venerdì 11 luglio 2025

Wanda, un'iniziazione mancata (mi ricordo 35)

Mi ricordo che girammo tutta Bologna per trovarla. Stavamo su una BMW 318 bianca con i finestrini spalancati, sull’autoradio girava una cassetta di Claudio Baglioni, l'aria quasi fresca dei primi giorni di settembre faceva dei piccoli mulinelli prima di sbattere sulla faccia abbronzata, molto abbronzata.

Entrambi avevamo passato più di tre mesi sulla spiaggia di Lacona: lui, Stefano, come insegnante di wind surf, io come aiuto bagnino; per essere onesti, il mio ruolo si limitava ad affittare i pedalò e a pulire con una spugna i piattelli degli ombrelloni. Va da sé che le ragazze più belle fossero tutte per Stefano, anche se devo dire che io ero nettamente più carino. Ma, oltre allo status inferiore, avevo una brutta grana: ero ancora vergine.

"Sei ancora vergine... Dio bon, chè a gh'è da fèr!" aveva sbottato Stefano quando glielo avevo confessato, per quanto a sedici anni a me non sembrava tanto strano. I miei amici, almeno, erano nella mia stessa condizione, tranne uno che si era messo con una ragazza più grande; avevano affittato una cantina, l'unico oggetto di arredamento era un materasso senza lenzuola su cui facevano le cose. Noi ci arrangiavamo con i giornaletti di Ilona Staller.

Tutti argomenti che Stefano non voleva nemmeno stare a sentire, chè a gh'è da fèr continuava a ripetere, chè a gh'è da fèr. Quindi aveva concluso con tono perentorio: "A-gh pèins mé."

Ma facciamo un passo indietro. Avevamo lasciato l'Isola d'Elba la mattina con un traghetto della Navarma, il viaggio in autostrada a bordo della Cinquecento color pomodoro di Stefano, con il tettuccio rotto che tenevo chiuso con una mano – la BMW l’aveva lasciata a Cento, dove viveva assieme ai genitori. Il programma prevedeva che avrei dormito a casa loro e la mattina successiva sarei ripartito in treno verso Sondrio, con una breve digressione milanese per il concerto della PFM.

L’estate appena trascorsa verrà ricordata per le prodezze di Paolo Rossi, ma, nella stessa squadra che allo stadio Bernabéu vinse i campionati mondiali di calcio, c’era anche un giocatore diciottenne con dei grandi baffi neri, forse per l’aspetto precocemente adulto veniva chiamato Zio. Stefano era l’esatto opposto di quel giocatore, eterno nipote in tutto aveva l'espressione di Gatto Silvestro nell'avvicinarsi alla gabbietta di Titti. Chè a gh'è da fèr, e terminati i tortellini preparati dalla madre eravamo montati sulla BMW alla volta di Bologna.

Ma perché proprio Bologna?

Fu la prima cosa che gli chiesi. La risposta non mi fu del tutto chiara, con il dialetto emiliano vado a intuito, e tra le cose intuite la presenza di una di quelle anziane prostitute definite nave scuola, batteva per strada nella periferia di Bologna. “Tótt ché a-gh sàn pasè” aveva aggiunto Stefano con un mezzo ghigno, come se già pregustasse il piumaggio biondo di Titti.

Ma perché proprio lei? lo incalzavo. In fondo stiamo parlando del lavoro più vecchio del mondo, oltre che tra i più diffusi. Un po' riluttante, voleva farmi una sorpresa, Stefano mi rivelò così la ragione della sua fama, per cui arrivavano fin dal Veneto. Dopo essere salita in auto, Wanda, non ricordo il nome ma chiamiamola a questo modo, come in una canzone di Paolo Conte, Wanda si toglieva la dentiera e la poggiava sul cruscotto. Quindi cominciava a fare con la bocca ciò che si fa in queste circostanze.

Non so se fosse compresa anche la presenza di Stefano quale pubblico, ero già talmente spaventato che non ho osato chiedere, ma è improbabile che avrebbe ceduto l'auto a un sedicenne, perdipiù vergine. Senza aggiungere altro cominciammo a cercare Wanda.

Per quasi due ore girammo per i luoghi che lui conosceva bene. Rotonde, slarghi, cavalcavia di cemento armato, nei viali semideserti l'eterna lotta tra gatti e topi. Le insegne illuminate dei distributori di benzina sembravano uscite da un dipinto di Edward Hopper. Di tanto in tanto qualche nero (a Sondrio erano ancora una rarità) traversava la strada dinoccolato, mentre sparuti gruppi di ragazzi si saldavano attorno a un grumo pulsante di nulla, o forse stavano solo smazzando il fumo. Ma di Wanda nessuna traccia.

Iniziava a farsi sentire la stanchezza del viaggio dall’Isola d’Elba, io avevo il braccio anchilosato per via del tettuccio. Ci fermammo a un chiosco e ordinammo due piadine e tre lattine di Peroni. Perché tre? “Sà mo mai ch'a la catén la fémma”, aveva risposto Stefano non ancora rassegnato. "Vôt brîsa dèrgh da bèver?" Ma poi eravamo montati sulla BMW e tornati a Cento. Avrai, avrai, avrai, le parole di Baglioni suonavano ora come una burla.

Ogni tanto mi capita ancora di pensarci, tipo quei film in cui vengono messi in scena dei futuri ipotetici. Intendo: nel cono di luce di un lampione, ecco, all'improvviso compare Wanda. È proprio come me l’ero immaginata, non troppo alta, rotondetta, seno tra il grande e l’enorme. Nei capelli vaporosi tinti di rosso si intravede la ricrescita bianca, il ginocchio destro è sbucciato come accade ai bambini quando cascano dalla bicicletta. Fingiamo di non accorgerci di niente e la facciamo montare sui sedili posteriori, dove la raggiungo.

Non servono tanti convenevoli, sa benissimo perché Stefano le ha portato il suo giovane amico, e così si leva in slow motion la dentiera e mi sorride dischiudendo un cratere di mucose. Poi però sembra indugiare, deve avere intuito il mio terrore. “Dâi, putlèn” mi sussurra all'orecchio, “làset andèr…” e quasi quasi le do retta. Ma con uno scatto inatteso cala in picchiata, e come una lumaca mi ritiro nel guscio, la natura reagisce al pericolo sempre nello stesso modo: fuga o attacco. Nelle condizioni attuali non passerei il casting per uno di quei giornaletti con Ilona Staller, non ho nemmeno la scusa che fa freddo.

Mi scuoto dalla fantasticheria, ma non so se rallegrarmi oppure essere dispiaciuto per il diverso corso delle cose; la prima vera volta è stata con una ragazza di cui ero innamorato perso, non con una prostituta sdentata di quaranta, facciamo pure cinquanta anni più vecchia di me. Il mulino bianco ha trionfato.

Da dove allora questo sentimento di malinconia? È come se un dio dispettoso avesse infranto il neon del lampione di Wanda, un colpo di fionda ben assestato a cui è seguito il buio, l'ombra ha risucchiato un pezzo di mondo che è rimasto potenziale. Non è importante se sarebbe stata festa o, è più verosimile, squallore. Era la mia vita, che cavolo! E per averla indietro la posso solo raccontare.

giovedì 10 luglio 2025

Cristoforo Colombo telefonava in auto, o sui limiti dell’immaginazione

Quando acquistai il primo telefono portatile la cosa che mi sorprendeva ed eccitava di più era la possibilità di telefonare in auto. Ripensandoci, era molto più sorprendente poterlo fare sulla ruota del Prater, oppure nella gabbia dei leoni del circo Medrano, o ancora facendo sci d’acqua nel golfo del Tigullio… Eppure, il primo pensiero era andato all’auto: che figata, adesso posso telefonare in auto!

A decenni di distanza credo di averne compreso la ragione: i film americani, nei film americani la gente telefonava in auto – lo fa, ad esempio, Humphrey Bogart in Sabrina, una pellicola del 1954 –, ed ora la mia vita poteva trasformarsi in un film americano. La fantasia si disorienta se non si assegna dei limiti, per questo i poeti hanno inventato la metrica. E a Cristoforo Colombo dovettero spiegarlo più volte: “Guarda che sei arrivato in America, non in India.” “America... Belin, cöse l'è sta Mèrica?!"

Ma l’America era troppo grande, troppo nuova e grande perfino per l’immaginazione, che ha bisogno del trampolino del noto ber spiccare il suo balzo. Come a dire che anche Cristoforo Colombo telefonava in auto.

Felicità, un dubbio eudemonico

Per essere felici sostiene Charlie Brown, lo confida alla sua amica Piperita Patty in una striscia dei Peanuts, bisogna avere due cose: un lago è un’auto convertibile. Quando c’è il sole abbassi la capotta e ti fai un giro con la tua auto convertibile, l'autoradio a palla, un cappellino da baseball e gli occhiali da sole enormi. E quando piove? Beh, quando piove si riempie il lago.

Mi capita spesso di pensare a questa semplice strategia, non fa una piega, al punto che ho cominciato a comporre delle varianti. L’ultima che mi è venuta vede la felicità come risultato del possesso di un monolocale a Gaza e di un materassino gonfiabile. Quando cala la notte ti rincucci nel tuo monolocale a Gaza, e quando, all’alba, l’esercito israeliano comincia a bombardare, gonfi il materassino e vai al mare.

Ma che succede se invece bombardano la sera?



mercoledì 9 luglio 2025

Un bambino (mi ricordo 34)

 


Mi ricordo di un bambino di cinque anni con i capelli biondi, lisci, lo stesso taglio dei Beatles prima che andassero in India e si facessero crescere la barba. Indossa degli occhiali con la montatura di celluloide, su una delle lenti è stato incollato un cerotto traforato che serve a stimolare l’occhio pigro. Il bambino di cinque anni con i capelli biondi, lisci, lo stesso taglio dei Beatles prima che andassero in India e si facessero crescere la barba si chiama Davide; è il fratello di un mio compagno di classe delle elementari di nome Federico. Ora frequentiamo entrambi la prima media, ma in istituti diversi – Federico va alla Torelli con la sua bicicletta Saltafoss dorata, io alla Sassi con un’Olympia color ciliegia –, e però giochiamo a pallacanestro assieme e così continuiamo a frequentarci. “C’è Federico?” chiede Davide al citofono; che era lui l'abbiamo capito senza bisogno di presentazione, non c’erano molti altri bambini di cinque anni che citofonavano nei pomeriggi invernali, quando già alle quattro del pomeriggio il sole dilegua dietro al Pizzo dei Tre Signori. “Federico… No, non è qui. Ma tu sali" risponde mia madre, trovando forse strano che Davide girasse da solo in città, e poi con quella temperatura – la neve accumulata al bordo dei marciapiedi, come il gelato alla stracciatella, viene guarnita dalla cacca dei cani. Entrato in casa viene fatto accomodare su una sedia in cucina, ha le mani intirizzite e i piedi non raggiungono le piastrelle in graniglia. “Vuoi qualcosa di caldo da bere?”, ma poi ci ripenso e gli mostro una bottiglia conica di Fanta. “Oppure da leggere” aggiungo, “un albo di Topolino, Asterix... in soffitta dovrei ancora avere i fumetti di Nonna Abelarda?” “No, aspetto Federico.” Abbiamo provato a spiegargli che non era certo, diciamo pure poco probabile, che Federico arrivasse, anche se eravamo rimasti amici e giocavamo a pallacanestro assieme nella Sondrio Sportiva. “Aspetto Federico”, non dice altro. Un mantra ripetuto guardando dritto avanti, in direzione del frigorifero, lo fissa con il suo occhio pigro e azzurrissimo, la cocciuta fede di Cristoforo Colombo nello scrutare l'orizzonte con un lungo cannocchiale. Prima o poi quel frigorifero si sarebbe aperto e sarebbe uscito Federico. Chissà come è andata a finire, magari un successivo trillo di citofono, sono Federico, mio fratello è lì?; chissà dove cavolo si trovavano i genitori – a cui comunque Davide sembrava poco interessato –; e insomma chissà se qualcuno è venuto a riprendere quel minuscolo pacco postale... Ma evidentemente le cose in qualche modo si sistemarono, e ogni tanto mi capita ancora di incrociare Davide quando viene da queste parti, mentre Federico è morto a ventun anni in un incidente stradale. Stava rientrando con la Fiesta rossa del padre da una discoteca di nome King, era una di quelle notti già fresche in cui l’estate si contrae, i gatti cominciano a cercare la via del fienile e fanno sogni algebrici gli studenti rimandati in matematica. Il mese precedente tutta Italia parlava della Valtellina per via dell’alluvione, un evento che per la prima volta ci aveva fatto sentire al centro di qualcosa, riconosciuti e perfino amati come parte di un tutto fangoso; un'ebbrezza che sembrava riflettersi nei giovani sulla pista a riquadri luminosi del King, l’unico problema si presentava con It’s a Sin dei Pet Shop Boys: non sapendo bene in che modo andasse ballata, alcuni scuotevano il corpo come se fossero traversati da scariche elettriche micidiali. Adesso l’occhio azzurro di Davide deve essersi dato una mossa, ha smesso di essere pigro e non ha più cerotti a coprire una lente degli occhiali; è un architetto di cinquantatré anni, separato, con due figli; si è fatto crescere la barba alla John Lennon anche se ha perso qualche capello, ma nel complesso si mantiene bene. Incredibile come la voce sia rimasta identica a quella di Federico, l’unica traccia viva che conservo del mio compagno di scuola. 

martedì 1 luglio 2025

Il processo Grillo, o sulle irragionevoli ragioni del pisello

Non entro nel merito del processo al figlio di Beppe Grillo, Ciro, accusato dello stupro di una studentessa diciannovenne insieme a tre amici, tutti più o meno della stessa età della vittima oltre che rampolli della buona borghesia genovese; particolare che non me li rende troppo simpatici, confesso. La mia antipatia, a pelle, per gli imputati, mi renderebbe poco attendibile; a ciò si aggiunga la scarsa conoscenza della vicenda avvenuta nell’estate del 2019, e più in generale del Codice di procedura penale.

Proviamo allora a guardare alla materia da una prospettiva diversa. Il procuratore capo del Tribunale di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, ha appena richiesto una pena detentiva di nove anni, che oltre ad apparire particolarmente consistente solleva una questione filosofica. La ricaviamo dalle motivazioni: le condizioni (verosimilmente alcoliche) della vittima le impedivano di esprimere il proprio consenso; detto in altre parole, non era cosciente di cosa stava facendo. E quattro figli di papà che scopano a turno una ragazza incosciente fanno schifo. Questo possiamo anche dirlo, la condanna estetica non ha bisogno di tre gradi di giudizio.

Però l'accusa rilancia questioni antiche e mai risolte – lo stesso la difesa, beninteso –, e mi chiedo se la specie a cui apparteniamo disponga di qualcosa come un rilevatore di coscienza… Intendo: come faccio a sapere se un'altra persona, in quel preciso momento, è davvero cosciente oppure no? A ben vedere, è lo stesso dubbio etico che si sta dischiudendo con l’intelligenza artificiale.

Certo, nel caso di una ragazza ubriaca degli indicatori esistono eccome (andatura pencolante, voce strascicata etc.), ma il punto esatto di confine è sempre discrezionale; per altro, se è discrezionale nella vittima deve esserlo anche negli accusati, tanto che nel diritto ciò rappresenta un’attenuante alla pena, fino al suo completo stralcio perché non in grado di intendere e di volere.

Ma anche questa formula, che abbiamo sentito centinaia di volte, sottende una visione fin troppo ottimistica delle competenze psichiatriche, che dovrebbero dirimere la materia. E ciò perché non esiste una teoria generale della coscienza – in realtà ne esistono molte, ma in conflitto tra loro.

L’unico modo per uscirne sarebbe quello di fare sottoscrivere un’autocertificazione di coscienza; un modulo da compilare prima di ogni transazione umana, non necessariamente sessuale: “Io, Tal dei Tali, sono cosciente delle mie azioni, anche tu lo sei e intendi ricambiare il bacio che sto per darti?” Non vi fa venire in mente qualcosa… Massì, la frase rituale pronunciata dagli sposi sull’altare. Un modo di procedere nemmeno tanto estremo, nei college americani già si stanno attrezzando.

Certamente utile nelle controversie giudiziarie, questa eventuale dichiarazione non ci direbbe però ancora nulla sulla natura della coscienza, dal momento che oltre a esistere la menzogna una persona incosciente, per definizione, non è cosciente nemmeno della propria incoscienza, e in tal caso potrebbe sottoscrivere qualsiasi cosa.

Per tornare alla filosofia, ricorda il celebre paradosso di Epimenide, nato a Cnosso nel VI secolo a.C. Il quale affermava: Tutti i cretesi mentono. Ma se mentono, mentirà anche Epimenide, e questa frase è falsa. Allo stesso modo, se le persone incoscienti pensano di essere coscienti, chi ci dice che una persona che si dichiara cosciente non sia invece incosciente? 

Si dovrebbe allora concludere, con Pascal, che il cuore possiede delle ragioni che la ragione non conosce. Per non dire il pisello, organo ampiamente mutevole nelle dimensioni quanto nelle intenzioni.

lunedì 30 giugno 2025

La povera gente

Dei personaggi pubblici mancati negli ultimi anni, quelli di cui ho sentito maggiormente il lutto sono stati Lucio Dalla, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Mariangela Melato, Nadia Toffa, Eleonora Giorgi, Silvio Berlusconi e Papa Francesco.

Se i primi quattro trovano una giustificazione nei miei interessi e passioni, Nadia Toffa ed Eleonora Giorgi mi sembravano donne senza sovrastrutture glamour, con una naturalezza volta al bene; ho seguito distrattamente la loro carriera professionale, ma alla notizia della scomparsa ho sentito stringersi il diaframma.

Quanto alla compresenza degli ultimi nomi, mi procura un vago senso di imbarazzo  forse una parte di me ritiene blasfemo infilare nello stesso paniere la massima guida spirituale, almeno in Occidente, e il massimo puttaniere.

Eppure Berlusconi aveva saputo trasmettermi quell'illusione di familiarità  non ero così ingenuo da credere di essere ricambiato  che te lo faceva percepire come un parente un po' eccentrico, lo zio mattacchione che ha fatto fortuna in America e quando torna (naturalmente in Cadillac) regala cappelli da cowboy a tutti. Non ti piace il cappello da cowboy? Non c'è problema, ha lì bello e pronto anche il piumaggio da Toro Seduto, e dopo un paio di bicchieri tutti nel lettone di Putin, dove può finalmente raccontare storielle licenziose.

Ma se dovessi fare il crudele gioco della torre, non sarebbe lui, e nemmeno Bergoglio, a rimanere in vetta, e piuttosto Enzo Jannacci.

Mi capita spesso di pensare: cosa avrebbe detto di questo Jannacci, e di quest'altro? La politica, ad esempio. Nella sua ultima intervista cercarono di farlo sbilanciare sull'argomento, ma lui driblò la domanda con la consueta stralunata grazia; era un campione nel non rispondere, salvo poi accorgerti che in quelle frasi smozzicate aveva nascosto una perla. Dopo avere bofonchiato qualcosa che non ho capito, come se un ventriloquo stesse facendo prove di sincronia con le labbra, finalmente parole quasi comprensibili:

"Io non vengo mica qua perché sono fanatico... vengo qui per vedere i ragazzi che sono cresciuti... eh... sono contento che ci siano... ma non perché sono di fede cristiana, o di fede religiosa socialista... anzi, io spererei che fossero tutti come mio padre... come me... che pensassero agli altri, alla povera gente."

Non credo che un manuale di filosofia politica riesca a dirlo in forma più esatta: pensare agli altri, alla povera gente. Sì, Jannacci è il performer, il cantante, il medico, il musicista e perfino il politico che mi manca di più. Ma soprattutto mi manca la persona, l'uomo. Un uomo che, come suo padre, pensava agli altri, alla povera gente.

domenica 29 giugno 2025

Cani e gatti

Brassens sosteneva di preferire i gatti ai cani perché non aveva mai visto un gatto poliziotto. Si potrebbe obiettargli di non avere mai visto nemmeno un gatto aiuto bagnino, oppure un gatto che guida i ciechi su marciapiedi trafficati, un altro ancora con al collo una botticella colma di brandy, da offrire alle persone disperse nella neve come si dice facciano i cani San Bernardo.

Una contrapposizione, quella tra cani e gatti, in effetti molto umana, a riflettere categorie antropologiche opposte: farsi i cazzi propri senza arrecare alcun danno al prossimo, o, in alternativa, provare a mutare le sorti del mondo, in ciò utilizzando chiavi di lettura e prassi che saranno di necessità discrezionali, talvolta perfino poliziesche?

La risposta esatta (quella con cui vincere a un quiz di Amadeus) ovviamente non c'è, e così dobbiamo affidarci a vecchi proverbi popolari. Forse la gatta non si arrischia verso la polpa della vita, ossia il suo lardo, per non lasciarci lo zampino, trovando in un'adesione misurata e vagamente zen la giusta misura, mentre il cane morde quando non gli è stato insegnato ad abbaiare in modo articolato le proprie istanze. È un fatto che chi non fa, non sbaglia. 

sabato 28 giugno 2025

E adesso? (mi ricordo 33)

Mi ricordo di un gioco che chiamavamo pallabuio. Per giocare a pallabuio bisognava scendere la doppia rampa che conduce ai box del condominio accanto, dove vivevano il dottor Grimaldi, sua moglie Pia e i quattro figli, due maschi e due femmine concentrati attorno al pilone centrale degli anni Sessanta, come se quest'epoca fosse un circo in cui scagliare bambini nel mondo. Assieme al più grande, Francesco, avevamo realizzato una teleferica che univa le nostre camerette, con la quale potevamo scambiarci i fumetti di Skorpio, Capitan America, Tex; quando i nostri genitori non erano in casa, anche Lando e Maghella. Le istruzioni per la teleferica stavano sul Manuale delle Giovani Marmotte, erano bastate una cesta di vimini e la cordicella dello stendipanni: agganciandola a una pallina da tennis viene stabilito il primo contatto tra la stazione di monte e la stazione di valle, da raggiungere con un lancio calibrato. Nello stesso edificio in puro massiccio stile geometrile, i coniugi Flematti, secondo piano, scala B, con il figlio Giuliano che ne sapeva sempre una più degli altri; accanto l'appartamento di suo cugino Fabio, il padre beveva solo Campari e una volta si è addormentato in macchina, ce ne accorgemmo perché la testa era rimasta posata sul clacson; Silvia, primo piano, ma scala A, aveva due fratelli e i fratelli di Silvia avevano due biciclette da corsa, il colore era quello dell'acqua dei ruscelli; il Pittino e la Pittino, figli del signor Pittino e della signora Pittino, mi sfugge adesso la collocazione spaziale, e da sempre i loro nomi di battesimo: venivano chiamati con il solo cognome, a distinguerli il genere dell'articolo determinativo; sotto la pensilina che dà su via Parolo, il bar della Pelosa e, all'angolo, dove adesso c'è la sala con le macchinette rubasoldi gestita dai cinesi, quello dei genitori di Claudio; lì ho assaggiato per la prima volta il frappè alla fragola fatto con le bustine, trovandolo molto più buono che con le fragole naturali; dal parrucchiere Dino potevamo finalmente sfogliare i fotoromanzi, le donne erano di una bellezza rassicurante mentre i maschi somigliavano al figlio dell'impresario che viveva nell'attico: pantaloni a zampa di elefante, giubbetti di pelle attillati, capelli lunghi e scuri e lisci alla Panatta, ma con in più le basette; sopra all'appartamento dei Grimaldi il ragionier Pizzala, un pezzo d'uomo, al contrario della moglie che era piccolina e mi chiamava sempre caro; la figlia più giovane si chiamava Adele e doveva avere preso la statura dal padre e la dolcezza dalla madre, tutti pensavano che da grande avrebbe fatto anche lei i fotoromanzi; tutti noi, almeno, che ci infilavamo nel buio vero dei garage per giocare a pallabuio. Calciavamo a turno un pallone di plastica da ricercare poi a tentoni e chi lo trovava doveva risalire senza essere notato. In caso contrario, gli altri potevano fargli qualsiasi cosa per sottrargli la palla, da posare in un preciso punto in superfice  il gioco si faceva ora un po' simile al rugby – dove il sole abbaglia, si riflette sulla basculante posteriore dell'alimentari Paini, illumina la pista tracciata con la vernice rossa per giocare con i tappi della gazzosa, disegna ombre oblique filtrando dai raggi delle biciclette dei fratelli di Silvia; prima di immergersi anche loro nell'abisso dei garage, le appoggiavano al contrafforte di cemento che separa il cortile dal giardino delle due zitelle, al centro del quale svetta, tutt'ora, un grande pino, sotto a cui Maria Assunta sorseggiava acqua con l'orzata nei caldi pomeriggi di fine giugno. E sopra ogni cosa il filo sottile della nostra teleferica, di tanto in tanto si posava qualche rondine, erano le prime a scorgere il fortunato che aveva sottratto la sfera preziosa al regno delle tenebre, si avvicinava alla meta col fiatone e la stessa espressione di Antoine Doinel quando, al termine dei 400 colpi, raggiunge la costa atlantica a cui era diretta la sua fuga dal riformatorio, piccole onde di risacca già gli lambiscono i piedi, si gira, guarda in camera, e sembra chiedersi: e adesso...?

giovedì 26 giugno 2025

плачущие мужчины

A me piace questa cosa dei russi che piangono tra maschi. Non è poco virile piangere tra maschi, per i russi almeno. Il maschio piangendo rimane maschio, meglio ancora diventa uomo, lo status biologico non viene intaccato, ma il sentimento lo accresce di una dimensione storica. A noi, fin da piccoli, è stato insegnato il contrario: se piangi sei una femminuccia.

A dire il vero io non conosco tanti russi, ma lo sostiene Paolo Nori in un suo scritto. Una volta Paolo Nori stava parlando con un camionista russo e fa una citazione da Puškin. A quel punto il camionista scoppia a piangere, lasciando l'interlocutore confuso. Allora il camionista lo abbraccia e gli sussurra all'orecchio: "Tu sei venuto fin qui dall'Italia... e conosci le parole... dalla tua bocca le parole del nostro Aleksandr Sergeevič... Non è commovente?" E così anche a Paolo Nori vengono gli occhi umidi.

Io ho pianto una sola volta assieme a un altro maschio. Era il mio medico della mutua, stavamo nel suo studio che si trova in un bel condominio al termine del Lungo Mallero Diaz, a Sondrio. Uno può pensare che mi aveva appena rivelato l'esito funesto di un esame  in effetti i miei esami del sangue, nell'ultimo periodo, non sono tanto belli, ma invece no: sono io ad avergli rivelato una cosa, una canzone di Vinicio Capossela per la precisione.

Io e il mio medico ci conosciamo da tanti anni, e così per fargli capire come mi sentivo  Come ti senti? era stata la sua domanda  ho tirato fuori lo smartphone e avviato l'audio della canzone su YouTube. La musica è ripresa da un brano di Thelonious Monk, Abide with me, il cui titolo a sua volta richiama un inno sacro del 1847, scritto dal curato scozzese Henry Francis Lyte è stato rielaborato da Capossela. Intanto, nella sala d'attesa c'è una persona che aspetta con le gambe accostate come le statue egizie; è un cinese sulla settantina, e dunque non è vero che quando i cinesi si ammalano non si curano, e non curandosi muoiono, e una volta morti vengono fatti sparire.

Io e il mio medico continuiamo ad ascoltare. Nessuno dei due parla, da lati opposti fissiamo un identico punto sulla scrivania  forse una ricetta medica, non ricordo , mentre le note raggiungono la sala d'attesa, dove sta seduto compostamente il cinese. Quando la canzone termina e rialziamo lo sguardo ci accorgiamo che stiamo entrambi piangendo.

Lacrime, proprio. Fuoriescono dalle sacche lacrimali di due maschi caucasici adulti, cosa facciamo adesso sembrano chiedersi, nel locale adiacente si intravede un lettino a cui è accostato lo sfigmomanometro. Intanto, un cinese continua ad aspettare il suo turno. Chissà cosa avrà pensato nell'udire le note di Thelonious Monk accompagnate dalla vocina stridula di Capossela... Grazie a Dio non doveva essere una cosa urgente, alla mia uscita con il fazzoletto in mano era ancora vivo. L'ho salutato con tono di scusa  ogni luogo ha le sue pratiche, e non si fa lo sci d'acqua in piscina  a cui ha risposto con gli occhi alla maniera dei gatti siamesi. Ma anche fosse morto, non avrei visto i manifesti funebri. 

Di seguito, il testo della canzone che si intitola Sopporta con me, dall'ultimo album di Vinicio Capossela, Sciusten Feste n 1965

"Sopporta con me, mio Signore
Per ogni evenienza, sopporta con me
Sopporta con me
Gli eventi precipitano, le tenebre sprofondano
Signore, con me
Sopporta tutto questo
Dove l'aiuto degli altri fallisce
Quando non basta più e il conforto svanisce
Aiuto dei senza aiuto
Sopporta con me
Soprattutto la sera

Ai margini del breve giorno della vita
La gioia della terra cresce e continua
Ma la sua gloria passa
Tutto intorno quello che vedo cambia e decade
Oh, ma Tu che non cambi mai
Insomma, sopporta con me

Non ti chiedo la carità né parole di conforto
Per chi mi hai preso
Per uno dei tuoi discepoli, eh, Signore
Familiare, disponibile, paziente, libero
Solitario
Non tenermi compagnia
Ma abbi il coraggio almeno una volta
Di sopportare con me

Non venire nel terrore come il re dei re
Ma delicato e gentile con ali di sentimento
Con lacrime per tutti i peccati
E un cuore nuovo per ogni necessità
Vieni, amico dei peccatori
Sopportiamo insieme

Nella mia testa continua a sorridere
Come nella prima giovinezza
E nel frattempo ho attraversato ribellioni e perversioni
Che non mi hanno più lasciato, ma io ho lasciato loro
Almeno alla fine, oh Signore

Sopporta con me
Sopporta con me, ne ho bisogno come le ore
Hanno bisogno di passare
Cosa, se non la grazia
Può alleviare il potere delle tentazioni
Chi, se non Tu stesso
Potrà guidare il mio restare
Sole e nuvole, Signore
Sopporta con me

Non temo nulla, se ci metteremo d'accordo
Il malessere è senza peso
E le lacrime non sono amare
Dov'è la punta della morte
Dov'è sepolta la vittoria
Trionferò lo stesso
Se Tu solo sopporterai con me

Resisti fino al passaggio
Prima che gli ochi mi si chiudano
Brilla nella nebbia e indicami il cielo trasparente
Il mattino irrompe in paradiso
E l'ombra inutile della terra sparisce
In vita e morte, Signore
Di questo davvero ti prego
In vita e in morte, Signore
Sopporta con me
Di questo davvero ti prego
Sopporta con me"



sabato 21 giugno 2025

Il viaggio del criceto

 

Mi ricordo che a ogni primavera c’era un oggetto, perlopiù si trattava di un capo di abbigliamento, come un dio moderno e po' fru fru emergeva da coltri di nubi vaporose, imponendosi abbagliante alla vista per richiedere il tributo dei fedeli, che prontamente si genuflettevano nell'offertorio laico degli acquisti. Il battage pubblicitario, versione aggiornata del catechismo, a posteriori mi appare minimo, e con eccezione dei jeans Jesus (“chi mi ama mi segua” stava scritto sopra un bel culo di femmina) era davvero il fato a stabilire quale dovesse essere l’epifania stagionale del sacro, che solo per eufemismo veniva chiamata moda. Faccio fatica a individuare una cronologia, ma nella memoria fa capolino, da principio, la t-shirt del film di Celentano Yuppi-Du, a cui associo le magliette Fiorucci con due putti che campeggiavano sul petto di ragazzi un poco più grandi di noi; quale surrogato, ci restavano le Fruit of the Loom: rigorosamente bianche, potevano avere l’effige grande – un paniere di frutta di stagione, come recita la formula inglese del brand – oppure più piccola e discreta, stampata proprio sopra al cuore. Quindi, in ordine sparso, le scarpe sportive Tepa oppure Mecap; la spessa suola in materiale plastico veniva percepita come morbida, a conferma che una potente fede riesce a modificare anche le informazioni dei sensi. Si continua con giacche a vento leggere ripiegabili a marsupio, il marchio è tornato in auge e si distingue per il cromatismo della fettuccina su cui scorre la cerniera; ancora jeans, ma questa volta Wrangler, Levi’s, Lee, Roy Roger’s, Jean's West; nelle sere estive si indossavano gilet di cotone Benetton color pastello anche se si schiantava dal caldo; un camicione dai colori sgargianti e disegni geometrici spopolava sulle spiagge, dove veniva venduto da africani itineranti (allora non li si chiamava ancora “vu’ cumprà”, ma non era ritenuto offensivo il termine negr@), mentre tra noi bambini si convenne che fosse la blusa di Sandokan; il Montgomery, o Duffle Coat, segnò l'irruzione dell'abbigliamento militare nel cazzeggio sul corso, più tardi replicato dai bomber degli aviatori americani, giacconi camouflage, bermuda con le tasche laterali; si distinguevano i compagni dall’eskimo verde e i camerati dal giubbetto di renna con i polsini a calza; negli inverni innevati erano i Moon Boot a tenere banco, nella doppia versione plastificata e pelosa; l'egemonia dei Ray Ban venne brevemente contesa da occhialoni da sole giganteschi e neri, a cui seguì una più smilza versione a specchio da sci: al centro della montatura in celluloide il galletto tricolore, simbolo della Francia; rientrati dal mare si continuavano a calzare le ciabatte infradito e quelle in lattice semitrasparenti, da scoglio, che effettivamente erano molto comode per cercare i granchi negli anfratti calcari, meno per giocare a calcetto all'oratorio Don Bosco; gli zoccoloni olandesi e gli stivaletti con la cerniera e le espadrillas e le Clarck’s, a suddividere nuovamente la mistica del consumo in categorie antropologiche alternative, ma tutto sommato complementari; i pantaloni a zampa di elefante non hanno bisogno di commento; la minigonna la minigonna la minigonna, bisogna ripeterlo almeno tre volte per sottolineare quanto quel fazzoletto di tessuto fu dirompente; i più desiderabili erano però gli indumenti ottenuti con i buoni di altri acquisti, io e mia cugina avevamo la maglietta gialla del formaggino Tigre, mentre mio cugino più grande gli aveva preferito quella di Yuppi-Du, da cui siamo partiti. Ed era davvero un partire per ritornare, una circolarità scandita da mode che avevano la puntualità ricorsiva delle rondini, dove l’abbigliamento non serviva a distinguere ma a farti sentire come gli altri, incorporava in una trascendenza incarnata e totalmente democratica. Fu con gli anni Ottanta che le cose cominciarono a mutare: la promiscuità festosa delle vesti, senza darlo a vedere alla maniera del trucco di Silvan, venne sostituita dalla versione pop del concetto junghiano di individuazione; a garanzia di unicità, la firma dei sarti che cominciavano a venire chiamati stilisti, brutto segno... Si affermò così una disposizione elitaria: non indosso, come negli anni Cinquanta, la giacca grigia e la camicia azzurra perché lo fanno tutti, ma esibisco l’aquilotto Armani per essere diverso dal branco. In realtà, fu una mutazione gattopardesca, e continuammo a vestirci allo stesso modo, solo spendendo il quadruplo per avere la pecetta Stone Island a fare da bandiera sulla manica sinistra, sorta di proto tatuaggio indolore del conformismo balneare. A conforto, l’illusione dei criceti che questo muoversi da fermi rappresentasse un viaggio: verso il vertice sociale, il top, il privé del Billionaire, e non più rannicchiati nel tiepido ventre della storia.

giovedì 19 giugno 2025

Europa sì Europa no... Un collaudo

 


L’Eurovision rappresenta la più verace rappresentazione dello stato attuale dell’Europa. Roberto Benigni, ospite negli scorsi giorni a Propaganda Live, sosteneva (in realtà concionava, ma è il suo stile appassionato e glielo concediamo volentieri) che ci troviamo per la prima volta di fronte a una generazione antropologicamente europea: i giovani chattano con stranieri conosciuti su Instagram, si muovono da una capitale all’altra del continente frequentando l’Erasmus. In realtà, l’Erasmus esiste dal 15 giugno del 1987, dunque sono quasi quarant’anni, ma è un’approssimazione cronologica veniale, andiamo al sodo e cerchiamo di capire se è vero quanto affermato da Benigni?

Per collaudarne il pensiero, di cui la frase citata rappresenta una minuscola sintesi, la versione estesa sta in un suo saggio appena pubblicato da Einaudi, per farlo basta appunto sintonizzarsi sull’Eurovision. I pochi masochisti che ci hanno provato si sono ritrovati catapultati in un mondo alieno: il cantante sloveno in tutù fucsia che trilla in falsetto, la belloccia danese ha una pinna in testa e la coda da sirenetta, un altro si presenta con il pigiama rattoppato di Super Pippo; anche noi facciamo la nostra parte con il pur bravo Lucio Corsi, che a uno spagnolo dell’Estremadura deve però fare lo stesso effetto di quello che a noi appare un campionario di freaks.

No, l’Europa musicale non esiste, in suo luogo un coacervo mal assortito in cui è impossibile identificarsi. Eppure non è sempre stato così. Innestandosi sulle basi gettate già dall'Impero romano, con Carlo Magno si consoldida un clima culturale affine, che, malgrado le numerose guerre, si è più tardi precisato in prassi condivise, perlopiù in campo artistico. Per Modigliani fu naturale trasferirsi a Parigi nel 1906; e dove volevi che andasse, a Pisa o Poggibonsi? Lo stesso durante la guerra civile spagnola, giovani che provenivano da tutto il mondo ma in particolare dall’Europa: i più a dare manforte alla Repubblica, altri, in orbace, avevano voglia di menare le mani per Franco. Eh già, perché la Spagna è in Europa, e questo veniva percepito prima ancora che pensato.

Un sentimento di appartenenza che ha scavallato, di qualche anno, il termine del secondo conflitto mondiale. Pensiamo ancora alle arti: i film italiani neorealisti e la nouvelle vague francese; dal medesimo luogo, una forma canzone diversa: Edith Piaf, Aznavour, Jacques Brel; i dischi di Brassens risuonano infinite volte a casa De André; intanto, Berlusconi canta Charles Trenet sulle navi da crociera, mica Gino Latilla o Claudio Villa.

Dell’Europa dell’Est, divisa da una cortina proverbialmente di ferro, si sa poco, mentre i tedeschi stanno schisci dopo il casino che hanno combinato, giusto con i wurstel fanno breccia. Al contrario i vincitori: prima arriva l’onda lunga americana (bastano il flipper e il chewing gum a ridefinire il mondo), quindi l’influenza britannica che culminerà con la Swinging London e l’esplosione del fenomeno Beatles. Ma non è finita. Dal Portogallo la rivoluzione dei garofani e la voce di Amália Rodrigues; Alekos Panagulis, in Grecia, si oppone al regime dei colonnelli e diventa un eroe epico nelle pagine a lui dedicate dalla compagna, Oriana Fallaci; ma anche il sirtaki danzato da Anthony Quinn in Zorba il greco, e Georges Moustaki che intona: “Con questa faccia da straniero sono soltanto un uomo vero anche se a voi non sembrerà. Ho gli occhi chiari come il mare capaci solo di sognare, mentre ormai non sogno più…”

Aveva forse ancora senso, nel 1982, per la Nannini riferirsi a un generico ragazzo dell’Europa, uno che non pianta mai bandiera, che trova sempre un passaggio per andare più in là (la ragione più comune era sfuggire al servizio di leva obbligatorio), ma dei suoi simili si è in seguito perso traccia. Sì, i giovani parlano ora l’inglese meglio di quanto lo facessimo noi, qualche viaggetto con l'Interrail, ma quanti hanno imbracciato un fucile per difendere l’Ucraina dall’invasione russa, o più cautamente canticchiano i brani dell’Eurovision? Nemmeno di Barbara, la più grande chansonnière francese del secolo scorso – una voce di vetro, l'aveva definita Adriano Sofri , nessun italiano si ricorda; se gli chiedi una cantante di nome Barbara, ti rispondono Barbara Streisand.

L’Europa è stato un grande sogno elitario, ma con una base narrativa autenticamente popolare. Ora si è però trasformato in vuota retorica nelle piazze convocate da Michele Serra, a cui la ex meglio gioventù accorre in taxi o con vecchi vesponi Piaggio, in una replica farsesca dei tragici slanci novecenteschi. Spiace dirlo, perché quell’idea ci sarebbe anche piaciuta. Come viene detto in un’altra canzone: è inutile rifare un letto ormai disfatto. Eppure è ipotizzabile un elemento positivo in tutto ciò, un'inaudita condizione di libertà dall'ipoteca dei luoghi, e più che cercare di diventare postumani come vorrebbe Elon Musk, possiamo finalmente essere pan-umani – homo sum, humani nihil a me alienum puto, già recitava Publio Terenzio Afro – e chi se ne frega dell’Europa!

mercoledì 18 giugno 2025

I negozi di giocattoli a Teheran e Tel Aviv

 

La scrittrice Deborah Gambetta lamenta su  Facebook un eccesso di visceralità nei commenti social sulla guerra. Sono d’accordo con lei – tendenzialmente, a parte la sua masochistica passione per Sanremo, sono quasi sempre d’accordo con Deborah Gambetta –, anche perché lo scrive molto meglio di come l’ho riassunto. Aggiunge che vorrebbe piuttosto capire, essere documentata, leggere fatti, indizi, scorci verbali di prima mano, e non per sentito dire da un opinionista su la7. Prevale invece una tifoseria da curva sud, che indossa la bandiera politica meno lorda di sangue.

Tutto vero, di nuovo. Ma ho l’impressione che chiedere a un social questa attitudine realistica sarebbe come chiedere a Malgioglio di vestirsi e parlare come Luca Cordero di Montezemolo. The medium is the message, voglio dire. Però anche su un social o, forse, soprattutto su un social, è possibile compiere uno scarto laterale, e disporsi alla maniera di Holden Caulfield quando arriva a Central Park. Di fronte allo stagno dove nuotano placide le anatre, si chiede: Ma dove andranno quando in inverno l’acqua gela...?

Non è difficile. Basta farsi domande apparentemente sciocche che però sciocche non sono, rendendo l’astrattezza del mugugnare geopolitico cosa viva, e la vividezza emotiva meno ovvia e rabbiosa. Ad esempio: dopo un bombardamento, i negozi di giocattoli chiudono oppure rimangono aperti? E nella seconda ipotesi, venderanno di più – è il meccanismo psicologico di difesa per cui si dice che la vita continua, deve continuare – oppure meno? Ancora. Gli orsetti di peluche nei negozi di Tel Aviv, sono uguali o diversi da quelli esposti nelle vetrine infrante a Teheran?

domenica 15 giugno 2025

Guerra 2.0

Di questa guerra schifosa mi pare che l'unico elemento di novità – novità altrettanto schifosa, beninteso – sia quella di colpire i vertici della fazione opposta per mezzo di droni. Uno strumento di morte fino a ora nelle sole possibilità di Israele, che ha già assassinato decine tra politici, fisici nucleari e alti graduati dell'esercito iraniano.

Ma immaginiamo uno scenario ipotetico in cui le guerre avvengano unicamente così: non alla base ma al culmine della piramide sociale; capi, insomma, che si prendono a cornate con altri capi, alla maniera di cervi nella stagione degli accoppiamenti. Il tutto senza vittime tra la popolazione civile, e nemmeno tra le truppe dei coscritti – che è poi sempre popolazione civile attorno ai vent'anni, a cui è stato ficcato un elmetto in testa e imposta una divisa.

Ovviamente non è ciò che sta avvenendo, e da qui la schifezza già più volte sottolineata, ma solo un minimo segno (vediamolo come il puntino bianco nella porzione nera del Tao) di ciò che potrebbe accadere nel futuro: il ribaltamento del concetto stesso di guerra, dove, al grido altrettanto imposto di Viva l’Italia!, i giovani fanti si lanciavano nel tentativo di conquistare una gibbosità del suolo. Le provviste alimentari, caricate sul dorso di muli dallo sguardo rassegnato, non bastavano per tutti, ma ci pensavano le mitragliatrici asburgiche a fare selezione, mentre Luigi Cadorna osserva la carneficina da lontano, ben riparato e al caldo. "Se qualcuno indietreggia: sparategli", ordinava ai sottoposti. 

E invece no, nella replica 2.0 della Prima guerra mondiale sarebbe proprio Cadorna l'obiettivo dei droni, sarebbe Cecco Beppe tradito dai baffoni a manubrio, BUM, colpito e affondato, sarebbe Vittorio Emanuele III a fare da parafulmine con la sua sciaboletta. In un certo senso, gli anarchici avevano già prefigurato il cambio di prospettiva. Ora, la tecnica, lo rende possibile. E non è necessariamente una cattiva notizia: che se la vedano tra di loro, lasciando i popoli a giocare a tresette senza il morto, a calcio balilla, o a fare l'amore, l'amore, con le infermiere. Già che per fare l'amore non è indispensabile essere prima feriti da una scheggia di granata, come il protagonista di Addio alle armi. Sì, che sia davvero un addio alle armi.

venerdì 7 marzo 2025

Mi ricordo 32

Mi ricordo di una festa pomeridiana nella taverna dei fratelli Mazzera. La villetta stava a pochi chilometri da Sondrio, la raggiunsi in College, un motorino in voga nei primi anni Ottanta. L’avevo acquistato di seconda mano dal figlio di un vetraio, che gli aveva fatto sostituire marmitta e carburatore per rendere più gagliarde le prestazioni.

Di loro avevo sentito molto parlare, venivano nominati sempre assieme, i Mazzera, come un duo comico o una famiglia circense. Io non li conoscevo personalmente ma erano in classe con un mio amico, il quale aveva esteso l'invito alla festa. Il maschio, più vecchio di un paio d’anni, era stato bocciato un paio di volte, così da ricongiungersi con la sorella. Erano arrivati da pochi mesi, prima stavano a Roma dove il padre era dirigente di qualche ente pubblico; delle ombre sulla sua gestione dovevano però aver portato al trasferimento in provincia. Qui non mancava di rimarcare uno status superiore, condiviso dai figli.

Lei bionda, tonica, scattante, molto brava nel gioco della pallamano; lui indossava con ogni clima un giubbetto di renna e degli occhiali Ray-Ban a goccia, l'abbigliamento dei fascisti, ma non sono certo che valesse nella circostanza. Più che alla politica sembrava interessato alla sua Zundapp 125, a cui si dedicava con materna sollecitudine.

Entrambi erano desiderabili e desiderati per unanime consenso, come tutte le cose che rinunciano alla complessità, riflettendo l'ambiente che ne ospita le forme tendenti a un piacevole anonimato. Non era difficile farsi delle fantasie sessuali, specie se si immaginava l'uno a cavalcioni della Zundapp (il mio College truccato dal figlio del vetraio, al confronto, era un triciclo) e l'altra con le braghette attillate da pallamano.

Arrivai alla festa intorno alle 15, scoprendo di essermi sbagliato: iniziava un’ora dopo. “Entra, entra pure” mi disse cordiale la variante maschile dei Mazzera; non si era levato i Ray-Ban nemmeno nella semioscurità della taverna, solcata dai lampi delle luci stroboscopiche. Poi si diresse nel garage accanto, dove immaginavo fiammeggiare la sua amata creatura, e mi lasciò con la sorella che stava al centro del locale. Dalle massicce casse dello stereo fuoriuscivano le note sornione con cui inizia Bette Davis Eyes.

Lei non disse nulla, nemmeno un cenno del capo. Quando al sintetizzatore si unisce la grancassa e poi il basso elettrico, cominciò a muovere i fianchi, quindi ad accompagnare il ritmo della canzone con minimi scatti del corpo; più che una danza, ricordavano le finte a pallamano. Solo al refrain si avvicinò e, ricalcando con accento romano la voce roca di Kim Carnes, mi strillò in faccia: “And she'll tease you, she'll unease you, all the better just to please you…” E dopo avere lascito il suo alito di Big Babol sulla mia pelle, si girò per continuare la solitaria partita di pallamano.

Probabilmente, nel tempo che seguì, arrivarono gli ospiti, si stapparono le Ceres, iniziò la festa. Probabilmente. Ma tutto ciò è scivolato nello scolo dell'oblio, è rimasta solamente l’immagine guizzante della Mazzera: una divinità pagana che gioca a pallamano con gli effetti di ciò che proietta (la sfera tiepida che sentivo sgorgare dal mio petto non doveva esserle nuova, poteva farci quel che voleva e ne era consapevole), mentre il fratello carezza il sedile morbido della Zundapp.

Forse il ripresentarsi di questa memoria – tra il sonno e la veglia è il momento in cui si manifesta con maggior frequenza – sta a significare qualcosa, è una metafora, una metonimia inconscia, chissà… O forse è la vita a essere così: una rapida serie di finte per spiazzare la difesa, prima che le palpebre calino sugli enormi occhi azzurri di Bette Davies.

domenica 5 gennaio 2025

Voglio solo amore. Mi compri la borsa Chanel?

Nelle intercettazioni sull’inchiesta che riguarda il generale Buscemi e la presunta circonvenzione, da parte di otto spogliarelliste, dell’anziano militare ora defunto, si leggono le trascrizioni di alcuni messaggi a lui inviati. Non è l’oggetto che colpisce – il tentativo di spillargli denaro, appunto – ma la forma, che possiamo iscrivere nel registro letterario del grottesco. Aldo Nove o Paolo Villaggio, per intenderci.

Ma quale letteratura può ancora scaturire, mi chiedo, da una realtà che già si presenta in forma di oltranza comica, l’esagerazione tipica del genere è già compiuta in un quotidiano che non potrebbe essere più assurdo?

Ciò che risulta buffo alla lettura proviene infatti dal superamento di un limite (il famigerato patto di sospensione dell'incredulità con il lettore), che dunque deve essere presente, un incredibile ordinariamente creduto non è più sfondabile dal grottesco, e si affloscia nei goffi tentativi di comici maldestri. Gli scrittori dovrebbero fare causa alla realtà, gli sta sottraendo lavoro, come i figli di Buscemi stanno facendo causa alle spogliarelliste.

Le quali hanno però un formidabile argomento a loro difesa: noi stavamo lavorando al nuovo canone letterario, per fare comprendere anche al più zuccone tra di voi in quale mondo stiamo vivendo. E in effetti, leggendo le seguenti parole, agli atti della Procura di Roma, toccherebbe dargli ragione. E assolverle per aver compiuto il fatto:

1) “Voglio solo amore. Mi compri la borsa Chanel?”

2) “Voglio essere la tua donna, ma credi di potermi dare per oggi 110 euro?”

3) “Amore oggi facciamo solo una bottiglia. Però domani mi paghi il parrucchiere.”

4) “Voglio essere la donna che ti ha catturato il cuore. Voglio solo amore da te. Generale, sei il mio eroe! Mi dai 2.000 euro?”

sabato 4 gennaio 2025

La guerra è bella anche se fa male


Un filmato sta facendo il giro del web. È stato girato l’anno scorso con la camera nascosta nell’attrezzatura di un soldato ucraino, ma diffuso solamente ora. Si intravede la lotta corpo a corpo che ingaggia con un militare russo, è di etnia probabilmente yakut, dunque con fattezze asiatiche. Le immagini sono confuse, almeno prima di raggiungere una specie di stallo, come quando nelle zuffe infantili qualcuno gridava arimo, versione condensata di arimortis, e ci si fermava per ripigliare fiato. Poi si ricominciava a darsela di santa ragione o, con maggior frequenza, si andava a sciacquarsi a una fontanella, valutando i danni agli indumenti più che alla faccia. Non era raro che si concludesse il tutto con un Cornetto Algida da leccare assieme.

Qui però nessun gelato è previsto, se non nelle temperature esterne durante gli scontri. Il russo è riuscito a sferrare una pugnalata che risulterà all’altro fatale, entrambi lo intuiscono. Il primo a parlare è l’ucraino, di cui non vediamo mai il volto: “Aspetta, lasciami morire in pace. Mi hai completamente squarciato.” E dopo una pausa affannata: “Lasciami respirare. Fa molto male.”

Il siberiano ha un orecchio tagliato, il sangue cola sul suo volto, l'intero ovale ne è ormai ricoperto. Replica con voce non meno ansimante: “Hai combattuto bene.”

Insiste l’ucraino: “Lasciami andare via in pace. Non toccarmi, sono finito. Lasciami morire”. Quindi si accorge di un nuovo movimento della lama: “Uomo, non ci provare! Lasciami morire... Vai via. Lasciami morire da solo, voglio andarmene da solo."

Il russo riesce a liberarsi dalla mano con cui, contraddicendo le parole appena pronunciate, l’altro rimaneva avvinghiato al suo giubbotto antiproiettile. Indietreggia. L’ucraino lo ringrazia: “Grazie. Sei il miglior guerriero del mondo”. Poi prende fiato e ripete: “Sei stato il migliore. Addio”.

“Addio” risponde il russo. Si allontana per afferrare il fucile, ma poi ritorna e domanda per l’ultima volta: “Come stai?”

“Bene. Addio.”

Il dialogo finisce qui, presentandosi già composto in forma di letteratura; anche perché ho accompagnato la visione delle immagini solamente nella prima metà, poi non ce l’ho più fatta e ho distolto lo sguardo; le frasi che riporto le ho lette in un commento giornalistico. Ed è la prima volta (e sospetto anche l’ultima) che scorrendo il giornale diretto da Mario Orfeo mi sembrava di udire la voce di Omero, oppure di essere catapultato tra le pagine di Junger. L’emozione ha generato una sorta di cambio di stato, da orrore, sgomento, è diventata bellezza. Quando Francesco De Gregori canta che “la guerra è bella anche se fa male” probabilmente si riferisce a una simile esperienza.

Nelle guerre antiche ce n’erano a migliaia di momenti così, rappresentavano un’iniziazione pratica a valori – pienamente umani – come onore, rispetto, coraggio, lealtà, abnegazione di sé verso un’ideale astratto di virtù, ad esempio la Patria. Detto per inciso, Patria, con la maiuscola, è un concetto che ora ci fa sorridere, ma non il sentire a esso implicito, per il quale il perimetro angusto dell’io non rappresenterebbe il culmine dell’evoluzione. C’è qualcosa di più grande a cui offrire (se proprio richiesto…) anche la vita, qualcosa che ci dischiude a identificazioni allargate.

Un io più esteso ma non inclusivo, ecco. Lasciamo provvisoriamente perdere le questioni di genere o le minoranze da tutelare. Possiamo chiamarlo noi, possiamo chiamarlo altro o ancora meglio non chiamarlo affatto, solo percepirlo. La bellezza della guerra sta in fondo tutta qui: è un’iniziazione percettiva, introduce alla vastità psichica innominata e priva di confini geografici, che la psicologia moderna cerca ingenuamente di marcare. Eppure Eraclito ci aveva avvertito: "per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell'anima: così profondo è il suo logos." 

Ma non è l’unica iniziazione possibile, penso. A maggior ragione non lo sono le guerre moderne, di cui l’episodio riportato rappresenta in fondo un anacronismo, sostituito da missili, droni, gas e altre vigliacche mediazioni tecniche, utili non a risparmiare vite umane ma a distogliere da tale percezione: che oltre l’umano consueto (quello che alle 17.30 in punto stacca il suo turno in ufficio) ci sia lo spazio per uno sfondamento. No, non è l’unica iniziazione, ne sono sempre più convinto. La guerra non è l’unico modo per squarciare l’illusione che coniuga in prima persona singolare.

Ed è allora alle nostre vite senza trauma, o trapuntate da micro traumi sprovvisti della funzione iniziatica, che il filmato dei due combattenti consegna il compito di andare oltre: oltre Caino che si scaglia contro Abele, oltre l’oltre raggiunto nel rito sacrificale, oltre la guerra insomma, scrigno di una bellezza difficilmente reperibile altrove. La loro indicazione è di non replicarli, cercando un’estensione psichica altrettanto capiente ma che non faccia male. Vivere in pace senza un’esperienza iniziatica di natura espansiva – la sola razionalità non ci è mai arrivata –, ora più che mai si dimostra sterile utopia. Le numerose guerre riaccese nel mondo ci ricordano che, per evitarle, si deve prima evitare di sostare troppo davanti allo specchio. Ogni specchio è una menzogna da infrangere, e porta sfiga non farlo.

sabato 28 dicembre 2024

Mi ricordo 31

 

Mi ricordo di averla conosciuta in un bar all’ingresso di Ardenno, di fronte alle scuole elementari dove mio padre era direttore didattico. Proveniva da uno di quei paesini in Brianza nei quali o si gioca basket o si costruiscono mobili o entrambi. In Valtellina era venuta per trascorrere il Ferragosto assieme ai nonni materni, è raro vedere un volto nuovo da queste parti, e tocca riconoscere che aveva un volto davvero grazioso.

Le offrii un Cuba Libre – come faceva a sapere che ne avevo appena ordinato uno anche per me? – e cominciammo a parlare. Ma dai, sei iscritta a Filosofia, pure io sono iscritto a Filosofia… Che coincidenza! E poi il cinema, incredibile, le piaceva John Cassavetes, Gloria era uno dei film preferiti da entrambi. Passammo presto alla letteratura. Hai letto Mentre morivo? Non so chi lo chiese, ma l’altro annuì prontamente. La scena iniziale, Cash che costruisce la bara per la madre ancora viva, batte col martello fuori dalla finestra della camera in cui agonizza, ci commuoveva.

Sul maxischermo scorrevano intanto le immagini concitate di un incontro di wrestling, un bestione tinto di biondo si gettava, dopo essersi issato sulle corde a bordo ring, su un altro bestione che rantolava al suolo. Se ci cascava ogni tanto lo sguardo era per ridacchiare di un intrattenimento tanto sciocco: ma come fa certa gente a divertirsi con queste pagliacciate?

Sulla musica di sottofondo, degli Eurythmics, di nuovo concordavamo: Annie Lennox è un vero portento! Fu così tutta la sera, se lei diceva di preferire Schopenhauer ad Heidegger io annuivo convinto, mentre se affermavo che il PSI ormai faceva rima con pizzette Catarì (l’avevo letto sul settimanale satirico Cuore) le si illuminavano i grandi occhi azzurri, e le nostre teste cominciavano a oscillare in sintonia come i cagnetti di pezza posati sul lunotto posteriore delle station wagon.

Allora dobbiamo rivederci, concludemmo a fine serata. E in effetti la rividi la domenica successiva al lido di Colico.

Camminava in riva al lago assieme a un carrozziere più vecchio di noi di una ventina di anni – sarà un altro parente pensai, uno zio, ecco –, il fisico scolpito da ore e ore e di palestra, e martellate alle lamiere contuse. Somigliava un poco al bestione biondo dell'incontro di wrestling. Il costume da bagno minuscolo rendeva epico il passaggio, gli sguardi della spiaggia erano tutti per lui. Solo il mio continuava a cercare quello di lei, chissà se mi avrà visto...

Fu mentre mi alzavo per andare a salutarla che vidi le loro mani congiungersi, e dirottai il movimento delle gambe verso il bar, dove ordinai un Cuba Libre, il nostro cocktail. Nostro, che bell’aggettivo. Il tarlo non si era ancora dissipato. Scorgevo infatti un’altra coincidenza, un carrozziere… tiene la mano proprio a un carrozziere.

Tre giorni prima un cretino, distratto dai bacetti che la fidanzata gli stava dando sul collo, mi aveva centrato nella fiancata dell'R4 rossa, e ora dovevo portarla in riparazione. Il guaio che la precedenza era sua. Potrei chiederle se mi presenta il carrozziere, magari mi fa uno sconticino.