi appare letteratura, ossia, per dirla con le parole della scrittrice che pubblica per il più importante editore italiano, “pagina non inutile”, dove si distilla l’umano in forma essenziale, per quanto limitata.

Lo ricavo dal fatto che l’essenza, per definizione, può essere convertita in immagini primordiali, ad esempio quella di una femmina di lupo Alfa che viene sfiorata da una femmina Beta.

La femmina Beta non è ostile, non intende sfidare il primato di Alfa sul suo terreno – la letteratura –, ma come spesso avviene sui social vorrebbe un semplice riconoscimento, che cerca di estorcere attraverso una testimonianza personale: quando è nato mio figlio a me è andata così, e magari è andata allo stesso modo anche per quel tuo collega scrittore. Il fatto stesso che Alfa le dia udienza è per lei motivo di gratificazione.

Alfa però è spietata – “credo che tu ti stia occupando di problemi che non conosci e che non ti sei mai posta” – e l’umiliazione di Beta prende, sulle prime, forma di un resistenza abbozzata; quindi si sdraia supina al suolo mostrando inerme la giugulare. Alfa ha vinto. Ma non poteva essere diversamente quando, sulla copertina di un libro, il più importante editore italiano stampa il nome che ti faceva alzare la mano con slancio, se a pronunciarlo era la maestra durante l’appello. E ora fa risplendere i tuoi canini.

Ma torniamo al giovane padre, è ancora lì imbambolato a osservare la moglie allattare, e lo trova un momento di perfetta serenitàtutto si compie. Ciò che gli sfugge è il risvolto occulto di questo quadretto irenico. Lo ritroviamo, finalmente in superficie come lo sbuffo di un geyser, nello scontro tra Alfa e Beta. Secondo categorie antropologiche un po’ semplificate, potremmo pensarlo come lato ferino del femminile, o, risalendo ancora più indietro nella catena evolutiva, rettiliano; Lacan parla di madre coccodrillo, che vorrebbe ingoiare i suoi cuccioli. Ma pure il suo maschio, le sue lettrici, tutti.

Il giovane padre però guarda e non vede, forse perché ha gli occhi socchiusi, vede solo quel che vuole vedere. E ciò che vede, nella sua gioia pura quanto ingenua, è la Madonna con bambino, è il cerchio che Giotto imprime senza sbavature sul foglio destinato a Bonifacio VIII; una geometria aliena alla vita, e alla letteratura che dovrebbe fargli da specchio.

Ha dunque ragione la scrittrice che pubblica per il più importante editore italiano, quando conclude: “del resto è Facebook…” Uno dei pochi luoghi dove ancora incontrare la vita allo stato selvaggio, quel che ne rimane almeno, ma anche la letteratura. Prima sbranare tutto ciò che ti capita a tiro.

mercoledì 16 marzo 2022

Sì, no, forse, o sul desiderio erotico affluente


Sull'ultimo numero di Robinson, il supplemento culturale de la Repubblica, la scrittrice Rosella Postorino ha pubblicato un bellissimo testo sul politicamente corretto, la cui ombra inclusiva è stata recentemente estesa alle relazioni erotiche, che vengono così compresse nel codice binario dell'assertività: no, non mi interessi, smamma; sì, mi interessi, la dogana si alza e hai accesso al mio corpo. Questo in brutale sintesi il contributo del #MeToo movement al galateo sociale.

Ma il desiderio femminile, continua Postorino, è assai più complesso e sfumato dell'algebra booleana, e meglio potrebbe essere compreso dentro l'orizzonte semantico del "forse": forse in questo momento qui mi va; ma forse, tra dieci minuti, quando mi infilerai una mano sotto la gonna, non mi andrai più, e ti troverò viscido e repellente. E così ogni incontro erotico ci espone non solo al rischio fisico (siamo nudi, vulnerabili) ma anche a quello psichico del ripensamento, che dovrebbe essere sempre contemplato tra i possibili relazionali, senza inchiodare la donna a un consenso o a un dissenso definitivi.

Come ho anticipato, non solo apprezzo molto la narrativa di Postorino, ma anche il testo in questione, che mi ha fatto tornare alla mente un reportage dagli Stati Uniti di Italo Calvino, era la fine degli anni sessanta e reclamavano la scena il movimento studentesco e la controcultura beat. In quel vitale coacervo di posizioni non sempre coerenti, Calvino ravvisava un comune denominatore nel rifiuto, non tanto, della generazione che li aveva preceduti, ma del modo in cui essa interpretava il piacere, fisico e non. Ed era anche qui un codice binario, in cui a essere acquisito in via preventiva era il cosa – la vita è un'infinita giostra di piaceri –, mentre veniva questionato il come.

Il piacere, per i padri, si dava nella forma di macchinone con vezzose code di rondine posteriori, villette a schiera da acquistare con mutui dall’infinita rateizzazione, zerbini con la scritta welcome, il cane di razza Rough Collie che scorrazza in giardino, mentre la moglie inforna la torta di mele; intanto il marito fa gli straordinari in ufficio, con la giovane segretaria posata sulle ginocchia. Quel piccolo velleitario mondo che abbiamo ritrovato nella serie televisiva Mad Men, a inabissarci alla scaturigine del sogno americano. No, tutto ciò fa schifo rispondevano i figli, opponendo ai piaceri borghesi quello per le droghe, l’amore libero, le ballate folk strimpellate attorno a un falò sulla spiaggia, da cui prendere congedo a bordo di potenti motociclette, i capelli e le barbe lunghe scompigliati dal vento salmastro del Pacifico.

Vi era però un elemento di continuità, annota Calvino, tra la generazione dei padri e quella dei figli, che consisteva nell’assumere come certe, addirittura “naturali”, le condizioni materiali con cui avere accesso ai loro diversi piaceri, garantiti dall’impianto economico di una società che veniva chiamata affluente: sorta di cornucopia in cui non siamo noi a conquistare con sforzo il piacere, ma il piacere affluisce a noi, quasi magicamente. L’unico problema diviene così discriminare nella molteplicità in cui si declina.

Ma cosa c'entra tutto ciò con quanto scritto da Rosella Postorino? A me sembra che la sua prospettiva sia la medesima, ma sul versante erotico: da donna giovane, bella e intelligente qual è, proietta la sua condizione su un femminile indifferenziato, che come lei diviene oggetto di una sorta di desiderio a prescindere, un desiderio affluente. Status privilegiato dentro al quale, secondo la logica non binaria del forse, ci si può muovere per libera scelta, esperimenti, concessioni al desiderio proprio e dell'altro. Ma sempre mantenendo lo spazio per la ritirata di Cenerentola, bada bene con entrambe le scarpette ai piedi, attraverso cui incamminarsi verso nuovi e più interessanti principi azzurri.

Il guaio è che come era falso il mito della società affluente (c'era un'economia neocolonialista a sostenere quel mondo di cartapesta, come Atlante il globo), lo è anche quello del desiderio affluente. Specie in una nazione come la nostra, con una popolazione sempre più anziana e, diciamolo pure senza ipocrisia, meno desiderabile. A quel punto, il forse auspicato con piena legittimità nel testo della brava scrittrice calabrese, diviene forse qualcuno ancora mi si piglia... Una condizione che vale per entrambi i generi, sia chiaro: la cornucopia, a un certo punto, smette di eruttare occasioni erotiche a getto continuo, e si finisce a mendicare un compagno nelle trasmissioni pomeridiane di Maria De Filippi.

sabato 12 marzo 2022

Salto triplo, o su guerra e filosofia


La filosofa Donatella Di Cesare, ospite in un talk show televisivo, insisteva sul fatto che non si deve giudicare la Russia per l'invasione armata dell'Ucraina, ma comprenderne le cause. Comprendere non significa infatti giustificare, aggiungeva attribuendo il pensiero a Primo Levi. 
Nell’Appendice del 1976 a Se questo è un uomo, in effetti si parla di comprensione e giustificazione. Ma in questi termini: "forse quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare”.

A tutti può capitare di sbagliare una citazione, e non c'è niente di più triste di programmi come Paperissima, in cui si sghignazza degli inciampi altrui. Specie quando oggetto dello scherno è Donatella Di Cesare, una pensatrice dal passo generalmente sicuro. Il rispetto che nutro nei suoi confronti mi porta dunque ad approfondirne il pensiero, non a irriderlo.

Partiamo allora dal concetto di giudizio. Il giudizio, nella sua postura asimmetrica, presuppone una distanza critica dall'oggetto su cui si sofferma, prima di alzare una paletta con inciso sopra un sì, un no, un numero, come al concorso di Miss Italia, in cui la giuria si pone sempre una spanna sopra alle lunghe gambe delle ragazze che sfilano. Da qui l'ammonimento evangelico a non giudicare se non si vuole essere giudicati.

Comprendere è invece una disposizione del pensiero in prossimità, non di rado si avvale dell'empatia, del riconoscimento di una specularità tra dentro e fuori, come si ricava dalla scomposizione del termine nei suoi costituenti semantici: prendere con. Ma poi, avrei voluto rispondere a Donatella Di Cesare, poi cosa fare con ciò che abbiamo com-preso, fatto nostro dentro una ricostruzione che non potrà mai essere definitiva e certa, ma che con onestà intellettuale si fa carico dello sforzo nel discriminare?

Posso ad esempio aver compreso che, dopo il 1991, la Nato si è espansa a lambire i confini della Russia, contravvenendo alle promesse verbali fatte da George Bush a Gorbačëv; oppure che esiste una consistente presenza russofona (e russofila) nella zona del Donbass, la quale ha vissuto con disagio e timore il ribaltamento politico avvenuto in Ucraina nel 2014, dopo le proteste di piazza Majdan e la fuga di Yanukovich, in quello che potrebbe essere stato un colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti e da gruppi di estrema destra (fermo restando che Zelensky è stato eletto in seguito col 73% dei consensi). Ma poi, di nuovo, ciò legittima una secessione, una guerra, l'invasione dei tank russi?

È solo una domanda. E però sdrucciolevolissima, già che una risposta affermativa rappresenterebbe un precedente ad altre simili rivendicazioni (tra cui l'indipendenza dell'Alto Adige dall'Italia), mentre se la risposta fosse negativa potrebbe essere interpretata in chiave repressiva rispetto al diritto di autodeterminazione dei popoli.

Da qui la costatazione che la verità "non sta mai da una parte sola", d'accordo, è un claim di saggezza che abbiamo imparato a pronunciare a pappagallo, ma neppure esattamente nel mezzo. La verità, o, meglio, la scaturigine dei fatti e la risposta che a essi offriamo a titolo sempre personale, come la torre di Pisa propende da un verso piuttosto che dall'altro, e l'esercizio umano della comprensione a un certo punto deve raggiungere un termine, per tradursi in determinazione. Ciò che viene determinato sono i gradi dello sbilanciamento – da una parte, o magari dalla parte opposta , che pur non facendo velo alla comprensione suggerisce la direttrice dell'azione.

Azione, ma cosa c'entra ora l'azione: non avevamo detto che si deve prima comprendere e poi determinare? Sì, ma se lo stare al mondo fosse uno sport, più che al salto in alto, o in lungo, somiglierebbe al salto triplo: il primo balzo è quello della comprensione; il secondo della determinazione; e infine l’ultimo colpo di reni, a sbalzarci nel perimetro sabbioso dell’azione. D'altronde la stessa Donatella Di Cesare, invece di avventurarsi in una citazione letteraria (sbagliata), avrebbe potuto guardare al giardino di casa, e ricordare la più celebre affermazione di Marx, sta scritta perfino sul marmo della tomba: "i filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo”. 

Nella circostanza, trasformare il mondo significa muoversi al suo interno rinunciando a quella disposizione conciliata che i filosofi chiamano atarassia – non scelgo, non mi schiero, ma rimango alla finestra da cui cerco di comprendere ciò che accade, senza mutarlo – e infine assumersi la responsabilità di un'azione discrezionale, che porta a conseguenze di cui pure si deve essere responsabili, in quanto nuovamente di parte. Parte, partito, partigiano, partorire (un figlio ma anche un'opera d'arte, un'idea), tutti termini che hanno comune radice nell'umano, già che il Tutto è riserva di caccia di Dio. E non c'è hybris più grande di chi rifugge le ragioni della propria parte per scimmiottare la voce di Dio.

Per l’insieme delle ragioni che ho provato a sintetizzare, sono contrario ad accondiscendere alla richiesta di Zelensky di una no fly zone (come più volte ripetuto, potrebbe innescare reazioni a catena che conducono a un conflitto nucleare su scala mondiale), mentre sono favorevole alle proposte sottoscritte da Bernard-Henri Lévy, Sean Penn e Salman Rushdie su sanzioni economiche e informatiche ancora più severe da applicare alla Russia, oltre che all'invio di armi tattiche all'Ucraina. Non dico che ciò sia sufficiente, né tantomeno che rappresenti la verità, ma è la parte che ho deciso di abitare nel Tutto. O se si preferisce, è la conclusione del mio salto triplo.

Mi auguro che Donatella Di Cesare, che è donna di grande intelligenza e cultura, sappia e voglia fare anche lei i due salti successivi alla comprensione; poco importa se ricalcherà o meno le mie orme, sarà comunque la sua parte nello spettacolo della vita. Vederla arrestarsi come un mulo cocciuto, senza scegliere, senza agire, induce tristezza e sconcerto.

venerdì 11 marzo 2022

Padri e figli


Vedendo Federico Rampini in televisione, ieri sera, mi sono trovato a pensare che non piacerebbe avere un figlio come Federico Rampini: che mette le bretelle rosse, che parla come Gianni Agnelli, che espone con finta casualità i propri libri durante i collegamenti dal suo appartamento newyorkese. Ma soprattutto un figlio tutto compreso dentro un’idea di libertà che a me, piuttosto, appare corrispondere a una visione molto garbata e ripulita del concetto di élite; e se fosse figlio mio, mio figlio non potrebbe mai appartenere ad alcuna élite, come Groucho Marx a un club dove accettassero tra i soci un tipo come lui.

E però, ecco, subito dopo mi sono trovato a pensare che anche Putin probabilmente non vorrebbe un figlio come Federico Rampini – e nemmeno un figlio gay, o che si fa le canne –, e la sua fobia occidentale (sostenuta dal patriarca di Mosca Vladimir Michajlovič Gundjaev, in arte Cirillo I), altro non è che l’arcaico sentire che richiede ai figli di essere identici ai padri. La fedeltà alla tradizione è in fondo questo: negare il caotico succedersi delle generazioni, il loro differire a volte un Leonardo da Vinci le illumina, altre un Hitler le sconcia. Ma più spesso è una grigia staffetta di ragionier Fantozzi e geometra Filini.

Perciò sono favorevole all’invio di armi all’Ucraina: non perché l’Occidente, questo Occidente qui, mi piaccia quanto a Federico Rampini, ma perché ho compreso che i figli hanno tutto il diritto a essere diversi dai padri. Perfino quando mandano a puttane un mondo in cui, tra infinite guerre e atrocità, si è data bellezza. Perfino quando indossano le bretelle rosse e parlano come Gianni Agnelli.

domenica 6 marzo 2022

Specchio d'Occidente



Su Facebook leggo spesso di maschi che utilizzano questo mezzo per rimorchiare. Lo leggo in post femminili, ovviamente. Post sarcastici che reclamano solidarietà per i maldestri approcci subiti. A volte vengono aggiunti gli screenshot dei messaggi ricevuti in privato – lo fa di continuo anche Selvaggia Lucarelli, quindi deve rappresentare una sorta di trend –, dove il maschio in questione spara un po' goffamente le sue cartucce (goffamente è avverbio che, nella circostanza, rimanda alla figura retorica dell’eufemismo, quando sarebbe forse più preciso parlare di comicità, se non di pornografia).

Preso atto dei limiti maschili – e quelli nella comunicazione sono dati per certi –, mi viene il sospetto che i galletti da tastiera contengano una residua radice di umanità, e cioè di realismo, di specifica idea di bene (bene personale, sia chiaro, o se si preferisce utile) che a noialtri estensori di pensieri astratti è venuta progressivamente meno. Anche le donne che pubblicano selfie sul bagnasciuga, la coscia, già lunga, slungata dall'effetto grandangolo, il sorrisetto malizioso, non di rado sono le stesse che lamentano le incursioni seduttive, anche loro non lo fanno con desiderio incarnato, ma è un modo come un altro per incassare un consenso destinato a rimanere potenziale, rarefatto.

In Francia esiste una bella espressione: allumeuse, accenditrici. Ecco, mi sembra che i più, tra cui mi includo, sui social continuino a sfregare uno zolfanello sulla propria minima porzione di mondo, nella speranza di generare la combustione del solfuro di fosforo e del clorato di potassio. Da qui la possibilità di raggiungere l'evidenza e, per sinestesia, il più concreto dei sensi costituito dal tatto, nella forma di una leggera carezza. Magari quella di un padre che ti dice vai bene così, sei bella, sei fico, e poi tanto ma davvero tanto intelligente. O più nel profondo: esisti, anche se devi continuamente rimarcarlo, la fiamma di fiammifero dura per definizione pochi secondi, in cui gli altri (forse) si accorgono di te. Mentre chi prova a esistere davvero – e quale migliore modo di esistere che scopare, premere la maniglia della porticina di servizio del Truman Show, per ritrovarsi sbalzati nella vischiosità del reale – viene trattato come ingenuo o molesto, un cascame del mondo prima che si trasformasse in rappresentazione.

Se dunque una donna ma anche un uomo, un barboncino, un criceto e insomma una creatura viva, volesse uscire con me una sera per berci un Vodkatiny o una cedrata Tassoni, io sono qui. No, non ci sto provando, non l'ho mai fatto sui social. Ma non sto nemmeno scartando l'eventualità che due labbra possano accostarsi, e un cazzo offrirsi in modi diversi da una fotografia su Messanger. Sempre inquadrato da sotto, per sembrare più grande, sempre sembrare qualcosa nello specchio d'Occidente.

Ps – Ovviamente non mi sfugge che in questo momento è in corso una guerra. E ho scritto ciò che ho scritto proprio perché, in Europa, a poche centinaia di chilometri dalla scrivania dove sto scrivendo, è in corso una guerra. La relazione tra le due cose – guerra e contenuto del post – la consegno al lettore come esercizio enigmistico. Però aggiungo un aiutino: dopo due anni di pandemia e almeno venti di lobotomia telematica, davvero ci voleva una guerra per ricordarci che esiste un fuori...