Mi è sempre piaciuto fare a botte. Da bambino, più che altro, era un
accapigliarsi, muovere a casaccio le braccia, tirare i capelli. La prima volta
che ho fatto a botte seriamente è stato alle medie. La serietà, per me,
consisteva nell'avere intuito un preciso nesso tra gesti ed effetti, che avevo
ottenuto da uno studio attento di quello che era allora il mio idolo: Cassius
Clay, da poco divenuto Muhammad Ali.
Quando uno spilungone di un anno più grande di me mi sfidò nel cortile di
cemento che unisce i condomini in cui tutt'ora abitiamo - solo un po' di
capelli in meno, entrambi -, provai a sottrarmi. A dirla tutta avevo paura, e
poi non provavo l'aggressività che manifestava nei miei confronti, forse
generata dalla gelosia per una ragazzina di nome Adele; si era messo in mente che
lei avesse un debole per me, cosa purtroppo non vera. La bella e dolce Adele,
reginetta di via Parolo.
Il primo pugno in faccia mi arrivò senza preavviso, solo a quel punto
reagii. Mi concentrai dapprima sul movimento delle gambe, replicando il
saltellare di Muhammad Ali attorno all'avversario, per poi colpirlo
all'improvviso con un jab che aveva la funzione di aprire la guardia, seguito
da un diretto destro con cui scaricare tutto il peso del corpo a partire dalla spalla. "Floats like a
butterfly, stings like a bee!" ripeteva nelle interviste il campione più
elegante della storia del pugilato, roteando lo sguardo e facendo le smorfie.
Fu stupefacente osservare come la teoria si integrasse alla pratica, dopo
pochi scambi il mio vicino di casa, con ancora tutti i capelli in testa, era in
mia balia, e mi fermai solo quando mi accorsi che stavo iniziando a fargli
male; sanguinava dalla bocca e dal naso, più tardi un occhio gli si gonfiò fino
a non riuscire a vedere più nulla.
Adele invece ci vedeva benissimo: mi osservava con sguardo severo senza
pronunciare parola, prima di prendersi amorevolmente cura dello sconfitto. In
fondo Ettore ha sempre avuto più appeal di Achille, e in un estremo lembo
settentrionale d'Italia la storia si ripeteva. Iniziai così a dubitare che la
mia vittoria fosse "truccata", come, si sussurrava, per Ali nel
conquistare il titolo mondiale contro Sonny Liston nel 1965.
Più tardi feci molte altre volte a botte, con esiti alterni. Ricordo il
giorno in cui i cugini Sertorelli mi attesero davanti ai cancelli della scuola,
indossavano i guanti da sci. Guanti da sci, a fine aprile? Fu l'ultimo pensiero
prima che cominciassero a piovere pugni, da tutte le parti, mai viste tante
braccia e mani in una volta sola, sembrava un incontro ravvicinato con Shiva.
Mi rimase solo la forza di raggiungere la terza E, dove sedeva in un banco
troppo piccolo per lui - quando non era al bar a giocare a biliardo con una Marlboro tra le labbra - il mio
amico Gigi, temutissimo pluriripetente. Fu sufficiente uno scambio di sguardi,
e poche sillabe: "Cugini Sertorelli."
Al suono della campanella dopo un ultima noiosissima ora di applicazioni
tecniche, ritrovai il faccione sorridente di Gigi. Con un braccio teneva
serrata la testa di uno dei due cugini Sertorelli, e l'altro cranio riccioluto
sotto il braccio opposto. Quando mi vide cominciò a battere le teste tra di
loro come coperchi, finché con un cenno della mano gli feci capire che ok,
poteva bastare. Dovrebbero avere capito la lezione. Da Muhammad Ali mi ero
trasformato in Vito Corleone.
Alle superiori le risse si diradarono. Anche in questo caso ero entrato
nelle grazie di un energumeno, mi sono sempre piaciute le persone di questo
tipo, e io a loro. Giocava come pilone nella nazionale juniores di rugby, e
chiunque osasse dirmi qualcosa di ostile partiva in quarta come un toro alla
vista di un drappo rosso. Una volta mi incazzai: "Basta, quelli
mingherlini devi lasciarli a me. Da quando ti conosco non sono più riuscito a
fare a botte con nessuno!"
Così sono arrivato a 56 anni disabituato a questo eterno passatempo
maschile. Però una cosa la ricordo ancora: si fa una fatica del diavolo, a fare
a botte. Da bambini ci si prendeva delle pause per respirare, introdotte dalla
formula "alimo" (contrazione di alimortis), e poi si riprendeva ad azzuffarsi.
Nel pugilato hanno inventato i round che hanno la stessa funzione, nessun altro
sport è altrettanto dispendioso; e infatti l'allenamento dei pugili comprende
il salto della corda, solo in epoca recente si è iniziato a sollevare pesi. Il
fiato conta nelle scazzottate molto più dei muscoli.
Ho fatto un lungo preambolo per dire che tra tutti coloro che hanno
commentato l'omicidio del povero Alika Ogorchukwu, pochi devono avere mai fatto
a botte. Ma l'avete visto il video?
L'aggressore conosce le tecniche di combattimento, lo si vede dal modo in
cui sale sopra alla vittima; è ciò che nelle MMA chiamano monta alta,
qui eseguita alla perfezione. E poi quattro minuti di lotta a terra, per una
persona non allenata sono un'eternità, dopo dieci secondi un cinquantenne è già
in apnea. Perciò le risse sono appannaggio dei giovani. E l'omicidio di
Civitanova non era una rissa, in cui bisogna essere perlomeno in due, più o
meno consenzienti sul da farsi, ma un'esecuzione. Dai, smettiamola con la
storia che bisognava intervenire!
Un intervento fisico, in questo caso e con questo scimmione inferocito,
sarebbe stato un gesto di eroismo, che è quanto di più bello esista al mondo,
non c'è musica, poema od opera artistica che lo eguagli. Eroismo da intendersi
nella disposizione di chi metta la propria incolumità al di sotto di quella di
un altro o di un'idea di mondo, com'era nell'Ottocento con i giovani che
accorrevano ad arruolarsi per combattere per la patria; un concetto che ora,
forse giustamente, ci appare fumoso. Ma come cantava Gianni Morandi: "uno
su mille ce la fa", uno su mille è un eroe. No, l'eroismo non può essere
preteso quale disposizione civile normale.
Se non fosse stato presente un giovane con attitudine e fisico paragonabili
ai miei due angeli custodi, l'unica dissuasione avrebbe potuto essere verbale:
dai, fermati, non vedi che l'ammazzi, come qualcuno gli ha gridato. Magari,
meglio, lo si poteva fare assieme ad altri. Ma per intervenire in gruppo
bisogna sentirsi gruppo, comunità. E siamo sicuri di esserlo ancora?
Certo, l'assenza dalla scena della fidanzata di Filippo Ferlazzo,
l'assassino, è gravissima, una sua parola avrebbe potuto essere risolutrice. Ma
insomma, se stai con un tipo del genere... Imbarazzante infine è la
presenza del video; un solo video a fronte delle numerose persone presenti, non
facciamone dunque un comportamento di massa.
Quel singolo video comunque contraddice le reazioni istintive alla
violenza, che nel regno animale sono costituite dal dilemma fuga/attacco. Qui
invece non si fugge, che sarebbe la reazione più umana, per quanto vile, ma
nemmeno si attacca. Nessun animale al mondo possiede l'istinto dello
spettatore, se non forse il condor, che però pregusta il suo banchetto.
Qual è dunque il banchetto che pregusta chi si ferma a filmare un omicidio
con lo smartphone, forse i like su Facebook? È questa la domanda giusta da
porsi, non perché nessuno sia intervenuto. "Siamo qui per fare, non per
stare" scriveva lo scrittore Mario Pomilio. Ma fare un video è diverso da
stare a guardare?