lunedì 18 marzo 2024

Soluzioni mitiche a problemi reali

James Hillman suggeriva di cercare i miti antichi nelle figure aggiornate del presente. Alcuni sono facili facili, che so: scorgere Ares dietro alle fattezze slave di Putin o Afrodite nella zia Patrizia del film di Sorrentino (quando si toglie il costume turchese e si sdraia sul barcone non è più la zia Patrizia e nemmeno Luisa Ranieri, ma davvero la più bella tra tutte le divinità), come vedere nei ventisei centimetri del fallo di Rocco Siffredi la versione 2.0 di Pan. Ma si può fare di meglio. Questa mattina, ad esempio, chiuso per quasi un'ora nel tubo di una risonanza magnetica da tre tesla con solo lo spazio di un accendino Bic a separarmi dalla parete ricurva, ho avuto l'intuizione. Non un cinquantenne parecchio malconcio all'interno di una sofisticata apparecchiatura medicale di nuova generazione, ma mi ero trasformato nel profeta Giona: il suo Dio gli dice di andare a predicare a Ninive ma lui non gli dà retta, e si dirige invece a Tarsis non sentendosi all’altezza dell'incarico. La teologia successiva l'ha chiamata vocazione, dal latino vocare, chiamare, ma forse si tratta di qualcosa più simile all'indirizzo sulla cartolina. Ogni vita è una cartolina alla ricerca della giusta cassetta delle lettere in cui imbucarsi, che farà sorridere chi l'attende: Qui c'è il sole, Romoletto ha vomitato dopo avere mangiato le cozze. Baci e abbracci! Poi sono arrivate le mail che hanno coinciso con il crollo delle vocazioni, non solo religiose. Ma torniamo a Giona. Allo scoppio di una violenta tempesta confessa la sua negligenza ai compagni di viaggio, i quali lo gettano in mare per tornare in pace con Dio; sotto testo: il tentativo di sfuggire a destini postali impegnativi produce effetti ancora più impegnativi. Intanto, bisogna trovare il modo di uscire dal ventre della balena in cui finisce... Pinocchio ha lo stesso problema con il pescecane, “l'Attila dei pesci e dei pescatori” aggiunge Collodi, dove incontra Geppetto che gli confida di essere stato mangiato due anni prima “come un tortellino di Bologna”. Ma non è la stessa condizione di essere ingoiati dal budello della risonanza magnetica? Alla luce di queste vecchie storie le mie tribolazioni sanitarie cominciano ad avere un senso, e forse anche una via d’uscita, sia pure di servizio, la porticina defilata che imbocca Truman al termine del Truman Show. Magari basterebbe farla finita di fare il burattino sui social, oppure il somarello – Mangiafuoco mi ha graziato già una volta, ma ho dilapidato le sue cinque monete d’oro –, e andare una volta per tutte Ninive dove inventarmi qualche cazzata da raccontare.

domenica 17 marzo 2024

Un eroe dei nostri tempi

 

Da un paio d’anni, come molti, ho cominciato a pronunciare il termine geopolitica. La ragione è tristemente nota e coincide con l’invasione russa dell’Ucraina, a cui sono seguite le tensioni nell’Oceano Indiano per Taiwan, l’attentato di Hamas del 7 ottobre e la spropositata reazione israeliana. Ai droni che volano nei nostri cieli corrispondono così nuovi vocaboli, ci frullano in bocca per imitazione dei commentatori televisivi, era già avvenuto durante la pandemia. Allora si parlava di immunità di gregge, spillover, proteina Spike, oggi di zone cuscinetto e choke points nella navigazione mercantile.

Di certo un segnale, perlopiù brutto, quando i linguaggi settoriali diventano di uso comune, travisati nel quotidiano chiacchiericcio. È quanto pensavo ieri sera assistendo alle prime due puntate di Supersex, la serie su Netflix ispirata alla vita di Rocco Siffredi. Gli attori sono tutti bravi e in particolare Alessandro Borghi (perfetta la sua replica della risata equina del pornodivo), scaltra e veloce la regia che scongiura sbadigli o la tentazione di controllare le mail sullo smartphone, sostenuta da una sceneggiatura sempre all’altezza. Eppure, mentre si passava da una gangbang a una doppia penetrazione, continuava a venirmi in mente quel termine: geopolitica.

Come se esistesse anche una geopolitica dell’immaginario – a differenza della pseudoscienza a cui si richiama non deriva da luoghi fisici, ma da luoghi altrettanto comuni che sono quelli del linguaggio. La lingua somiglia alle formine con cui da piccoli ricompattavamo la spiaggia di Rimini in figure. Di tutto ciò la biografia di Rocco Siffredi è stemma plastico: per quanto ben allestita, ciò che trasmette la fiction è la natura elementare del protagonista, vuoti slogan le frasi da lui pronunciate, stelline di sabbia che si disfano alla prima onda. Una personalità dalle reazioni sempre prevedibili, pavloviane, e ciò in buona e cattiva sorte, secondo la formula matrimoniale. Quando sono proprio le difficoltà a consentirgli di riconoscere la sua vocazione  "Tieni dinamite tra le gambe!" lo sprona il fratello , ed è fuori dubbio che scopare a quel modo lì rappresenta un talento. Insomma, tutto in Rocco Tano in arte Siffredi è porno. Ma che cos’è il porno?

Potremmo guardare al porno come a un altro codice settoriale. Possiede infatti una funzione tecnica limitata nel tempo e nello spazio: serve a offrire lo stimolo masturbatorio ai maschi tra i tredici anni e l’andropausa, e nostalgia in chi l'ha superata. Non sono richieste altre qualità, sarebbero addirittura d’intralcio, inutili complicazioni, una volta create le condizioni fisiologiche necessarie a quell'antico gesto della mano il porno ha terminato la sua funzione. Nessuna simbolica dunque, nessuna profondità, prospettiva umana. E non per difetto, ma per statuto operativo. Come è avvenuto per la geopolitica e la virologia il porno ha però finito con lo smarginare i suoi confini, caratterizzando con la meccanica stimolo-risposta-eiaculazione ampi aspetti della vita associata; per dirla col tono pomposo dei filosofi: si è fatto mondo. Un esempio? I social network.

Con il porno i social condividono l'iconicità, la rivelazione più che l'ammiccamento, la coazione a ripetersi in assenza di complessità, di psicologia se non nella sua degradata forma behaviorista. Il legante è costituito dal ritmo monotono e martellante (tum tum tum), in un rapporto tra contenuti condivisi e reazione dei follower che deve essere consumato nel tempo di una copula e concludersi con una sborrata rigorosamente in faccia, qui surrogata in forma di like. Dopo avere consegnato il proprio segno/seme di gradimento non sono perciò contemplate soste meditative, elaborazione critica del messaggio, orecchiette a cui tornare sulla pagina del libro, come dopo il latte versato durante una sega si spegne subito il televisore. Che poi esistano le eccezioni non contraddice l'assunto base: il linguaggio si fa specchio dell’universale, non del particolare.

In un occidente psichico sempre più a forma e misura del porno, Rocco Siffredi, campione di medietà e di affabile banalità (di nuovo quella risata equina che fa capolino come memento mori), diviene così l’erede di Alberto Sordi in Un eroe dei nostri tempi di Dino Risi, e bene ha fatto Netflix a renderlo protagonista di una serie tivù. Che in effetti non parla della sua vita, ma della nostra.

giovedì 14 marzo 2024

Birilli

Un'ora fa ero sdraiato prono su un lettino di metallo dalle lenzuola verdi e nessun cuscino a sorreggermi il capo. Non so cosa stesse facendo esattamente il medico alle mie spalle, o meglio preferisco non saperlo, si tenga forte con le mani al materasso mi era stato detto soltanto. Una rimozione sistematica di ogni elemento reale e perfino temporale, in un orizzonte illusorio (per distrarmi cercavo di pensare alle foto con il leoncino in braccio che bambini più ricchi o fortunati si facevano fare al Circo Americano) dal quale non ero riuscito a cancellare la vista di una siringa enormemio nonno ne possedeva una simile per le mucche. Dunque è con quella che mi preleveranno un campione di midollo dall'osso iliaco! Sullo sfondo un vago sferragliare che produceva qualche fitta di dolore attutita dall'anestesia, mentre udivo delle voci – quella dello stesso medico e dell'infermiera, immagino, non c'erano altre persone nella stanza – scherzare sul numero dei pazienti che erano svenuti nel sottoporsi all'esame per cui mi trovavo lì: oggi tre, ieri due, nel rialzarsi sono andati giù lunghi distesi, ah ah ah. Ne parlavano con una confidenza che mi è apparsa eccessiva, forse tra i due c'era qualcosa, erano amanti o lo sarebbero diventati a breve... ma probabilmente si trattava di una normale statistica, come un bagnino romagnolo enumera le sue conquiste o l'uomo che vende caldarroste mette da parte le castagne guaste. Io ero in potenza la quarta castagna, e il fatto che potessi ascoltarli, cosa che in effetti stavo facendo, non era neppure contemplato: le castagne non hanno orecchie, i corpi sono solo corpi e le ossa ossa. Si è manifestata a questo punto un'immagine diversa, aveva i contorni indistinti di un campo da bowling dove noi eravamo i birilli e loro Jesus Quintana, il giocatore ispanico interpretato da John Turturro in The Big Lebowsky, prima di ogni lancio estrae la lingua e con la punta carezza la boccia – bello il suono con cui raggiunge la kegel rotolando sulla pista di legno, e poi il fragore nell’impatto. A parte i birilli direttamente centrati, mi è venuto il sospetto che gli altri caschino per imitazione, non per una catena meccanica di urti, spintarelle, le stesse dei giovani ai concerti nazirock: pogano forsennatamente ma malgrado ciò restano in piedi; un mistero se pensiamo all'umanità come a una serie di abbattimenti, il crollo è una vocazione prima ancora che un destino. E comunque, per la cronaca, il mio birillo non è stato raso al suolo. Non ancora, almeno. 

lunedì 11 marzo 2024

Ceccherini, o sull’estetica marxista

Ceccherini che commenta la notte degli Oscar con la frase “tanto vincono sempre gli ebrei” commette nella migliore delle ipotesi una gaffe, e nella peggiore dice una scemenza colossale. Poi però prova a spiegarsi, aggiungendo che con le sue parole si riferiva al contenuto – tutti quei film nei quali gli ebrei e, in particolare, la Shoah sono assunti quale oggetto – e non a una presunta lobby ebraica che da sempre si spartisce i premi.

Al riguardo, una mia amica insinua sorniona: pensa cosa sarebbe successo se avesse detto tanto vincono sempre i film sullo schiavismo… È vero, sarebbe successo un casino. Ma i film sullo schiavismo, come i film sugli ebrei, non sono lo schiavismo, e piuttosto opere di finzione che muovono a partire da tale premessa storica; da onorare sempre e comunque, aggiungo a scanso equivoci: ma che possono produrre opere mediocri.

Se Ceccherini fosse stato più chiaro e meno impulsivo si poteva anche concedergli delle ragioni, e non solo accettarne le scuse. Ci sono infatti dei contenuti (e la Shoah e lo schiavismo sono tra questi, ma anche, attenzione, l'immigrazione clandestina con le numerose sofferenze connesse, che è il tema del film di Garrone cosceneggiato da Ceccherini) la cui enormità drammatica produce un pregiudizio virtuoso, mettendo in secondo piano la forma attraverso cui vengono restituiti dal racconto cinematografico.

Non è certamente il caso della Zona di interesse, e al Dolby Theatre di Los Angeles ieri non è stata premiata la Shoah ma una sua specifica restituzione prospettica (la prospettiva è ovviamente quella di Jonathan Glazer) che pare possedere i caratteri autentici dell'arte – ma possiamo dire lo stesso della Vita è bella di Benigni, che pure vinse l’Oscar a partire dal medesimo tema?

A Ceccherini, da toscano come Benigni, la coincidenza probabilmente non sfugge, e con parole sbagliatissime prova a dirlo. Una volta chiarite le sue intenzioni si potrebbe anche chiudere la polemica. E semmai provare a comprendere ciò a cui rimanda, chiedendoci se, nel sistema delle premiazioni, non sia tutt’ora presente un’ipoteca dell'estetica marxista, per cui i contenuti prevalgono sulla forma.

sabato 9 marzo 2024

La famiglia è un pullman

Sono convinto che la collocazione all’interno di un pullman partito dalla fine, quella del ciclo triennale delle scuole medie, ma fine anche in senso lato, dell'infanzia, del nastro di cartone inserito tra i raggi della bicicletta per simulare il rombo di una motoretta, quindi inizio e, a volte, iniziazione che avverrà in una città d’arte selezionata attraverso mesi e mesi di discussione (tanto in ultimo si decide sempre per Venezia, almeno dalle mie parti), sono convinto che tutto ciò segnerà per sempre la tua vita successiva; non la determina, ma riflette come il volo degli uccelli negli auspici della Roma antica.

Le macro categorie spaziali sono tre, anzi tre e mezzo. La parte anteriore dell'automezzo, occupata dai secchioni, dalle secchione ma anche da ragazze dalla pagella ordinaria che stanno lì solo perché innamorate del supplente di lettere e storia, lo incalzano con domande dotte così pensando di essere più desiderabili ai suoi occhi miopi. Parte centrale, ovvero studenti dello stesso genere disposti in coppie mal assortite; non si tratta di amici in senso proprio, a unirli, quando maschi, è unicamente l’interesse per lo sport – calcio e formula 1, in particolare –, mentre se femmine sono taciturne e guardando tutto il tempo fuori dal finestrino in direzione della pianura trapuntata dagli ipermercati, i lampioni arancioni che si accendono al crepuscolo, le prostitute slave con la minigonna chiara, vai a sapere cosa stanno pensando entrambe…

Nei sedili penultimi troviamo grappoli di ragazze che cantano le canzoni di Sanremo e ragazzi ridanciani, ridono in continuazione, qualsiasi cosa, anche il bugiardino di un farmaco contro il mal d’auto li fa ridere, specie quando il farmaco non produce l’effetto desiderato e qualcuno comincia a vomitare. L’ultima fila, a divanetto, è riservata ai bulli. Quattordicenni che già fumano Marlboro rosse e ingollano avide sorsate di Peroni Nastro Azzurro, attenti solo all'attenzione, da dirottare sempre verso di sé, con l'eccezione di quella del supplente di lettere e storia, comunque troppo occupato a rispondere alle domande dotte delle sue spasimanti per accorgersi dei loro traffici. Mescolati ai bulli, in uno slittamento dove l'unica differenza è costituita da una maggiore peluria sul viso, ci sono i ripetenti e soprattutto le ripetenti, a cui i bulli toccano furtivamente il seno fingendo di sporgersi verso il vano porta valige, ottenendo quale risposta una sberla di intensità variabile.

Se non ve la siete già fatta da soli, la domanda diventa: voi dove stavate seduti sul pullman delle medie, nella gita scolastica che segna il passaggio di quel Rubicone dopo il quale nulla sarà più come prima?

Lo sapete di sicuro, un momento così non si dimentica. Io ad esempio stavo all’ultima fila e la ripetente al mio fianco – aveva seni di dimensioni contenute ma dalla temperatura altissima, quasi roventi – si chiamava Renata; assestava sberle dal tenore pugilistico, per i due giorni successivi ho avuto dolori alla mascella.

Bene, e ora immaginate dove stavano verosimilmente seduti i vostri genitori, ma prima ancora i vostri nonni e via via a risalire il tempo fino all’invenzione del motore a scoppio e delle gite scolastiche. Secondo me, quasi mai dove eravate voi. Mi sono fatto l’idea che una famiglia sia un luogo di dispersione, per cui non vale il motto tale padre tale figlio – escludo che mio padre si sia seduto anche lui nell’ultima fila a bere birra tiepida e palpeggiare una Renata dei primi anni Cinquanta, lo vedo piuttosto in posizione intermedia a parlare col compagno di posto del grande Torino di Bacigalupo e Mazzola. Quanto a mia madre, verosimilmente pendeva dalle labbra del supplente di lettere e storia, ma avrebbe potuto stare anche nel gruppo delle canterine; di certo non tra le secchione.

Se assumiamo per vera questa tendenza all’entropia famigliare, la domanda successiva è sulla ragione: perché siamo così diversi dai nostri genitori e loro dai propri, i nostri nonni, per non parlare dei figli che ci appaiono degli alieni? Potrebbe essere una strategia evolutiva…

Immaginiamo che la famiglia sia il pullman e tutti i sedili devono essere occupati. O se si preferisce un alveare, un formicaio: noi pensiamo di essere unici ma invece stiamo solo giocando una parte, o meglio ancora ne siamo giocati. Non sineddoche, la parte per il tutto, ma il tutto che ingloba la parte, la dispone secondo sue proprie occulte strategie di riempimento, in un gioco di ruolo che non ha mai termine né senso alcuno. Il mio ruolo, come ho anticipato, era il bullo, o più propriamente il bulletto. E il tuo ruolo qual era, a che gioco giocavi?

Un gioco dove comunque vadano le cose vince sempre la famiglia, vince il pullman, l’intero sulle sue determinazioni. L’unica è puntare una pistola ad acqua alla testa del conducente e poi dire: “Questo è un dirottamento. Invece che a Venezia, ci porti al prossimo Autogrill.” Dove scendere e dileguarsi tra panini Fattoria, cd di Califano e caciotte affumicate disposte come gran pavese nel percorso che conduce alle casse, mentre puntino nero in fondo a Canal Grande compare la gondola del doge.

venerdì 8 marzo 2024

L'uomo trattore

Ho chiesto a Bing, il motore di ricerca potenziato dall'intelligenza artificiale GPT-4, di scrivermi una poesia nello stile di Gianni Rodari. L'altro vincolo che ho posto è che doveva avere quale protagonista un uomo che si sveglia una mattina trasformato in un trattore. In meno di dieci secondi ecco cosa ha prodotto:

Una mattina, Gianni si svegliò,

non nel suo letto, ma in un campo arato.

"Che cosa è successo?" si chiese spaventato,

poi si guardò: era un trattore, non più un impiegato!


Con ruote grandi e un motore brillante,

era diventato un gigante importante.

"Vado a lavorare," disse con un rombo,

e iniziò a arare, senza alcun imbarazzo o sgomento.


Girava e rigirava, la terra a festoni,

tra i fili d'erba e i piccoli grilli canterini.

I bambini lo seguivano in processione,

ridendo e saltando, pieni di domande e disegnini.


"Ma come è possibile?" chiedeva la maestra,

mentre Gianni-Trattore faceva una pausa per la siesta.

"È la magia della fantasia," rispondeva lui,

"che trasforma il mondo, e anche tu e tu e tu!"


Alla fine della giornata, il lavoro era fatto,

e Gianni si sentiva un po' meno trattore e più matto.

Ma con un sorriso sotto il suo cofano,

sapeva che domani sarebbe stata

un'altra avventura, mano nella mano.


Siccome il risultato, confesso, mi piaceva, o comunque mi piaceva più della maggior parte delle poesie che trovo sui social, ho chiesto a Bing anche di illustrarmi la poesia e di farmi una critica, o più propriamente  ho scritto nella richiesta – la stroncatura, questa volta nello stile di Goffredo Fofi. E di nuovo, in pochissimi secondi, l'intelligenza artificiale si è espressa:

Questa poesia è un esempio lampante di come non si debba scrivere poesia. La trama è così banale che persino un bambino di cinque anni potrebbe trovarla noiosa. Il ritmo è prevedibile e monotono, e la rima forzata rende il tutto ancora più insopportabile. La trasformazione di Gianni in un trattore è un tentativo maldestro di surrealismo che fallisce miseramente nel suscitare qualsiasi tipo di meraviglia o interesse. Inoltre, la morale della storia è talmente ovvia che insulta l’intelligenza del lettore. In breve, questa poesia è un disastro totale che non merita nemmeno di essere chiamata tale. 

martedì 5 marzo 2024

Noi e loro, in morte di Barbara Balzerani

 

Sulla morte di Barbara Balzerani si sta scrivendo molto. Il mio pensiero, dispiaciuto per il vuoto lasciato dalla donna e anche per amici e parenti, dopo le doverose condoglianze imbocca una via laterale, uno scarto di lato come quello del bisonte cantato da Francesco De Gregori. Dalla ex brigatista, allo stesso modo di altri terroristi rossi e neri, ho quasi sempre sentito esprimere parole coniugate in prima persona plurale, nelle interviste le riposte muovevano da un noi – ma noi chi?

Credo che il problema, prima ancora che politico, sia linguistico, e concerna la lingua italiana per come è strutturata. Tra i pronomi io e noi non esistono infatti sfumature, gradini intermedi, se non nella forma oppositiva del loro: loro quale espressione perversa del Capitale, il famigerato SIM (stato imperialista delle multinazionali) e noi gli altri, i buoni, gli sfruttati, gli assassini ebbene sì, essere gettati nella storia comporta il prendersi delle responsabilità. Reduci di una stagione di sangue dove Balzerani era parte per il Tutto, ma sapendo essere anche affabile e premurosa, bellissimo il sorriso quando lumeggiava da dietro le sbarre.

È evidente che le cose non stessero a questo modo. Mio nonno che mungeva le mucche ogni giorno compreso il Natale, alle sette in punto del mattino si avviava verso la stalla con due secchielli di metallo prima vuoti e poi colmi, e lo stesso alle cinque del pomeriggio, benché alle elezioni votasse per la Democrazia Cristiana mio nonno, dicevo, non era un'espressione del SIM. Solo che alla Balzerani mancavano le parole per dire nonno, mucca, gelataio col riporto di via Mazzini, don Aurelio che ti dà cinquanta lire per la spuma nera se gli prometti di andare a messa domenica, mica come la domenica precedente che sei andato al canalone a fare ciclocross. Tutte singolarità non collocabili dentro un gioco al massacro che contiene solamente due variabili – noi e loro, appunto.

In alcune lingue, tra cui il greco antico e l'ebraico, esiste un modo verbale collocato al confine tra io e noi, corrispondendo al rapporto tra due persone soltanto. Non sono però a conoscenza di lingue che distinguano ulteriormente tra tale unità minima di relazione – noi due – e le dimensioni discrete del pronome. Quando si dice noi si intende infatti l'universale, noi tutti, ma altre volte sta in luogo di molti oppure alcuni, la misura quantitativa la ricaviamo dal contesto. Quindi noi che eravamo quattro amici al bar, noi che facciamo la spesa all'MD, noi tifosi della Spal o noi donne con la sesta di reggiseno. Sono tutti dei noi, anche quando non siamo noi.

Ecco, sarebbe bello se questo noi limitato trovasse espressione non più solo implicita, dichiarando la propria parzialità attraverso formule verbali certe. Diversamente, ci saranno sempre persone, come i terroristi, che quando dicono noi pensano di parlare a nome di una collettività astratta e senza termini, e ciò anche quando riconoscono gli errori: noi ci siamo sbagliati ammettono infine con mestizia, pensando all'inciampo di un’intera generazione sconfitta. E invece a sbagliare eravate in pochissimi, un noi minuscolo, a essere macroscopici erano gli effetti vigliacchi delle vostre azioni. Come a dire che quando perde la Spal, magari l’Inter ha vinto.

lunedì 4 marzo 2024

Avvistamenti


Nuovo avvistamento dell'Uomo dell'inverno, questa volta a bordo del suo mezzo di locomozione e senza angelo custode. Si sospetta che stia guidando a piedi nudi, lo si ricava dal posizionamento (guardare bene la foto) dei sempiterni stivali texani. Il cappello da cowboy è invece ben saldo al suo posto.

domenica 3 marzo 2024

Ma noi (non) ci saremo, o sull’arte della potatura e del montaggio

L’esperienza della malattia somiglia al montaggio nel cinema. Pasolini suggeriva che la differenza tra cinema e vita è costituita dal montaggio: nella vita le cose accadono, troppe cose, è difficile coglierne il senso che prende forma solo attraverso la ricomposizione per frammenti; perciò viene realizzata da uno sguardo sopravvissuto al loro manifestarsi, dunque quando noi non ci saremo. Io penso che l’intuizione di Pasolini sia giusta per difetto, andrebbe estesa e sfumata. È infatti nel vivere lieto oppure caotico, quando si è travolti dal lavoro, dagli impegni di cui immagino sommerso un regista, un poeta, uno scrittore quale Pasolini non ha mai smesso di essere, che l’esistenza si disarticola e induce a movimenti automatici o per tentoni, come quando di notte si cerca lo smartphone sul comodino per controllare quanti like abbiamo ricevuto. La malattia impone uno stop a tutto ciò, è una piccola morte, una petite mort, i francesi chiamano così l’orgasmo; ma un altro paragone potrebbe essere con l’opera al nero degli alchimisti; su YouTube, ragazzini vestiti da beccamorto ne ostentano confidenza e nominano con l'antica formula di nigredo. Frangenti, in ogni caso, in cui ciò che si offriva per figure ora si nasconde; è quanto succede alla natura in inverno – non muore ma finge di morire. Sono i mesi in cui i contadini guardano i quiz di Gerry Scotti in televisione, hanno finalmente del tempo libero ma resistono poco seduti in poltrona, non sono abituati, e al primo errore del concorrente scendono a lucidare il trattore; se non hanno vacche da mungere nella stalla l’unico impegno è costituito dalla potatura, a sua volta una forma di montaggio. Non ogni diramazione del tronco può essere mantenuta, sia nel cinema che nella vita l’esubero va espunto: via i rami secchi per lasciare spazio a quelli nuovi e forti. Se il malato è fortunato somiglia a un albero da frutto, e all’inverno segue la primavera – ma c'è un aspetto della metafora che va tenuto in considerazione: non è la stessa identica pianta a rifiorire, dove è scattata la cesoia il passato non si rinnova. Io questa esperienza la sto facendo con la famiglia e le amicizie. Nella malattia del corpo ho scoperto ridondanze, linee affettive concluse che solo la consuetudine teneva in vita. Heidegger, da dentro le sue braghette tirolesi, lo riassumeva con l'espressione si dice e si fa: si dice che ho questi amici, ho questi parenti… e va be’, facciamogli una telefonata di tanto in tanto, usciamo a berci assieme uno Spritz. E invece no: potatura, opera al nero. Contemporaneamente, lo stare male ha rivelato boccioli che riposavano sotto la neve, persone mai frequentate che mi accompagnano a fare una biopsia – vuoi che salgo? mi chiede una lontana bis cugina, è forse la seconda volta che parliamo e l'altra era a un funerale. No, aspetta pure a casa le rispondo, mentre chi credevo amico chissà in questo momento dove sta… Anche il telefono ha smesso di squillare, o, per essere precisi, di intonare Volare nella versione di Dean Martin; impostata quale suoneria fa sorridere vecchie turiste americane sedute nei dehors di Varenna. E se anche non posso essere certo che, infine, Cenerentola riavrà la scarpetta e Giobbe i suoi sette figli maschi e tre femmine (la morte è una variabile che inizio a considerare, possiede per la prima volta un coefficiente statistico numerabile), dentro questo inverno sento pulsare la linfa di una stagione nuova, nuovi rapporti sotto il segno della fragilità. Sono scarti minimi, niente di appariscente, piccoli come la petite mort, ma con segno inverso che gli attribuisce carattere di epifania. Gli alchimisti, sempre loro, sussurrano in strane parole che dopo la nigredo segue la viriditas, quindi albedo e rubedo. Ma non corriamo troppo, film e vita, di nuovo in parallelo, hanno i loro tempi. Adesso è il momento di bruciare i tralci recisi, vedi salire il fumo dalle vigne ma chi ha appiccato il fuoco si dilegua, agli occhi della legge si trova in difetto; non proprio un criminale e però irresponsabile: ogni combustione produce polveri sottili e contribuisce al global warming, se si continua così è perché tanto, di nuovo, noi non ci saremo, e se non fosse ancora chiaro ci pensa una vecchia canzone dei Nomadi a ribadirlo: noi non ci saremo, noi non ci saremo, noi… E se invece, al prossimo giro, mi trovassi di nuovo qui? L’unica cosa sicura è che nel caso si tratterà di un uomo diverso, con altre persone attorno, forse altri amori, perfino una famiglia ricombinata secondo classifiche di gradimento alternative. Finalmente libero dal male – grazie al male. 

sabato 2 marzo 2024

Tori, vitelli e mattatori, o sulla critica letteraria come forma del tragico

Stefano Brugnolo li chiama critici teppisti. Da qualche settimana, sulla sua pagina Facebook, lo studioso di letteratura ha iniziato un’ironica (ma non per questo meno argomentata) battaglia contro tale tipologia di recensori, facendone risalire l’intuizione a Javier Cercas.

Lo scrittore spagnolo utilizza l’espressione crítico matón, ossia prepotente, con la stessa radice di matar: il gesto del torero quando infila lo stocco alla base del morillo, e il grosso animale si accascia esanime al suolo – capitolazione che il critico teppista si prefigura mentalmente nell’autore che di volta in volta cerca di abbattere, nel tripudio plaudente dei social.

È infatti sui social che il critico teppista ha ottenuto pieno riconoscimento. Non mancano però precedenti anche lontani nel tempo – Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi e Umberto Silva “matarono” con piglio teppistico La storia di Elsa Morane. Ritroviamo una disposizione teppistica anche in alcune stroncature di Renato Barilli, Alberto Asor Rosa, Goffredo Fofi, Giovanni Raboni, Alfonso Berardinelli e, più tardi, Roberto Cotroneo, che da quando è passato dall’altra parte della barricata pare essersi ammansito, forse per la quantità di stroncature ricevute a sua volta.

I critici teppisti che ora spopolano prendono i nomi di Matteo Marchesini, Davide Brullo, Massimiliano Parente; è sempre Stefano Brugnolo a segnalarceli. Ma con toni meno sistematicamente accaniti ritroviamo la disposizione teppistica un po’ ovunque; ad esempio in Claudio Giunta, che sintetizza Primo Levi come “dolciastro e artefatto”. E se Giunta scrive che Levi è dolciastro e artefatto – assumo che si riferisca ai suoi libri, non alla persona – è perché lui pensa che davvero sia dolciastro e artefatto. Pur avendo una diversa opinione, mi pare dunque legittimo esprimere il proprio pensiero senza remore, anche perché Primo Levi è morto l’11 aprile del 1987.

Ma come comportarsi nel caso di scrittori viventi?

A me pare che qui si tocchi il vulnus della funzione critica. Io me la figuro come intimamente e irrimediabilmente tragica, nel senso antico della tragedia greca: un dover essere che si contrappone a un non poter essere, in una doppia lealtà alle leggi della polis e a quelle del cuore. Le leggi della polis, nella circostanza, consisterebbero nel dirottare il potenziale lettore da quei testi che nulla aggiungerebbero in termini di piacere e conoscenza, e che per convenzione chiamiamo brutti. In fondo siamo tutti grati all’amico che, incrociato mentre esce dalla sala cinematografica dove stiamo per entrare allo spettacolo successivo, ci avverte premuroso: “Lascia perdere: è una cagata pazzesca che nemmeno La corazzata Potëmkin”, e da quel momento la serata prende una direzione diversa.

Ma come non pensare anche all’autore: è un essere umano come noi, a volte capriccioso, egocentrico, perfino strafottente; non per questo è meno sensibile e vulnerabile. In un’intervista recente Baricco confessa di avere sofferto per come veniva trattato dai critici ai suoi primi romanzi: poche righe per liquidare lo sforzo di mesi di lavoro, non di rado con toni di sarcasmo che esorbitano il testo e infangano la persona. Una sofferenza che ho ritrovato anche in Marco Lodoli, il quale una volta mi confessò: “Fa’ che incroci una volta Cotroneo (del cui teppismo critico abbiamo già detto) traversare la strada fuori dalla strisce, e lo spiano con l’auto come un gattaccio randagio!”

Si potrebbe obiettare che quando si compie un atto pubblico – e dare alle stampe un romanzo lo è fuori da ogni dubbio, non a caso viene utilizzato il verbo pubblicare – si dovrebbe essere attrezzati a incassare ogni reazione. In teoria è giusto, in pratica siamo rimasti gli scolaretti che consegnavano tremanti il proprio tema alla maestra: il giudizio negativo ferisce, a qualsiasi età. Perciò Gianni Celati praticava la critica solo in forma di affezione, e cioè di affetto manifesto verso gli autori da lui amati. Ma lasciamogli la parola per sentire come lo motiva con la sua lingua generosa e sorniona:

“Dunque, ci sono questi che scrivono sul giornale che se la prendono ora con uno ora con l’altro, anch’io ho preso un sacco di legnate, specie da Goffredo Fofi, ora, spero, si sarà sfogato. Io non capisco chi scrive contro qualcuno o contro un libro, posso solo intuire che abbia bisogno di sfogarsi per un qualche suo problema. La critica io la concepisco come un lavoro di affezione, vale solo se presuppone un rapporto di affetto con l’autore. Ha un senso se è un proporre ad altre persone la propria "amicizia" con quell’autore.”

Sulla base del principio invalso delle pari opportunità, prendiamo ora anche un breve stralcio dalla stroncatura di un critico teppista. Il più noto e, probabilmente, anche più talentuoso è oggi Matteo Marchesini. Muovendo da una critica altrettanto teppistica di Raboni, in cui definiva Thomas Bernhard una "caricatura tirolese di Swann”, Marchesini non si accontenta, pratica l’arte pokeristica del rilancio:

“…malgrado i suoi enfatici lodatori fingano di respirare l’aria delle alte vette di spirito e strazio, un’indagine accurata rivelerebbe probabilmente che ne sfogliano i libri con la soddisfazione di chi si prende un po’ di riposo: l’autore di Antichi maestri è oggi una lettura d’evasione."

Ma d’altronde anche Bernhard ci ha lasciati, e dunque, se di teppismo critico si può parlare, è nei confronti dei gonzi come me che ancora considerano lo scrittore austriaco un autore immenso – Marchesini mi chiarisce che ciò che io confondo per immensità è solo kitsch, la finzione delle alte vette concessa a noi poveri di spirito. Colpito e affondato. Cosa vuoi infatti ribattere a chi ti rivela così lapidariamente di essere un enfatico lodatore, che è il modo con cui gli intellettuali ti danno del cretino.

Perciò parlavo della legge del cuore rivendicata da Antigone: si dovrebbe sempre cercare di non ferire un altro essere umano, di avere cura non solo delle sue virtù – troppo facile – ma anche delle più frequenti illusioni; forse ha ragione Marchesini a dire che Bernhard è sopravvalutato... Cautela che se assunta in forma radicale ci porterebbe a un discorso critico fondato sulla menzogna, o, nella migliore delle ipotesi, sull’omissione pietosa. E cioè di nuovo a infrangere le leggi della polis, facendo torto al lettore.

Una via di uscita dal vincolo tragico per definizione non c’è. Però si potrebbe magari cercare di evitare i toni offensivi, argomentando le obiezioni in forma meno contundente e più analitica, circostanziare e motivare – quale sarebbe ad esempio l’analisi accurata che dimostrerebbe che Thomas Bernhard è oggi una lettura d’evasione?

Peccato che dagli spalti del Colosseo il pubblico reclami il sangue, in un’eccitazione collettiva di cui il critico teppista si fa emblema, capo popolo, e l’autore capro espiatorio. Fermo restando che non tutti i tori sono dei Bravo, vengono chiamati proprio così i tori utilizzati per la corrida, bravi come i bravi scrittori. Quando ce ne sono tanti altri che non hanno ancora ultimato lo svezzamento, scrittori che ricordano vitellini, e forse avrebbero dovuto pascolare ancora un po’ prima di essere buttati nell’arena. Se ne ricava che la critica teppistica è forse figlia di un’eccessiva disinvoltura editoriale.

mercoledì 28 febbraio 2024

L'arte di amare e di vendere i libri

Ieri ho pubblicato la copertina di un libro di tale Lara Stelee (immagino sia uno pseudonimo) nel quale si promette di svelare ogni segreto su una pratica diffusa nelle carceri di massima sicurezza e augurata a chi non concede la precedenza sulle strisce; e in effetti in 109 pagine qualcosa verrà pur detto, ho scarsa confidenza con la materia ma vado in fiducia.

Poco importa che l'approccio appaia particolarmente buffo e sgangherato, se non bastasse il titolo  – "Guida completa al sesso anale per lui e per lei" – ci pensa l'occhiello a chiarire le intenzioni: "tutto quello che dovete sapere per poter incu**** il vostro partner e farlo impazzire di piacere". Il fatto è che non si tratta solo di celia ma di emblema, nella comicità di quel titolo riverbera un tratto comune all'editoria del nostro tempo.

Si tratta ormai di un vero e proprio genere, potremmo definirlo manualistica di relazione. Non c'è un aspetto del rapporto uomo donna, uomo uomo, donna donna, genitori bambino, umani animali, piante, robot, extraterrestri e insomma chiunque con chiunque per cui non venga offerta una soluzione virtuosa, un'ortoprassi. Quindi un libro che l'involtoli e ne faccia pedagogia.

D'accordo, il kamasutra e l'ars amandi rappresentano un precedente antico e dovizioso, ma nella partita a poker con la storia il rilancio appare inaudito. In fondo ciò che ci emoziona nell'incontro tra corpi è la sua natura di evento – qualcosa che accade come lo scirocco: se stai andando per mare si gonfia il fiocco e si tende la randa, mentre in casa sbatte una finestra. Così, se riduciamo l'evento ad argomento, magari le cerniere della finestra dureranno più a lungo, però ci perdiamo qualcosa... La sorpresa, il sobbalzo, l'emozione dell'imprevisto. A quel punto tanto vale sostituire anche le vele con un motore fuoribordo.

Non voglio generalizzare nemmeno in senso opposto, per quanto lo sfiorarsi inatteso di due mani che fino a un attimo prima erano diversamente intente – ad esempio a infilzare delle olivette di Gaeta –  talvolta può essere più interessante di un pompino fatto a regola d'arte. Ammesso e non concesso che davvero esista l'arte del pompino, lo scopare da dio, fare impazzire di piacere il vostro partner come assicura Lara Stelee, seguendo istruzioni simili a quelle per montare uno scaffale Ikea.

E se ogni rapporto compreso quelli sessuali, anzi soprattutto i rapporti sessuali di ogni genere e forma, non fosse invece un tentativo con cui gli esseri umani si scambiano la propria singolare e perciò tanto più preziosa imperfezione, come fanno le scimmie quando si spulciano a vicenda? Ma immagino che la Stelee non sia d'accordo, e ho visto che è già alle stampe un imperdibile sequel sul cunnilingus.

lunedì 26 febbraio 2024

Parole parole parole, e anche qualche inc*****

Non mi stupisce né tanto meno indigna, ci mancherebbe, l'oggetto di questo libro, ma il numero delle pagine: 109. Dico, 109 pagine in cui si parla unicamente (e completamente, come viene specificato) di un gesto che in un film di Fassbinder si risolverebbe in uno sputo proprio lì, segue smorfia di piacere misto a dolore sul volto del marinaio di turno e bon, poi basta, cosa vuoi aggiungere ancora? E invece no, 109 pagine  ci vuol talento anche ad allungare il brodo! Si mormora che Lara Steele stia già lavorando a un sequel sullo squirting. Ma qui mi aspetto che si superi: 1415 pagine, come Guerra e pace. Tutte e solo sulla fontana dell'amore.

Lettera aperta a Marco Lodoli, o sulla creatività

Nei corsi di qualsiasi materia artistica viene ignorato o più spesso taciuto – sarebbero clienti in meno – ma andrebbe invece dichiarato come il conosci te stesso inciso sul frontone del tempio di Apollo, in questo caso sostituito da un disclaimer posto all'ingresso della Holden: LA CREATIVITÀ NON È PER TUTTI, lasciate ogni speranza o voi che entrate. Ma non perché solo pochi siano potenzialmente creativi.

Io penso che la disposizione a creare sia un attributo di natura, come parlare e camminare e, qualche anno più tardi, scopare. Solo che possiede condizioni limitate per svilupparsi, si dà solo all’interno di un corridoio mediano tra la spensieratezza e la disperazione. Contrariamente a ciò che vorrebbe la vulgata il dolore inibisce la creatività (tutte balle la leggenda dei geni disperati che trasfondono il loro dolore su pagine o tele) non meno del suo gioioso opposto.

Possiamo vederla alla maniera di un viaggio: i popoli dell'arcipelago tropicale non sono mai stati dei grandi navigatori, al limite facevano qualche pagaiata a ridosso della riva per andare a recuperare un gamberone o un pargo, mentre le donne del villaggio raccoglievano noci di cocco. D'altronde, per quale motivo avrebbero dovuto spostarsi? Avevano già tutto e in abbondanza: frutta, pesce, animali selvatici e clima buono.

Dalle regioni nord occidentali (Gran Bretagna, Irlanda, Norvegia, Svezia) si prendeva invece spesso la via del mare. La partenza non aveva una direzione certa: qualche sacco di gallette e un desiderio indefinito, grande – tutti caratteri comuni alla creazione. Ma, nel caso, salivano a bordo di vascelli non proprio rassicuranti solo i più avventurosi e sani, in una condizione altrettanto mediana tra il benessere materiale di nobili e cicisbei, e la fragilità del corpo che inchioda alla croce dei luoghi; un crudele gioco del fato, ricorda quello dei bambini con la coda delle lucertole.

Con questo rispondo anche a Marco Lodoli che, quasi trent'anni fa, mi telefonò a casa per consegnarmi il mandato a diventare uno scrittore, senza accorgersi che stava replicando la situazione del suo romanzo I fiori. Tito, il protagonista, comincia a ricevere delle lettere anonime: “Tito, scrivi”, nient’altro viene detto. E così lui lascia un’anonima provincia per raggiungere Roma e diventare uno scrittore. Che ci riesca o meno, e cosa voglia dire per Lodoli essere scrittori, lascio al lettore il piacere di scoprirlo.

A differenza di Tito io però non l'ho mai fatto. Lucertola. Legno. Chiodi. Caro Marco, ti sbagliavi. La mia vita non è mai stata compresa in quel corridoio mediano dove corrono i bolidi assieme alle utilitarie, il giudizio di valore artistico è un problema successivo. Troppo spensierata e lieta la giovinezza, troppo disperante il seguito in cui mi trovo. Forse solo strappandomi a morsi la coda potrei liberarmi e partire, seguire le rotte dei marinai o quelle dei grandi scrittori come te.

Dicono che alle giovani lucertole la coda poi ricresce – ma a quelle vecchie e malconce?

Ps – di Lodoli è appena uscito il romanzo Tanto poco, edizioni Einaudi.

sabato 24 febbraio 2024

Incontri, o sull'autenticità

Mi capita sempre più spesso di abbozzare delle brevi conversazioni con una cassiera dell’MD. Io vado a quello di Casacce, lo preferisco alla sede di Sondrio (più grande, fornita e soprattutto vicina a casa) perché meno affollato, rare le code alle casse. Dunque nessuna furia nel riporre il latte d’avena e i cavoletti di Bruxelles nel borsone giallo, hanno una birra al luppolo in fiore di Ravenna molto buona, sulla confezione dello yogurt controllo sempre prima la scadenza, faccio ogni cosa con calma e intanto ho iniziato a scambiare qualche parola con la cassiera, a cui ne sono seguite altre.

È cordiale e simpatica con tutti, quel tanto di eccentricità nei modi più che nell’apparire (uniformato dalla divisa d'ordinanza), anche carina, alta, genere Jean Seberg in À bout de souffle; ma quest’ultimo è un pensiero che alla mia età va subito restituito allo scaffale in cui campeggia la scritta: fuori tempo massimo. Quando l’argomento è caduto sulle serie televisive abbiamo scoperto di avere gusti comuni: per entrambi Mad Men è una delle serie più belle di tutti i tempi, ma lei non ha ancora visto Fargo; devi assolutamente vederla le ingiungo ogni volta, ma poi c’è il cliente successivo che inizia posare le crocchette per il cane sul nastro scorrevole, seguono budini, salsicce, una sottomarca della Coca-Cola... I nostri discorsi finiscono così col somigliare al loro argomento, si interrompono bruscamente per riprendere alla spesa successiva, sono un sequel dalla durata brevissima.

Certo, non è possibile addentrarsi in sottili disamine (perché Don Draper non vuole avere rapporti con il fratello… e di cosa è metafora la sua smania di accaparramento femminile?) ma solo incontrarsi a quel livello basico dell’umano che è il piacere – a me piace questo. Piace anche a te, ma dai! Allora siamo in due, come scrive Emily Dickinson in una celebre poesia. È un istante, in cui il minimo cerchio che chiamiamo io, allo stesso modo dell’insiemistica, si sovrappone al cerchio del tu, e dall’intersezione è come se emanasse un fugace bagliore, quasi un abbaglio.

Cosa ci sia dietro l'intensità di quel riflesso non è dato sapere, in fondo anche l’oggetto verbale è solo un pretesto, si pattina con le parole in superficie. Eppure è proprio da una disposizione svagata – come a dire esposta, indifesa – la premessa per perforare l’occasione ed entrare senza bussare, sporgersi alla soglia dell’altro in una relazione che, per paradosso, è tanto più vera quanto più limitata; come se il resto fosse troppo, il mondo una forma di esubero.

Nel raggiungere il parcheggio dell’MD e da lì la mia Seat Ibiza a GPL, aprire il portellone, caricare la spesa, mi sembra di avere avuto un incontro autentico con un altro essere umano. Chissà, forse l'autenticità è proprio questo: un riverbero a fior di pelle, un aura che se viene osservata troppo a lungo dilegua; meglio dunque non approfondire, lasciare gli abissi della terra agli speleologi e quelli dell'anima agli psicanalisti. Controllo l’orologio, il tutto è durato tra i sessanta e i centoventi secondi. Bastano e avanzano per quel precisissimo radar chiamato piacere.

domenica 18 febbraio 2024

Scrittori ed entraîneuse, o su come si cambia per non morire

 

Un paio di anni fa avevo letto un libro di Renzo Paris che mi era piaciuto molto. Si intitola Il picchio rosso – bello anche il titolo – e appartiene alla collana di Editoriale Scientifica diretta da Fabrizio Coscia. Ho così pensato di aggiungere Renzo Paris ai miei contatti Facebook; vedo che abbiamo 332 amici in comune, evidentemente (come faccio io) accondiscende la richiesta a cani e porci. A due anni dall’invio mi rendo però conto che non l’ha fatto con me. Sono ancora lì che aspetto. Mi sa che non ha nessuna intenzione di intrupparmi…

Attenzione, disclaimer: questo non è un intervento contro Renzo Paris, ma il tentativo di una riflessione sul rapporto tra scrittore e lettore, a cui sospetto i social non abbiano giovato. In fondo ci aveva già ammoniti Salinger: “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato” scrive nelle ultime righe del Giovane Holden, “sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.”

Possiamo guardare all’amicizia sui social come al surrogato di quella telefonata. Solo che Renzo Paris non ha risposto e, nonostante per 332 volte le nostre bolle si siano intersecate, ne ha tutte le ragioni. Negli ultimi anni è passata un’idea metonimica dell’amicizia: oltre i quindici amici in comune è automatico che una persona sia anche tua amica; cosa che aveva un qualche fondamento nella vita reale, ma sui social è pensiero magico. Del genere se incrocio per strada tre donne incinte a breve avrò un figlio.

Per fortuna sul profilo non viene indicato il numero di telefono, altrimenti la scena prefigurata da Salinger sarebbe all’ordine del giorno: “Ciao, sì, lo so che sono le due di notte ma ti prego ti prego ti prego, non mettere giù! Sono un tuo lettore.” Un lettore, appunto, non un amico.

E dunque bravo a Renzo Paris che non mi si è filato neppure di pezza. Peccato che questo pregiudizio di amichevolezza è duro da estirpare, e così ora sono condannato a leggere i libri di Paris con occhi diversi, a leggerli o magari a non leggerli più. Potremmo anche guardare all’amicizia come a una nuova forma di paratesto, che condiziona e a volte pregiudica la lettura, la inibisce. Non va confusa con la coda di paglia, ma è mancanza di un pezzo costitutivo: l’illusione di intimità, che è subentrata alla sospensione di incredulità della letteratura del passato.

È il prezzo che gli scrittori devono pagare alla società dello spettacolo: o incoraggiano i tentativi di corteggiamento da parte del lettore – solo un po’ si intende, come sapevano fare le donne negli anni Cinquanta: carota e bastone, carota e bastone – oppure li perdono.

Molto meglio quando gli scrittori stavano di qua e i lettori di là, e solo dei matti veri, come in Misery di Stephen King, potevano pensare di saltare lo steccato. Ma adesso che siamo in regime di promiscuità lo scrittore, oltre a ideare, scrivere, correggere, trovare un editore e firmare con dedica in piccole librerie di provincia sempre troppo fredde o troppo calde, deve imparare a fare anche da entraîneuse.

giovedì 15 febbraio 2024

Liberaci dal male

Da un paio di settimane guardo tutte le mattine questa foto e piango. Di solito sono poche lacrime, gli occhi si inumidiscono e poi subito passa; ma mi è capitato di piangere anche per un quarto d’ora consecutivo, un rubinetto rotto. Il bambino paffuto all’interno della recinzione protettiva sono io, lo scatto risale verosimilmente ai tardi anni Sessanta – quanti anni avrò avuto: due, due e mezzo… non arrivo a tre. Nel caso sarebbe il 1968, l’anno della grande contestazione ma anche quello in cui Nino Benvenuti riconquista la cintura dei pesi medi battendo Emile Griffith, a Memphis viene assassinato Martin Luther King e Brigitte Bardot si fidanza con il playboy piacentino Gigi Rizzi. Intanto il mio vocabolario comincia ad arricchirsi, a mamma, papà, cacca e brutto (brutto sgabello che non dovevi stare lì, il mio piede ti ha urtato, brutta acqua con cui vogliono farmi il bagnetto) iniziano ad aggiungersi parole come cane, bau e palloncino. Poi le cose sono andate come sono andate, e adesso comprendo che quel bambino con lo sguardo rivolto a chi impugna l'apparecchio fotografico (che cavolo è quell'aggeggio? sembra pensare) mentre le mani sono protese oltre la barriera di gomma che sormonta la rete, oltre perfino la balaustra del terrazzo, oltre... verso un mondo che per definizione si assume vasto, quel bambino non meritava una vita tanto brutta. In fondo le parole che sono venute dopo sono superfetazioni: brutta, questa vita è stata semplicemente brutta; tanta cacca, palloncini pochi e subito rubati dal cielo in un bau. Gesù bambino, ti ricordi della preghiera che recitavo tutte le sere prima di addormentarmi? Erano passati pochi anni dalla fotografia ma ero sempre io, d'altronde siamo sempre noi, chi ti dice che ogni sette anni cambiamo tutte le cellule  più pedanti le elencano per cronologia di esaurimento – non ha mai osservato attentamente l'abisso del proprio sguardo infantile, io che facevo finta con la mamma di essermi già addormento e quando lei spegneva la luce ti chiamavo sottovoce come fanno gli innamorati; non lo so mica se fosse un amore reciproco, confesso che il dubbio mi è poi venuto. Ma quando si è presi si dice qualsiasi cosa, era un po' ridicola perfino la forma, senza pause di respiro, dovevo fare in fretta perché le palpebre premevano e la testa sprofondava nel cuscino. Così partivo a palla: Caro-Gesù-io-mi-metto-nelle-tue-mani-tienimi-stretto-fino-a-domani, e alla parola domani stavo già ronfando. Tu però l'hai presa alla lettera, hai stretto troppo, ahi, così mi fai male! Anche sui pacchi destinati alle vetrerie sta scritto maneggiare con cura. Se non sei in grado di farlo ti chiedo di desistere, lasciami andare, sbarazzati dell'errore – capita a tutti di sbagliare –, fammi tornare onda quantistica di probabilità. Ora che mi rivedo nel grumo in cui tutto ha avuto inizio, il mio personale Big Bang, mi accorgo che è stato un continuo passare da una recinzione all'altra, e quella con le sbarre più spesse si chiama corpo. Oppure mantieni le promesse: dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri cazzo di debiti ma, soprattutto, e alla svelta, liberaci dal male. Amen.