mercoledì 6 luglio 2022

Un uccellino


Ieri notte, per pochi secondi, ho avuto chiara la sensazione che potevo farlo, non avevo più paura. Poi è tornata la paura. Non la paura della paura, come avviene negli attacchi di panico, ma la paura di quell'istante (sudaticcio stavo nel letto a seguire una serie TV); mi ha fatto pensare a quei film in cui il carcerato si accorge che la porta della cella è stata dimenticata aperta, basta tirare il catenaccio e uscire. Ma il carcerato si gira dall'altra parte e torna a stendersi sulla branda. Sono stati pochi secondi, l'ho già detto, o forse meno, la percezione del tempo era sfumata mentre tutto il resto si precisava, un unico affannato respiro le teneva assieme; affannato ma non disperato, forse perfino felice. A comprendere ogni cosa era infatti una sensazione, quasi euforica, di bellezza, della specie particolare che possiedono le vetrine dei negozi di giocattoli poco prima di Natale. Ne ricordo uno dove il 16 dicembre, giorno in cui nell'anno liturgico prende avvio la novena, veniva svelata un'enorme cattedrale di Lego, si chiamava Piccola Città. Io ci andavo con la mamma dopo essere uscito dal dentista, potevo scegliere qualsiasi balocco – qualsiasi inferiore alle duemila lire, beninteso – per avere sopportato da vero ometto l'infierire del trapano o le viti con cui mi veniva fissato l'apparecchio, ma prendevo sempre la miniatura di un automezzo industriale: escavatori, betoniere, caterpillar... Poi il cuore ha cominciato a battere forte, cosa sto facendo qui? La finestra è spalancata. Ecco la paura. Un corpo non più giovane che si sporge dal davanzale in piena notte, i suoi denti sono perfettamente allineati e nessuno potrebbe più chiamarlo Castoro; osservo una Panda verde quattro piani più sotto, quattro e mezzo se considero anche il mezzanino, qualche coglione l'ha parcheggiata sbilenca a invadere la rampa che conduce al garage; sono io quello che di solito parcheggia l'auto a quel modo. Il porfido del minimo cortile condominiale è sconnesso, dove manca un cubetto affiora la sabbia dello strato di allettamento, i fori ricordano le parti delle navi colpite (ma non affondate) in una partita a battaglia navale, fanno acqua dentro a una striscia di mare prosciugato che immagino sporca di sangue; quale sostanza chimica si deve usare per lavare il sangue dai cubetti di porfido? Proseguendo per bruschi scarti di visione, come in una pellicola sgranata dei fratelli Lumière, lo sguardo raggiunge la sponda opposta, dove si arresta a un condominio di poco più recente che conosco da quando sono nato; ora si è trasformato in un'istallazione di Cristò per via dei lavori di rifacimento delle facciate, si scorgono solo le vetrine spente del negozio di Anna, la parrucchiera cinese che naturalmente non si chiama così. Se la incontro quando scendo a portare il cane ai giardinetti, o rientrando con in mano il sacchettino nero colmo di merda, mi dice italiani blavi, italiani blavi, chissà perché continua a ripeterlo ogni volta che mi vede, chissà perché mi sporgo sempre di più... Adesso dovrei solo scavallare, l'ho fatto decine di volte, da ragazzo, per entrare gratis in discoteca; non mi piaceva nemmeno tanto perché tutti fumavano compreso me, e la musica era bellissima ma troppo alta. Però non lo faccio, non che non voglia più farlo – volevo davvero fare qualcosa, e cosa?, ora non me lo ricordo più – ma ho sentito uno sparo provenire dal televisore, sono curioso di sapere cos'è successo. Socchiudo così la finestra e torno a letto. Non vedo pistole ma è certamente accaduto un fatto importante, si capisce da come lui guarda lei, lei guarda lui, e lo spettatore dovrebbe provare un sentimento complice e solidale. Il battito del cuore comincia intanto a regolarizzarsi, posso sentirne il riflesso attutito dal cuscino infilato in una federa bianca, il colore delle spose e delle lenzuola con cui si ricoprono i morti. Sembrava il cuore di un uccellino.

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