domenica 31 luglio 2022

Fare o stare?



Mi è sempre piaciuto fare a botte. Da bambino, più che altro, era un accapigliarsi, muovere a casaccio le braccia, tirare i capelli. La prima volta che ho fatto a botte seriamente è stato alle medie. La serietà, per me, consisteva nell'avere intuito un preciso nesso tra gesti ed effetti, che avevo ottenuto da uno studio attento di quello che era allora il mio idolo: Cassius Clay, da poco divenuto Muhammad Ali.

Quando uno spilungone di un anno più grande di me mi sfidò nel cortile di cemento che unisce i condomini in cui tutt'ora abitiamo - solo un po' di capelli in meno, entrambi -, provai a sottrarmi. A dirla tutta avevo paura, e poi non provavo l'aggressività che manifestava nei miei confronti, forse generata dalla gelosia per una ragazzina di nome Adele; si era messo in mente che lei avesse un debole per me, cosa purtroppo non vera. La bella e dolce Adele, reginetta di via Parolo.

Il primo pugno in faccia mi arrivò senza preavviso, solo a quel punto reagii. Mi concentrai dapprima sul movimento delle gambe, replicando il saltellare di Muhammad Ali attorno all'avversario, per poi colpirlo all'improvviso con un jab che aveva la funzione di aprire la guardia, seguito da un diretto destro con cui scaricare tutto il peso del corpo a partire dalla spalla. "Floats like a butterfly, stings like a bee!" ripeteva nelle interviste il campione più elegante della storia del pugilato, roteando lo sguardo e facendo le smorfie.

Fu stupefacente osservare come la teoria si integrasse alla pratica, dopo pochi scambi il mio vicino di casa, con ancora tutti i capelli in testa, era in mia balia, e mi fermai solo quando mi accorsi che stavo iniziando a fargli male; sanguinava dalla bocca e dal naso, più tardi un occhio gli si gonfiò fino a non riuscire a vedere più nulla.

Adele invece ci vedeva benissimo: mi osservava con sguardo severo senza pronunciare parola, prima di prendersi amorevolmente cura dello sconfitto. In fondo Ettore ha sempre avuto più appeal di Achille, e in un estremo lembo settentrionale d'Italia la storia si ripeteva. Iniziai così a dubitare che la mia vittoria fosse "truccata", come, si sussurrava, per Ali nel conquistare il titolo mondiale contro Sonny Liston nel 1965.

Più tardi feci molte altre volte a botte, con esiti alterni. Ricordo il giorno in cui i cugini Sertorelli mi attesero davanti ai cancelli della scuola, indossavano i guanti da sci. Guanti da sci, a fine aprile? Fu l'ultimo pensiero prima che cominciassero a piovere pugni, da tutte le parti, mai viste tante braccia e mani in una volta sola, sembrava un incontro ravvicinato con Shiva. Mi rimase solo la forza di raggiungere la terza E, dove sedeva in un banco troppo piccolo per lui - quando non era al bar a giocare a biliardo con una Marlboro tra le labbra - il mio amico Gigi, temutissimo pluriripetente. Fu sufficiente uno scambio di sguardi, e poche sillabe: "Cugini Sertorelli." 

Al suono della campanella dopo un ultima noiosissima ora di applicazioni tecniche, ritrovai il faccione sorridente di Gigi. Con un braccio teneva serrata la testa di uno dei due cugini Sertorelli, e l'altro cranio riccioluto sotto il braccio opposto. Quando mi vide cominciò a battere le teste tra di loro come coperchi, finché con un cenno della mano gli feci capire che ok, poteva bastare. Dovrebbero avere capito la lezione. Da Muhammad Ali mi ero trasformato in Vito Corleone. 

Alle superiori le risse si diradarono. Anche in questo caso ero entrato nelle grazie di un energumeno, mi sono sempre piaciute le persone di questo tipo, e io a loro. Giocava come pilone nella nazionale juniores di rugby, e chiunque osasse dirmi qualcosa di ostile partiva in quarta come un toro alla vista di un drappo rosso. Una volta mi incazzai: "Basta, quelli mingherlini devi lasciarli a me. Da quando ti conosco non sono più riuscito a fare a botte con nessuno!" 

Così sono arrivato a 56 anni disabituato a questo eterno passatempo maschile. Però una cosa la ricordo ancora: si fa una fatica del diavolo, a fare a botte. Da bambini ci si prendeva delle pause per respirare, introdotte dalla formula "alimo" (contrazione di alimortis), e poi si riprendeva ad azzuffarsi. Nel pugilato hanno inventato i round che hanno la stessa funzione, nessun altro sport è altrettanto dispendioso; e infatti l'allenamento dei pugili comprende il salto della corda, solo in epoca recente si è iniziato a sollevare pesi. Il fiato conta nelle scazzottate molto più dei muscoli.

Ho fatto un lungo preambolo per dire che tra tutti coloro che hanno commentato l'omicidio del povero Alika Ogorchukwu, pochi devono avere mai fatto a botte. Ma l'avete visto il video? 

L'aggressore conosce le tecniche di combattimento, lo si vede dal modo in cui sale sopra alla vittima; è ciò che nelle MMA chiamano monta alta, qui eseguita alla perfezione. E poi quattro minuti di lotta a terra, per una persona non allenata sono un'eternità, dopo dieci secondi un cinquantenne è già in apnea. Perciò le risse sono appannaggio dei giovani. E l'omicidio di Civitanova non era una rissa, in cui bisogna essere perlomeno in due, più o meno consenzienti sul da farsi, ma un'esecuzione. Dai, smettiamola con la storia che bisognava intervenire!

Un intervento fisico, in questo caso e con questo scimmione inferocito, sarebbe stato un gesto di eroismo, che è quanto di più bello esista al mondo, non c'è musica, poema od opera artistica che lo eguagli. Eroismo da intendersi nella disposizione di chi metta la propria incolumità al di sotto di quella di un altro o di un'idea di mondo, com'era nell'Ottocento con i giovani che accorrevano ad arruolarsi per combattere per la patria; un concetto che ora, forse giustamente, ci appare fumoso. Ma come cantava Gianni Morandi: "uno su mille ce la fa", uno su mille è un eroe. No, l'eroismo non può essere preteso quale disposizione civile normale.

Se non fosse stato presente un giovane con attitudine e fisico paragonabili ai miei due angeli custodi, l'unica dissuasione avrebbe potuto essere verbale: dai, fermati, non vedi che l'ammazzi, come qualcuno gli ha gridato. Magari, meglio, lo si poteva fare assieme ad altri. Ma per intervenire in gruppo bisogna sentirsi gruppo, comunità. E siamo sicuri di esserlo ancora?

Certo, l'assenza dalla scena della fidanzata di Filippo Ferlazzo, l'assassino, è gravissima, una sua parola avrebbe potuto essere risolutrice. Ma insomma, se stai con un tipo del genere...  Imbarazzante infine è la presenza del video; un solo video a fronte delle numerose persone presenti, non facciamone dunque un comportamento di massa. 

Quel singolo video comunque contraddice le reazioni istintive alla violenza, che nel regno animale sono costituite dal dilemma fuga/attacco. Qui invece non si fugge, che sarebbe la reazione più umana, per quanto vile, ma nemmeno si attacca. Nessun animale al mondo possiede l'istinto dello spettatore, se non forse il condor, che però pregusta il suo banchetto.

Qual è dunque il banchetto che pregusta chi si ferma a filmare un omicidio con lo smartphone, forse i like su Facebook? È questa la domanda giusta da porsi, non perché nessuno sia intervenuto. "Siamo qui per fare, non per stare" scriveva lo scrittore Mario Pomilio. Ma fare un video è diverso da stare a guardare?

venerdì 29 luglio 2022

Amore e guerra, o sulla negazione della merda

Sì, è kitsch. La bellissima fotografia realizzata da Annie Leibovitz ai coniugi Zelensky e pubblicata sulla copertina di Vogue, è fuori dubbio kitsch.

Ne L'insostenibile leggerezza dell'essere Milan Kundera offre un'icastica rappresentazione del kitsch come "negazione della merda", a fare da correlativo oggettivo a ciò che lo scrittore ceco definisce, molto più astrattamente, "adesione categorica all'essere in quanto tale".

La merda dunque, e cioè il lato negativo, vischioso o con maggior precisione lo scarto maleodorante rispetto all'immagine del mondo che il desiderio realizza, può essere elusa in diversi modi. Le macrocategorie più tipiche sono due: la dimensione pubblica e quella privata, sentimentale.

In uno scenario in cui la merda invade l'Ucraina attraverso una guerra che si prevede ancora lunga e drammatica, Olena e Volodymyr Zelensky restituiscono un quadretto intimo e affettuoso, che ad alcuni è apparso fuori luogo. Sensazione che certo deriva dallo stridore – un ossimoro – con il contesto entro cui quell'idillio è calato.

Io però difendo e apprezzo l'immagine controversa: la confusione tra arti e mani che non sai più a chi appartengano, la dolente intensità degli sguardi, i toni plumbei perforati dalla luce irradiata dai volti; sembrano fondersi nell'equilibrio geometrico di una Madonna con bambino, quella di Giovanni Battista Salvi ad esempio. Tutto ciò mi piace come mi piacciono le canzoni di Umberto Tozzi, in cui le donne stirano e poi si fanno un po' prendere in giro e poi fanno l'amore, senza alcuna soluzione di continuità ma soprattutto traccia di merda.

Mi ricordano, le canzoni di Umberto Tozzi quanto i coniugi Zelensky, l'idea di illusione così come ci viene tramandata da Leopardi: qualcosa di cui riconosciamo la fallacia ma allo stesso tempo non possiamo farne a meno, già che proprio in quella fallacia si cela la possibilità di un provvisorio riscatto. Il qui e ora, proiettandosi in un altrove cronologicamente indeterminato, trova così immaginario sollievo, e naufragar ci è dolce in questo mare.

Ma esiste anche l'altro volto del kitsch, che nello stesso romanzo Kundera chiama kitsch politico. Si configura sempre come adesione categorica all'essere in quanto tale, rifiuto della merda, ma l'orizzonte di negazione proviene dagli abiti paludati su cui risplendono le mostrine dei generali, i carri armati sfilano per il corso principale mentre bambini biondi sventolano bandierine colorate, discorsi altisonanti dei leader politici in cui al pronome io viene sempre sostituito il noi, noi faremo, noi saremo, noi non ci lasceremo intimidire... E poi i rappresentanti di un qualche dio in terra che obliterano quei discorsi con sigillo divino, ne fanno profezia.

Credo che tutti abbiano riconosciuto l'immagine di Vladimir Putin. Una fotografia mai scattata da Annie Leibovitz, ma ugualmente emerge e si affianca con forza alla prima, costituendo non tanto due facce delle medesima medaglia ma un dilemma con cui confrontarci per arrivare a una scelta. Essere occidentali, aderire a questa idea di mondo corrisponde infatti ad accogliere un'ipoteca giuridica e morale – i diritti delle minoranze, la democrazia, le libertà individuali tra cui quella fondamentale di espressione – quanto estetica. L'estetica del kitsch, appunto.

Ma è il kitsch sentimentale, domestico, zuccheroso, a fare dell'Occidente ciò che è. Lo vediamo dispiegarsi cordiale nei film di Frank Capra, camminare oscillando di lato in quelli di Chaplin, oppure farsi pedagogia con i cartoon di Disney. Con esiti qualitativi non paragonabili, è sufficiente accendere il televisore durante il Festival di Sanremo. Una bugia confortevole, almeno fino a quando non ti vengono dei dubbi sulla sua natura... Si oppone al kitsch scultoreo e muscolare di Putin che cavalca a torso nudo, sconfigge l'avversario in un incontro (truccato) di judo, invade territori stranieri con la benedizione del patriarca Kirill.

Io ho fatto la mia scelta e sono per la dolce menzogna di Volodymyr Zelensky che avvolge affettuosamente la moglie, e come per magia la merda sembra scomparire dall'Ucraina. Ricorda una pubblicità degli anni Ottanta, in cui la signora Luisa arriva presto, finisce presto e di solito non pulisce il water.

giovedì 28 luglio 2022

Il potere e i palloni gonfiati, breve storia social(e)


Massimo Recalcati ha pubblicato un post su Facebook in cui (semplifico, ma il post era già molto semplificato) identifica in Bersani il responsabile delle sventure della Sinistra italiana.

Ora sarebbe facile ribattergli che Renzi è riuscito a fare di peggio - sì, proprio quel Renzi lì, che Recalcati aveva incoronato nuovo Telemaco, l'unico in grado di svecchiare la Sinistra dalle sue tare e liberarla da padri saturnini che ingoiano i figli. Renzi la chiamava più prosaicamente "rottamazione", ma il concetto è il medesimo. 

Uno dei commentatori, molto timidamente e con formule introduttive di subalternità, tipo "stante l'infinita ammirazione che provo per Lei", in effetti glielo fa notare. Ed ecco la risposta di Recalcati: "Ancora con questa storia di Renzi, ma li legge i miei articoli di politica?"

Una risposta esemplare di quello che Giuseppe Pontiggia chiamava il "linguaggio autoritario", a cui aveva dedicato venticinque anni di studio e numerosi scritti, ora raccolti nel volume "Il residence delle ombre cinesi" (Oscar Mondadori, 2009). 

Ci sono tante forme di linguaggio autoritario. Tra cui non rispondere nel merito - e in questo caso con la cortesia che l'interlocutore gli riserva - ma ribadendo il proprio status. Se non capisci, sotto testo, è perché non segui le indicazioni che provengono da un magistero superiore, e guarda caso quel Maestro sono io: Massimo Recalcati che mi firmo Mr, come il Mister pronunciato nelle interviste ai calciatori.

Dunque invece di rompermi le scatole con Renzi, dice ancora non dicendolo il Mister, impegna il tuo tempo a studiarmi, in una buona emeroteca puoi trovare tutti i miei articoli. E adesso va ad allenarti, che domenica abbiamo la partita con l'Ospitaletto.

In un tempo in cui non esistevano ancora i social, il linguaggio autoritario era appannaggio del potere: politici, militari, grandi industriali, o comunque persone in grado di esercitare un'influenza oggettiva e diffusa sul reale.

La novità storica che Pontiggia non poteva prevedere, è che quel linguaggio si sarebbe progressivamente convertito nel linguaggio di coloro che presumono di possedere una qualche forma potere, ma a ben vedere sta tutto dentro la loro testa. "Imaginaire" lo chiama Lacan, e nasce in un rapporto intersoggettivo in cui il mondo e le sue leggi scritte e non ("le symbolique") vengono esclusi. Ma non è questa la migliore definizione dei social? Esiste però anche una formula efficace nella lingua corrente, che metaforicamente identifica le persone vittime del proprio immaginario con sfere di cuoio troppo colme d'aria, altrimenti dette palloni gonfiati.

Avere qualche migliaio di follower non significa possedere un effettivo potere, ma la sua caricatura che, quando creduta, si traduce nel delirio narcisistico dei palloni gonfiati. E questa non è politica, caro Recalcati, ma psicanalisi. Se non ne ha confidenza può sempre leggere Lacan, in una buona libreria dovrebbe trovarlo senza difficoltà.

mercoledì 27 luglio 2022

Positive reinforcement

Mi piacerebbe conoscere l'interprete dello spot delle assicurazioni Beneanzi diventargli proprio amico, uno di quegli amici con cui ti fidi ad andare in ascensore senza mascherina. Una persona così non può passarti neppure un raffreddore.

Nel breve filmato lo vediamo intento in una conversazione telefonica un po’ monocorde. Dice infatti solamente bene, bene, sì tutto beeene con accento bergamasco o forse bresciano, comunque un accento che a me piace molto.

Dell’interlocutore non si sente la domanda iniziale, ma la successiva, un po’ preoccupata, riguarda i vicini di casa: "E con i vicini?"

Intanto l’inquadratura si è allargata lasciando intravedere uno squarcio circolare al centro del soffitto, e i due vicini a cui si suppone stiano facendo riferimento, in piedi al suo fianco, lo guardano esterrefatti mentre sta seduto in poltrona con indosso una camicia rosa sbottonata, sotto una t-shirt bianca a girocollo. Tutt’intorno intonaco e macerie.

Lui però, imperterrito, continua a sorridere e a dire bene, bene, bene... Tutto beeene.

Lo chiamerei anch'io ogni giorno per fare delle sedute di positive reinforcement. Riuscirebbe a convincermi che Babbo Natale esiste e io non sto perdendo i capelli.

martedì 26 luglio 2022

Caro algoritmo ti scrivo


Arisa a me non piace come cantante, come donna, come attrattore sessuale ed enunciatrice di pensieri social, che in effetti non conosco e parlo un po' per partito preso. Nemmeno, quale conseguenza di un simile pregiudizio, mi piacerebbe come amica, socio e a volte maggiordomo, per dirla con le parole di una vecchia canzone di Finardi. Insomma, credo si sia capito che a me Arisa non piace.

Eppure, ogni volta che scorro la tendina di sinistra dello smartphone, mi compaiono delle immagini di Arisa; perlopiù è nuda o, meglio, quasi nuda, con la didascalia che recita: "Arisa ci riprova."

Non so cosa stia provando a fare Arisa da qualche anno a questa parte, ma il fatto che io ne vengo ogni volta informato credo dipenda dal famigerato algoritmo, che dopo avere decifrato la personalità degli utenti tramite le pagine web visitate (giuro di non essere mai stato su YouPorn, almeno con questo smartphone) si preoccupa di anticiparne i desideri, facendoci trovare la pappa già cotta e servita.

Le continue invasioni di Arisa dentro la mia vita sono dunque una buona notizia: stanno a significare che l'algoritmo è un po' grullo, ne deve ancora mangiare, come si dice, di polenta, per capire qualcosa di vero e profondo di noi. 

Diamogli così un aiutino: se vuoi farmi contento, caro algoritmo, fammi trovare sotto l'albero del quotidiano Natale Jane Birkin oppure Anna Karina; vanno bene anche nelle fotografie in bianco e nero degli anni Sessanta, quando un po' brille uscivano da un bistrot su Les Champs-Elysées. E poi tante belle canzoni di Leonard Cohen, Paolo Conte, Nada, Brassens, Sergio Endrigo, Lou Reed, gli Alunni del Sole con la loro Liù che "si stendeva su di noi e ci dava un po' di sé, senza chiederci perché, senza chiederci perché..."

Ma deve essere Liù  ("sul letto caldo o sul divano, ingigantita dal falso piano") a stendersi sui nostri sogni più intimi. Non Arisa. Sempre e solo Arisa, basta! Mi raccomando algoritmo. Grazie.

domenica 24 luglio 2022

Bravo Brunetta!

“Mi dicono tappo o nano e ho sofferto e continuo a soffrire per questo, ma per fortuna ho le spalle larghe perché ho fatto molte cose: il professore universitario, il parlamentare anche europeo, sono stato ministro due volte. Io sono responsabile delle mie idee e di quello che faccio, non della mia altezza."

Le parole nel virgolettato appartengono a Roberto Brunetta, vengono in risposta a un post su Instagram di Marta Fascina che gli dava esplicitamente del traditore e implicitamente del nano, con la canzone "Un giudice" di Fabrizio De Andrè ad accompagnare il testo con malizia. Anche Brunetta, per Fascina, avrebbe dunque "il cervello troppo vicino al buco del culo".

Fino a poco tempo fa oggetto delle stesse sarcastiche frecciate era l'attuale compagno della deputata forzista, ed era un genere di ironia (ironia?) che non mi piaceva neppure allora; con la differenza che Berlusconi è nano in senso lato, in realtà è semplicemente basso, un metro e sessantotto o giù di lì, mentre Brunetta lo è in senso proprio.

Così è troppo facile.

Sarebbe come dire a Bocelli "fa balà l'och" (espressione milanese che significa guardati in giro, sveglia!) oppure a Zanardi che se mia nonna avesse avuto le ruote sarebbe stata la sua, di nonna.

No, sono cose che non si dicono; e non mi si risponda che la satira è sempre stata cattiva. Perché la satira sì, un po' cattiva lo può e forse deve essere, ma nel mettere a fuoco e ingigantire - per rendere evidente - un tratto del personaggio satireggiato che ha una ricaduta politica o più estesamente sociale, configurandosi quale vizio.

Ora mi si deve spiegare - e lo chiedo anche a Grillo, Benigni, Crozza ecc., tutte persone che nella loro satira sono spesso scivolate dalla sostanza alla forma, e quella del corpo è la più facile da centrare - quale vizio politico o sociale si celi nel non raggiungere il metro e cinquanta...

Nella retorica classica veniva chiamato "argumentum ad hominem": colpire la persona in luogo delle sue idee. E già allora era considerata una degenerazione del discorso.

A scanso equivoci, non sono diventato di destra e neppure un virtuoso corifeo del politicamente corretto; continuo inoltre a pensare che Brunetta sia un politico modesto e un uomo spesso aggressivo e prevenuto. Ma in questo caso ha pronunciato parole di nitida bellezza e alto valore civile. E sono felice di potergliene rendere merito.

sabato 23 luglio 2022

Vibrante protesta


A nome del Comitato dei Genitori Democratici e Progressisti che sono qui a rappresentare nuovamente, io, Aurora De Pratibelli, mi faccio carico di una vibrante protesta all'indirizzo della Facoltà di Farmacia.

In forma occulta - dunque tanto più esecrabile - è stata introdotta una discriminante sessista, che viene attuata tramite parametri di sbarramento contestuali al tentativo di iscrizione. Parametri estetici con cui vengono vagliate solamente le candidate di sesso femminile, vergogna!

Diversamente, non si spiegherebbe come mai le farmaciste, come gli eroi, sono tutte giovani e belle. E i farmacisti vecchi e brutti.

Aurora De Pratibelli, Capalbio, 23 luglio 2022

L'errore

Ho ritrovato un vecchio cappotto

di lana – lungo, un po' scampanato

come gli indumenti dei bambini,

l'avevo scordato ma forse ora

potrebbe tornare buono

ho pensato sfilandolo

dall'armadio Ikea,

un vecchio cappotto di lana

color cammello uguale uguale

a quello di Marlon Brando.

Quanto tempo... chissà

se è giusta ancora la taglia.

Così l'ho indossato in ciabatte,

bermuda, con tutto il caldo che c'era

a luglio mi sono guardato

riflesso nello specchio;

sembravo più vecchio, come Brando

quando Maria Schneider gli fa una sega

in milonga, gli altri ballano il tango

e nessuno vi bada;

in effetti, per la moda, è un po' largo.

A quel punto mi sono detto

mentre continuavo a sudare:

ecco, questo è l'errore.

Di più, di peggio, d'altro

che mai può capitarti?

Adesso va e non avere più paura.

Immanuel Ken



Basta con questi modelli degradati e degradanti per i nostri figli, siamo stufi! Ma ci sono anche delle buone notizie.

Su impulso del C.G.D.P. (Comitato dei Genitori Democratici e Progressisti) che io, Samantha De Pratibelli, mi onoro di presiedere, sono lieta di comunicare che la Mattel ha finalmente dato ascolto alle nostre numerose e pressanti richieste, ufficializzando la messa in commercio di un nuovo prodotto, da affiancare alla fortunata serie Barbie.

Diversamente dalla bambola bionda che incarna disvalori edonistici e superficiali - da noi esecrati -, abbiamo proposto di realizzare riproduzioni in plastica ecologica e riciclata di incontestabili esempi di virtù. E così è stato. Il primo di una, si spera lunga, serie di nuovi bambolotti che facciano da bussola morale a chi li maneggia, è ispirato a uno dei filosofi più grandi di sempre. Il suo nome sarà Immanuel Ken.

Samantha De Pratibelli, Capalbio, 21 luglio 2022

venerdì 22 luglio 2022

Parole galosce


Parole galosce. Alla fine sono riuscito a trovargli un nome. È una costellazione di termini - impattante, mutualità, problematica, resilienza, sinergia ecc. - che forniscono a chi li utilizza l'illusione di avere una postura linguistica: distinta, socialmente rispettabile. Nell'Ottocento si otteneva quel contegno indossando le galosce, con cui manifestare l'appartenenza a un'élite; non certo sfarzosa come l'incipriata nobiltà del secolo precedente, ma pur sempre un'élite. Alle galosce si univa la marsina, il panciotto e il copricapo a tuba, ne ritroviamo la combinazione sul corpo pennuto di Paperon De Paperoni. Adesso, senza scomodare il sarto, si dice impattante. Ma l'effetto è il medesimo.

giovedì 21 luglio 2022

Fienagione

Ho conosciuto una donna straniera che amava follemente la parola italiana fienagione. È stato tanti fa. Prima ancora è venuta in Italia dalla Svezia, ha studiato la nostra lingua a Firenze, ci siamo anche un poco innamorati, e tutto questo come conseguenza della parola fienagione.

Forse sto un po' romanzando, ma provate a farvela scorrere sottovoce tra le labbra: fie-na-gio-ne... Mica male, eh? E lasciando provvisoriamente perdere la metafora del cogliere le cose al tempo opportuno, i greci avevano un'altra bella parola per dirlo. "Kairos".

Innamorarsi serve anche a questo: non solo a guardare e trovare bellezza in un altro, ma a vedere quella bellezza estendersi e scavare dentro di noi, scoprendo che sotto le piccole meschinerie, l'auto parcheggiata in doppia fila (mai sulle strisce gialle riservate agli handicappati, però!), i due o tre bigliettini presi al banco dei salumi, nell'illusoria speranza di guadagnare a questo modo un turno, sotto tutto ciò c'è una sfera di luce che sta ancora dentro l'ombra.

Contattarla non ci rende delle persone migliori - "je suis comme je suis" cantava Edith Piaf - ma restituisce l'ovvio in forma arruffata, meravigliata, potremmo anche chiamarlo straniamento; che però non è una parola tanto bella, con tutte quelle consonanti nasali e dentali, specie quando combinate in ingorghi cacofonici, str, nt... Dalla Svezia uno non arriverebbe neppure in Danimarca, ascoltando il suono di straniamento.

Con fienagione si compie invece il miracolo. Il linguaggio quotidiano si libera dalla ruggine dei giorni, risplende di nuove possibilità, richiama la parola successiva con cui si compongono le storie; nel mio caso una storia d'amore.

Ma come nelle favole bisogna aspettare l'arrivo di uno straniero per avere la rivelazione della mappa del tesoro, e pensare che l'avevamo sotto il naso. Quindi farci tramortire dalla metamorfosi del noto in ignoto, l'erba delle cose diviene fieno in una lenta restituzione verbale, solo a quel punto può essere recisa. E poi chinarci a raccoglierla. 

mercoledì 20 luglio 2022

My mother & me, o su ciò che ho compreso dell'infotainment

Ascolto la televisione diciotto ore al giorno, tutti i giorni, ad altissimo volume. Questo da quando - è già passata una settimana - mi sono trasferito con mia madre a Chiesa in Valmalenco, un paesino con un'altitudine di mille metri dove sfuggire alla calura. Ma non ai ripetitori televisivi, che a mia madre forniscono uguale sollievo.

Il mio immaginario stereotipato si figurava le anziane genitrici intente a sferruzzare calze di lana, oppure nel gesto borbottante e contrito di recitare il rosario, a cui alternare l'ascolto di Radio Maria. Perlomeno è quanto faceva mia nonna. Sua figlia, mia madre, invece no. Solo televisione. Ad altissimo volume. È un poco sorda ma non vuole fare i controlli del caso; la sua amica Giovanna le ha detto che gli apparecchi acustici costano un botto.

Non si tratta però di sceneggiati ambientati sulla costiera amalfitana, mal recitati ma con bei ragazzi e belle ragazze che indossano abitini di cotone cobalto con piccoli fiori chiari. Neppure di quiz ridanciani, trasmissioni allarmistiche dove medici calvi ti mettono in guardia dai rischi dell'alopecia, bambini che inciampano con risate in sottofondo. Macché. Si tratta di programmi di informazione, mia madre guarda solamente quelli. Infotainment credo si dica in gergo

Provando a sintetizzare ciò che ho compreso dell'infotainment dopo 126 ore di ascolto continuato e involontario e ad altissimo volume, direi: alla mattina si discute lungamente di quel che potrebbe avvenire nel pomeriggio; al pomeriggio di quel che potrebbe avvenire la sera; la sera di quel che potrebbe avvenire il giorno dopo. Sempre avvalendosi dell'opinione di esperti in bretelle rosse, collegamenti con inviati trafelati, passanti fermati per strada mentre stanno leccando un Calippo. Fino ad arrivare a cartomanti e aruspici, scommettitori ippici, croupier, a proiettarci in una costante e incerta dilazione temporale.

È solamente nel sommario del telegiornale che si dice ciò che è successo e non ciò che potrebbe accadere. Ho cronometrato: dura in media trentaquattro secondi, trentaquattro secondi contro diciotto ore di ipotesi più o meno strampalate.

Mi è così venuta un'idea. Basterebbe che le trasmissioni di informazione televisiva venissero trasmesse in differita; una manciata di ore sarebbero più che sufficienti, andrebbero cioè messe in onda quando sono già avvenuti i fatti che si cercano di prefigurare. Io ameno mi divertirei un sacco, diventerebbe una serie del genere distopico. A raccontarci un presente alternativo, più che futuri multipli con la stessa attendibilità di un lancio di dadi.

Ad esempio: in TV dicono - parola di esperto con bretelle rosse - che Draghi salirà al Colle per confermare il suo incarico. Ma in realtà noi sappiamo che si è già dimesso, ha lasciato anche la moglie e ora si trova a Las Vegas dove ha appena sposato Tiziano Ferro con i Village People quali testimoni, Y.M.C.A. intonata mentre gli sposi escono tenendosi per mano. Che ridere una televisione così, che bella e di compagnia!

E invece no. Sono qui a Chiesa in Valmalenco ad ascoltare le maratone di Mentana. Diciotto ore al giorno, tutti i giorni e ad altissimo volume, per altre due settimane ancora. Quando si spera mollerà un poco la calura...

martedì 19 luglio 2022

Luca Serianni, cosa mi ha insegnato


Ho conosciuto Luca Serianni quattro anni fa a Poschiavo, un minuscolo borgo svizzero dove c'è grande attenzione per la lingua italiana, parlata in quel cantuccio italofono del Cantone dei Grigioni. È stata una conversazione intensa per quanto brevissima, e come giusto asimmetrica: lui sopra e io sotto; ma solo per mia disposizione, non perché mi venisse fatto pesare il suo status.

Ci ripenso, come naturale, in conseguenza al terribile incidente di cui è stato vittima. Segue un sottile senso di colpa per un intervento che ho pubblicato nei giorni scorsi. Non parlavo espressamente di lui, ma di fatto lo includevo nella categoria dei linguisti, di cui mi burlavo bonariamente. La questione a monte è però molto seria: di chi è la lingua, a chi appartiene?

La lingua è nostra sembrano rispondere alcuni linguisti, specie quelli che spopolano sul web; mi viene in mente una linguista di origini ungheresi che è severissima con le migliaia di follower, a cui distribuisce vigorose bacchette sul dorso della mano: questo non si dice, questo non si fa, io ho studiato con Tullio de Mauro che cazzo vuoi capirne tu! Impara piuttosto a usare la schwa.

Un atteggiamento che nel mio testo riscontravo anche nei traduttori; alcuni traduttori di nuovo, ma nemmeno questo specificavo. Probabilmente è la quotidiana lotta con la lingua (che conoscono meglio di me) a indurre in loro un sentimento quasi aristocratico di possesso, si manifesta in altezzoso fastidio verso i cliché più comuni e virali. Lo stesso aggettivo virale è divenuto un cliché, per non dire di espressioni erronee come carinissimo e attimino, in cui viene applicato un superlativo a un diminutivo e un diminuito a quella che già è un'unità minima e non più divisibile. I bravi traduttori questi errori non li compiono, e perciò dovremmo essergli grati.

Eppure eppure...

Eppure la lingua appartiene anche a chi dice carinissimo e attimino, in un'ideale frazionamento azionario la quota che gli spetta sarebbe pari a chi dice apotropaico. Anzi, se scattasse un'OPA per il controllo del pacchetto di maggioranza della lingua italiana, vincerebbero probabilmente coloro che ci travolgono con carinissimo di qua, carinissimo di là, aspetta un attimino; apotropaico viene ormai pronunciato solo da antropologi e snob. Certo, saremmo tutti più poveri senza il termine apotropaico, ma in mancanza di spiriti maligni a minacciarci dall’ombra, dobbiamo mettere in conto di vederne prima o poi svanire la parola.

Provando ad attualizzare il tutto con una metafora, ogni lingua è il selfie che una comunità umana fa a sé stessa in un luogo e in un tempo definiti – "sé stesso io preferisco scriverlo accentato" diceva ancora Serianni a Poschiavo, lo trovo più corretto. Subito aggiungendo con un sorriso bonario: "Però ognuno è libero di fare come gli pare". Libertà, segnamoci anche questa parola. Certo, il selfie del nostro liberissimo italiano attuale non dovrebbe renderci troppo orgogliosi. Tant'è, agli svizzeri piace ancora molto.

Ma il nostro italiano è davvero nostro, e qui torniamo al punto? No, la lingua è di tutti quelli che la utilizzano – poco importa se sei nato a due passi da Sanata Maria Novella o nel Cantone dei Grigioni –, la lingua è come la storia nella canzone di Francesco De Gregori: la lingua siamo noi. In ciò potremmo condensare l'articolato e dotto e flessibile pensiero di Luca Serianni.

Nel vivere una lingua bisogna dunque essere disposti a riconoscere e accettare i cambiamenti, cambiare parole per cambiare idea. Quindi chiedere scusa quando si rimane ancorati a vecchie fotografie, o a inquadrature troppo strette. Nel mio precedente intervento ho sbagliato a scrivere di linguisti e traduttori senza anteporre l'aggettivo determinativo alcuni, che qui ho sottolineato più volte: alcuni linguisti, alcuni traduttori.

Luca Serianni non è tra questi, linguisti e traduttori (ma anche giornalisti e scrittori e professori) che pensano alla lingua come “cosa nostra”. Purtroppo i dispacci medici sulle sue condizioni lasciano poco spazio alla speranza, ma poco è sempre più di niente; in fondo è anche questo un lascito che proviene dal magistero linguistico. La speranza è di poterlo risentire un giorno a Poschiavo o in qualsiasi altro luogo dove le parole sono importanti, "chi parla male pensa male e vive male". Ma comunque pensa, vive, non possiamo decidere per lui. È ciò che distingue una disposizione democratica dai linguaggi autoritari e di potere. Serianni non è uomo di potere, e mi ha insegnato ad amare e condividere la lingua con chi dice carinissimo e attimino.

sabato 16 luglio 2022

Calore


Ho notato che in pochi stanno scrivendo del caldo infernale di questi giorni; lo slogan è giornalistico e consunto, ma nella circostanza viene spontaneo alle labbra. Pochi ne scrivono sui social network, intendo. Mentre nei negozi – signora mia… – non si parla d’alto.

Questa distanza tra comunità virtuale e paese reale, in cui viene mendicato uno sbuffo di aria condizionata con ogni pretesto (ho visto gente fingere interesse per una cinta erniaria, pur di entrare in un negozio di articoli medicali a trovare sollievo dalla calura), mi fa sospettare che al fondo del gesto di pubblicare qualsiasi cosa sui social, di sociale ci sia davvero poco; ammesso che col termine ancora si intenda un desiderio di inclusione. Piuttosto il suo contrario: differenziarsi, stagliarsi come la voce solista nel coro.

La ratifica della propria singolarità viene però ottenuta attraverso il riconoscimento degli altri, in questo la psicanalisi ha scritto parole definitive. Siamo così disposti a un ragionevole baratto – ti riconosco per essere riconosciuto – immaginando negli interlocutori un uguale interesse; li riconosciamo anche se in effetti non sappiamo quasi niente di loro, ma poco male quando il prezzo è rappresentato da un colpetto di mouse.

Eppure è un bisogno profondamente umano quanto quello di appartenenza, in cui non ho difficoltà a vedermi riflesso; specchio specchio delle mie brame chiedo ansioso ogni mattina quando apro Facebook, chi è il più singolare del reame? Poi conto i like ai miei interventi, e capisco che non sono io... Allora mi rimetto all’opera per verificare che un io da qualche parte ancora esista.

L'unica certezza diviene il caldo che provo, un caldo fuori misura, della madonna proprio, la carne del corpo sovrasta i pensieri, è appiccicosa alle giunture, il cane mi lecca non per affetto ma sali minerali. Un impossibile refrigerio domestico diventa più urgente di sentire pronunciare il mio nome. Arrendendomi alla nuova sensazione divento ai miei occhi un perfetto sconosciuto, che a sua volta mi guarda facendosi aria con una vecchia rivista; sulla punta del naso ha un piccolo neo, strano, in questo non mi rassomiglia. All'improvviso gli dico: "Ma che caldo fa?" E l’altro, tergendosi il neo con un fazzoletto: "Minchia, proprio caldo, l’anno scorso non era così caldo, e però nel 2003…"

Un fondersi e confondersi di sudore e luoghi comuni, a recuperare quella koinè che ridimensiona ogni slancio individuale, rende uguali nell'ansimare. Lingua umile da infermieri e badanti, più che da medici. Come nelle fotografie della terra vista dai satelliti, ci mostrano quanto è piccola e surriscaldata, una pallina da tennis ricucita alla cazzo di cane. E io e tu e tutti, nella migliore delle ipotesi siamo solo dei raccattapalle, nei sulla punta di un naso. Così simili nella smania di essere diversi. Così diversi nel trovare scuse per non ammetterlo.

venerdì 15 luglio 2022

Corso di scrittura creativa per avere successo sui social


Vuoi avere successo sui social e non ci riesci? Non c’è problema, da oggi è attivo il primo corso di scrittura creativa che ti insegna come fare. Prestigiosi docenti partiranno dalle basi teoriche per arrivare ai trucchetti più smaliziati che faranno di te un vero influencer.

Il corso è online e si articola in 12 lezioni da 120 minuti ciascuna, in cui verranno sviluppate le seguenti strategie:

1) come comporre post vincenti attraverso la presenza di un nemico. Ti insegneremo a sollecitare l’indignazione, crearti degli alleati o lo stesso nemico, convertire la ferita in arma contundente e di consenso. Può andare bene anche uno sconosciuto che ti ha inviato la foto dei genitali su Messanger. Ma ricordati di indicare nome, cognome e indirizzo a cui convogliare gli insulti;

2) scrivi post brevissimi. E che siano ironici, gigioneggianti, buffoneschi. Fino a che non sarai pronto a fare il grande salto, e diventare un professionista del sarcasmo. La risata, specie quando in coro e a danno di un singolo altro (di nuovo il concetto di amici/nemico), premia sempre. È come nel gioco del tennis: se possiedi una buona battuta sei già a metà dell’opera. E poi ammicca, ammicca in continuazione, non dimenticarti di ammiccare. Per cosa? Non bruciamo le tappe, lo imparerai durante la seconda lezione;

3) appena sveglio ringrazia il signor Perugina e i suoi gustosi Baci, puoi farne anche un piccolo tempio domestico come i buddhisti. Allo stesso modo, in forma gnomica che non ammette replica, si tratta di condensare nello spazio di un biglietto, un bigliettino, un niente di carta che avvolge un cioccolatino con granelle di nocciola, valori universali che faranno di te un autentico guru;

4) le fotografie, queste magnifiche risorse! Nella quarta lezione imparerai a calamitare il consenso attraverso la pubblicazione di fotografie, proprie o dei propri cari o di bellissime ragazze poco vestite (l'ottimo sarebbe che tu, o un tuo caro, siate bellissime ragazze poco vestite);

5) nella quinta lezione proseguiremo nell’esplorazione delle potenzialità fotografiche, e alla fine sarai in grado di stupire con la pubblicazione di meravigliose foto di animali, meglio se cuccioli e meglio ancora se cuccioli vessati – in tal caso si configura come sotto categoria della prima lezione, che verrà qui sviluppata;

6) come stare sdraiati sul divano e fare il pieno di like e cuoricini mentre sorseggi un chinotto fresco. Basta pubblicare, copia incolla, una poesia o un’immagine di Alda Merini. Anche questo ti insegneremo nella settima lezione del corso di scrittura creativa per avere successo sui social;

7) Emotional rescue, il rimedio emozionale, cantavano i Rolling Stones. Lo stesso devi imparare a fare tu, e noi siamo qui per accompagnarti passo a passo: scrivi post e congedali nel pieno di una notte che il lettore si immaginerà come insonne e tormentata, post con un alto riverbero emozionale, specie se legati a una perdita. Nel caso di un uomo, il massimo consenso lo si ottiene con la morte della madre; per una donna del padre. In mancanza d'altro, vanno bene anche nonni e cugini;

8 ) contatta un episodio traumatico della tua infanzia, sentilo dentro il corpo, lascialo arrivare alle mani con cui digiti sulla tastiera e poi dai: con tutta la veemenza che ora provi scrivi contro, o a favore, è lo stesso, di Ilary Blasi e Francesco Totti. Non lasciarti scoraggiare dal fatto che si siano separati, nell’ottava lezione ti insegneremo come farli tornare assieme. Alla peggio, ci sono sempre Fedez e Chiara Ferragni.

9) quali copertine di libri fotografare, con che luci, prospettiva, per poi condividere il tutto sui social. Lo vedremo assieme nella nona lezione. Non portano molti like ma ti qualificano come una persona colta e profonda, andando a costituire un'ipoteca per i tuoi futuri post, con cui guadagnare la cima della piramide. Si, grazie al corso di scrittura creativa per avere successo sui social, raggiungerai il top del top. La gente farà a gara per richiederti l'amicizia;

10) impara a scegliere il giusto font, la campitura appropriata, non lasciare niente al caso quando dai il buongiorno, la buonanotte, il buon pomeriggio o la buona sera ai tuoi amici sui social network, a cui è fondamentale accostare immagini di fiori e tramonti. Ogni tanto alterna questo quadretto irenico con una bestemmia, sì una bestemmia se vuoi anche nel tuo dialetto di provenienza. Il lettore, incredulo, tornerà indietro per rileggere, seguiranno commenti scandalizzati. Ma tu rispondi che è certamente stata colpa di un hacker, ti pare che un animo sensibile come te scriverebbe una tale trivialità? A questo modo attiverai la principale strategia già studiata: coalizzarsi contro un comune e invisibile nemico;

11) “la bocca non è mai stracca se non sa di vacca”, recita un noto motto popolare. E tu offrigli la sensazione in forma illusoria: immagini di formaggi appena tagliati, salumi, piatti che hai appena cucinato con le tue mani sapienti, a cui accostare l’emoticon che si lecca i baffi. Se non sai cucinare ti consegneremo noi – è compresa nel prezzo – una cartella zippata con centinaia di fotografie di ricette per ogni stagione;

12) Per finire in bellezza, imparerai a comporre post nei quali vengono snobbati tutti quei lettori che non appartengono alla tua categoria professionale, sta a te farla avvertire come casta superiore. Rispondi dunque solo ai commenti di persone che si configurano come tuoi pari: gli scrittori, sui social, comunicano solo con gli scrittori, i radiologi con i radiologi, i gommisti con i gommisti e così via. Per qualche ragione che i nostri esperti ti insegneranno a riconoscere e sfruttare a tuo vantaggio, anche chi viene escluso da un chiacchiericcio tra amichetti e amichette che si danno di gomito, apprezza tali post. E si dispone umilmente in una cerchia esterna e prona di consenso.

Se inserisci il codice SNNSTRNZ avrai diritto a uno sconto del 10% sul costo di iscrizione. E allora cosa aspetti, iscriviti anche tu al primo corso di scrittura creativa per avere successo sui social! I tuoi amici proveranno ammirazione e le donne ti guarderanno con occhi diversi...

 

giovedì 14 luglio 2022

Premio Strega 2022. Così lontano, così vicino


“Nous fermons, je suis désolé.” Provano a insistere, altri due, solo due baby di whisky e poi andiamo, ma il cameriere è irremovibile. Ernest e Francis escono allora dal bistrot e si avviano lentamente per una stradina leggermente in discesa, senza parlare.

Le molte consumazioni ancora in corpo, la luce gialla dei lampioni di Parigi che si accompagna a un leggero inconfondibile puzzo di urina; proviene dai muri scrostati su cui pisciano i cani, o forse uno dei due se l'è fatta sulle scarpe. “Do you want a cigarette?” chiede Ernest accendendosene una, e poi si rigira tra le mani il pacchetto di una marca francese. Bello pensa, such a beautiful pack, ma il tabacco della Virginia...

Sul marciapiedi opposto sopraggiunge un uomo che cammina a piccoli passi svelti. Ernest dice a Francis: "Look!" Traversa la strada barcollando, sferra un pugno sul volto dell'uomo, e ritorna accanto all'amico: "Did you see?" "Yes" risponde Francis mentre l'altro scappa tenendosi il naso sanguinante, "but why did you do that?" "Perché era una fottuta checca."

È da quando è stato assegnato il Premio Strega a Mario Desiati per Spatriati (Einaudi, 2021) che ripenso all’episodio. I protagonisti sono Hemingway, Fitzgerald e un povero Cristo che passava di lì per caso. Si è preso il pugno dello scrittore  "sono più orgoglioso del mio gancio destro che di tutto quello che ho scritto", amava dire  ed è tutto quel che sappiamo di lui; nemmeno possiamo essere certi che davvero fosse omosessuale, forse ne aveva solo l'aspetto. Ma quale aspetto?

Attualizzando la scena, potremmo figurarcelo con caratteri estrinseci che ricordano lo stesso Desiati, nel momento esatto in cui sale sul palco a ritirare il prestigioso premio letterario: la pochette arcobaleno che spunta dal taschino, kajal e brillantini dorati spalmati sulle palpebre, un collarino fetish sovrasta la camicia bianca di seta, naturalmente senza colletto. Una libertà di porsi che mancava alla bohème parigina di Hemingway e Fitzgerald, su questo non c’è dubbio. E quel gesto odioso merita la più decisa riprovazione.

Sarebbe stato bello se l’episodio, anziché essere avvenuto realmente, fosse stato nelle pagine di uno dei due grandi autori americani, per mostrare ("show, don't tell") l’omofobia diffusa nel periodo, a tradire una disposizione inconscia di segno opposto. O perlomeno è quanto si sussurra di Hemingway, ma siamo nel regime del pettegolezzo postumo. Piuttosto, come collocare il travestimento di Desiati nel presente?

Certo, ancora adesso ci sono persone che scontano discriminazioni (o peggio) per le proprie scelte sessuali, o anche solo per la narrazione di sé che offrono al mondo, definita attraverso il concetto sempre più liquido di genere. Ma mi sembra che la tendenza sia quella a un’inclusione onnivora, e se una norma viene ancora affermata è perché al fondo difetta, se ne reclama in un certo senso il fantasma. Nei fatti ognuno – e sant’Iddio – fa giustamente il cavolo che gli pare.

Mi si potrà obiettare che il libro di Desiati, che non ho letto, trattava quei temi, e l’abbigliamento dell’autore aveva funzione di rafforzarne il messaggio per analogia. Va bene, non è una critica letteraria che gli muovo, e in fondo neppure una critica tout court. Ma l’effetto ottenuto è quantomeno equivoco, se non forse rivelatore di una certa idea di letteratura che si sta affermando.

Dilaga ancora il Covid, nuove guerre infiammano il pianeta – a sua volta già infiammato dal riscaldamento globale –, aumentano i poveri e diminuisce l'offerta di lavoro, e al Premio Strega che si fa? Si infila il laptop in uno zainetto e poi si va Ucraina, come fece Hemingway con tutte le guerre che ha incrociato? No, si celebra la vittoria di una battaglia già vinta, si corre come da consuetudine italica in soccorso dei vincitori.

Sono infatti segni quelli intenzionalmente esibiti da Desiati – di tolleranza, addomesticamento della diversità, festosa celebrazione del desiderio in ogni sua legittima forma – che prendono però l'abito del cliché, a fare della virtù un santino progressista. Che è esattamente quanto non dovrebbe fare la letteratura: guardare le cose frontalmente, ma per slittamenti laterali in cui la dimensione etica si precisa nelle sue ambivalenze, secondo un paradosso che la distingue da ciò che letteratura non è.

Poi il libro magari è bellissimo, ripeto, ma si avverte una sorta di fuori sincrono. Il paratesto che in questo caso ha oscurato l’opera vincente (vincente in tutti i sensi) a me ricorda Enrico Ghezzi a Fuori orario: le labbra si muovono ma la voce sta da un’altra parte. Un buon correlativo del Premio Strega 2022, così vicino al mondo com'è. Ma così lontano da una rappresentazione che ci aiuti a comprenderlo.

martedì 12 luglio 2022

My mother & Joan, part 2


Mia madre possiede come giusto delle amiche, buona parte di quelle storiche sono morte e così ne ha fatte di nuove, più vicine a dove abita.

Alcune delle nuove amiche di mia madre hanno la badante e altre si sorreggono l’una con l’altra nel camminare – è quanto fa mia madre con Giovanna, che soffre di fascite –, piccoli passi con cui raggiungono tutte le mattine i tavolini esterni del bar Meeting, dove via Parolo incrocia via Mazzini.

Oltre che dai capelli bianchi tendenti all’azzurro, si possono riconoscere le amiche di mia madre dal fatto che indossano tutte la mascherina FFP2; i familiari le hanno istruite al riguardo, severissimo è anche il mio monito: “Mi raccomando, il virus circola ancora!”

Ma quando parlano, un po’ perché sono sorde un po’ perché a essere sorde sono le altre, se l’abbassano come il bavaglino di un bebè, prima di strillarsi in faccia importanti confidenze, tra cui quella che è consentito intascare le bustine di zucchero (sì, anche quello dietetico) con cui viene servito il caffè, ma fino a un massimo di tre a testa. Parola di Giovanna, che proviene dal settore.

Dopo un po’ si dimenticano di risollevare la mascherina ed è bello osservale finalmente in viso, l'appendice di cotone pende inerme come la traccia di un'epoca remota e ormai scordata  le piramidi, il Colosseo  confondendosi con qualche collana a grani grossi; riflette i raggi del sole che filtrano dalle foglie a forma di cuore dei pioppi, l’ombrellone con la scritta Sammontana fa da cupola a quel minimo capannello.

Ma bisogna osservarle di nascosto, attenzione! Bisogna occultarsi e poi guardare con la stessa discrezione riservata alle marmotte nel Parco Nazionale dello Stelvio: se ti scorgono fanno un lungo fischio per allertarsi a vicenda, e poi scappano via. 

Lo stesso devono fare le amiche di mia madre con segnali convenuti (l’udito latita, ma la vista è ancora buonissima) non appena intravedono un figlio, un nipote o qualsiasi altro parente; quindi si rimettono immediatamente la mascherina. Aggiungendo al gesto un’espressione che parte dalle mani e raggiunge il volto, come a dire: “L’ho tolta solo un secondo, ma giuro che prima ce l’avevo…”

Politically correct, chi lo ama lo segua


Per promuovere la vendita di una t-shirt – io l’ho acquistata, il cotone è molto buono – Amazon pubblica la fotografia di un ragazzo che indossa l’indumento. Fin qui tutto normale, è quanto avviene d’abitudine. La particolarità dell’immagine sta nel fatto che al giovane manca una gamba, un dettaglio del tutto eccentrico rispetto all’intento commerciale. Al posto dell’arto naturale una protesi meccanica, messa in evidenza – i perni, gli snodi, le vitine – dai pantaloni corti a bermuda.

L’handicap fisico sfacciatamente esibito, non so se per contrasto o analogia, mi ha fatto tornare alla mente un vecchio manifesto pubblicitario, a realizzarlo furono Oliviero Toscani ed Emanuele Pirella nel 1973. Sopra a un sedere femminile di proporzioni praticamente perfette (apparteneva all’attrice e modella americana Donna Jordan) infilato a fatica dentro a jeans logorati dall’uso che si arrestano all’attaccatura delle cosce, campeggiava enorme la scritta: “CHI MI AMA MI SEGUA”, e più sotto a caratteri ridimensionati il logo del produttore.

Nell’ingegnosa macchinazione degli autori era prevista la seguente metonimia, ovviamente inconscia: se compro i jeans di questa marca, Jesus, lo stesso nome di Gesù detto il Cristo, mi iscriverò di diritto a un’umanità irriverente e priva di superstizioni religiose, che al paradiso in cielo preferisce quello mondano di un bel culo. Nel caso di acquirente femminile, per emularlo: anche a me verrà un sedere così; mentre il sogno\promessa maschile sarà quello di carezzarlo, possederlo.

A Pasolini diede molto fastidio la campagna pubblicitaria di Toscani e Pirella, e ne scrisse con la consueta appassionata veemenza sulle pagine del Corriere della Sera. Ma questa è un'altra storia. Torniamo dunque alla mia bella e nuova t-shirt, e alla gamba monca che ne fa da testimonial. In che modo potremmo riformulare, nel caso, il sotto testo, a configurarsi come esca per l’acquisto?

Non mi sembra proprio che possa essere esteso il richiamo implicito nella pubblicità dei jeans Jesus: se acquisti una maglietta Tommy Hilfiger, nella fattispecie si trattava del noto marchio americano, perderai anche tu una gamba… No, certo che no! E neppure avrai un uomo, privo di una gamba, ad allietare le tue notti. Direi piuttosto qualcosa del genere: tu, che vesti Tommy Hilfiger, sei una persona fondamentalmente buona, non discrimini le persone in base a razza, colore della pelle e neppure integrità fisica.

Insieme all’indumento, io ti vendo allora la ratifica della tua bontà. Ma attenzione: se qualcosa deve essere acquisito, confermato, significa che al fondo non ne esiste la certezza, piuttosto il dubbio. Ne scrive Platone nel Simposio a proposito della filosofia, letteralmente amore per la sapienza, concludendo che ciò che si desidera per amoroso slancio sta di necessità fuori di noi.

Possiamo a questo punto tentare un primo bilancio. Se quarant’anni fa si entrava in un negozio di indumenti a chiedere i jeans di quella marca lì… massì dai, quella dei manifesti col sedere, che un sedere così col cavolo che potevi averlo nella vita reale – problema superabile attraverso una restituzione immaginaria –, la bontà guadagna ora una scorciatoia altrettanto illusoria, a fare da sfondo alla nuova e altrettanto religiosa fiducia (chi mi ama mi segua!) nel politically correct.

Formula che, anche a tradurla nell'idioma nazionale, politicamente corretto, non significa essere buoni, ma della bontà indossare l’abito, il brand; una postura virtuosa ad accrescere il valore sociale, ciò che i sociologi chiamano status. E infatti io ho acquistato subito la t-shirt Tommy Hilfiger, di un bel blu oltremare.

domenica 10 luglio 2022

Rospi veri e giardini immaginari, un collaudo letterario

La letteratura, si è appena concluso il Premio Strega con il titolo assegnato a Mario Desiati e la consueta coda di polemiche. La letteratura... Marianne Moore, poetessa e scrittrice statunitense attiva nel secolo scorso, scriveva con icastica ironia: “la letteratura è fatta da rospi veri dentro a giardini immaginari”.

Come tutte le affermazioni perentorie è utile collaudarla, esponendola alla prova di un’esperienza vissuta. Prendiamo allora qualcosa che abbia carattere indubitabile di verità, nel mio caso corrisponde all’interesse per il suicidio, quando leggo su un giornale di qualcuno che si è suicidato corro subito a leggere: l’età, lo stato di salute, la biografia; quel poco che ne viene accennato, perlomeno. Ma soprattutto la procedura, e in che modo questa possa essere convertita in segno, un messaggio infilato dentro una bottiglia a cui non è prevista alcuna risposta.

Eppure anche nella morte, o più propriamente nel gesto di morire per propria scelta, è racchiuso un supplemento di vita (vita sottratta allo sguardo che si nasconde per essere scoperta, come avviene nel gioco del nascondino), se è vero almeno quanto scrive Pasolini che “morire è smettere di comunicare”. E se ci pensiamo, la comunicazione contenuta nel suicidio è massima, disperata la ricerca di un contatto con gli altri ma, anche, con parti interne e non comunicanti di sé.

La modalità di suicidio lambito dalle mie fantasie sempre più frequenti – sì, l’ho anticipato che il tema mi tocca personalmente, ne sono totalmente irretito – è quella del precipitare, lanciare il corpo dalla finestra come si faceva un tempo con le sigarette consumate, per vederlo infine e finalmente schiantare al suolo; le viscere che si diffondono sul selciato mescolandosi al sangue, la bile, i denti frantumati e la merda che esce dal buco del culo, quando gli sfinteri si allentano nel prendere concedo dalla vita. Un corpo che non è un corpo qualunque: è il mio corpo, posso vedermi nel disfacimento carnale.

Trovando quest’ultima parte poco estetica, Yukio Mishima si era infilato un tampone di cotone dentro l'ano, prima di afferrare un’affilatissima spada da samurai e premerla con forza contro i muscoli del ventre; muscoli addominali ispessiti da ore e ore di esercizi ginnici, nella speranza di resistere, in tal modo, alla modernità e convertirsi in scultura antica. Ma non ci era riuscito, e così il suicidio rituale giapponese, il seppuku, gli apparve come l'unico modo per riaffermare la sua ossessione. Era questo il rospo vero che lo abitava, di cui aveva scritto in decine di libri di finzione. Mancava solo un explicit che ne fosse all'altezza.

E invece no, mi accorgo adesso componendo il pensiero in parole, tra le tante funzioni della scrittura c'è anche quella di scoprire ciò che si pensa, prima ancora di comunicarlo ad altri. Il suicidio non conclude un bel niente, almeno nella percezione di quel suicida potenziale che sento di essere. Piuttosto dispone – illusoriamente, beninteso – a un capitolo nuovo della propria vita: un inizio, un esordio, certamente una liberazione. Questo è invece il mio, di rospo vero.

Ma ci sono anche i giardini immaginari. Nella fattispecie, quando pochi giorni fa ho scritto pubblicamente della mia fantasia di suicidio – e scrivendone diventava automaticamente fiction, mi era da subito chiaro –, ho aggiunto i fiori del campo santo per passaggi successivi, pennellate di colore che si integravano alla macchia di sangue centrale. In tal modo la scrittura si precisa in chiave narrativa attraverso una lieve dilazione, dopo averne offerto, come sempre faccio, una prima e goffa versione su Facebook – il mio modello di scrittura è l’happening musicale: pubblico di getto così come viene, buona la prima. Poi faccio l’editing ottenendo che lettori diversi abbiano esperienze diverse. Della serie, beati gli ultimi.

Ciò che è successo in seguito l’ho trovato molto interessante. I lettori della stesura originaria, chiamiamola “la brutta”, hanno in buona parte lasciato un like o un cuoricino, mostrando di apprezzare con una partecipazione nei commenti che davvero non mi aspettavo e ho avvertito come autentica (un altro rospo vero), in taluni casi mi ha commosso. Ma appena si è iniziato, nelle versioni successive, a scorgere una certa cura per la forma, il ritmo, gli accostamenti onirici tra memoria e presente, insomma una cornice narrativa che ricomponeva l'urlo sconnesso di dolore, quel testo ha immediatamente perso di interesse.

Attenzione: non sto dicendo che i miei pochi lettori abbiano torto, anzi hanno certamente ragione loro, ma mi pare che in questa preferenza per i rospi veri sui giardini immaginari sia contenuta un’istantanea più allargata della nostra epoca, a rendere ormai quasi del tutto pleonastica la letteratura così come è stata sperimentata nel passato, e cioè nella forma ibrida suggerita da Marianne Moore.

Le possibilità associative offerte dai social, a cui si accompagna l’offerta di media narrativi molto più accurati nel rimodulare l’immaginazione – cinema e televisione su tutti, ma anche videogiochi –, richiedono alla letteratura un approccio molto più osceno e immediato, un tutto e subito di sentimenti intimi come quelli esibiti da Fedez nel pubblicare gli audio delle sue sedute con uno psicologo. Il termine, ormai ampiamente datato, di autofiction, non corrisponde a questa urgenza di realtà senza tanti fronzoli e abbellimenti. E’ un’approssimazione per difetto.

Un gesto letterario pienamente compiuto e all’altezza dei nuovi tempi, sarebbe dunque stato realizzare il mio suicidio in diretta Instagram. Cosa che però non ho nessuna intenzione di fare, mi dispiace, sto comunicandovi una brutta notizia. E se un giorno darò seguito agli incitamenti del mio demone – dai, fallo, fallo, buttati... , sarà senza anticipazioni social, spoiler, ammiccamenti in direzione di camera. Sarà un suicidio vintage, ecco. In cui anche un rospo spiattellato su una strada provinciale viene ricoperto con il lenzuolo bianco del pudore.