Nei giorni scorsi ho scritto un post scherzoso che muoveva dal matrimonio tra Francesca Pascale e Paola Turci. L'oggetto non era propriamente la loro unione, ma la possibilità o, meglio, l’insinuazione bricconesca che a essere omosessuale potesse essere anche Berlusconi... Apriti cielo!
No, non per via del riferimento a Berlusconi – ora è come sparare sulla
Croce Rossa –, ma per il fatto che nel testo aggiungevo una costatazione che
continua ad apparirmi di evidenza palmare: il ruolo del maschio nella coppia di
neo spose era interpretato da Francesca Pascale.
Ma come, veniva scritto in alcuni commenti, sei così scemo, così zulù – no, zulù non si può dire, confligge con lo specchio delle mie brame che sussurra ogni mattina chi è il più politicamente corretto del reame –, sei così
tontolone da credere ancora ai generi sessuali? Sì, ci credo. E provo ad
articolare il mio punto di vista, in modo questa volta meno scanzonato.
Ogni comunità umana elabora un proprio codice non scritto, a
disciplinare le relazioni erotiche e affettive all’interno del gruppo. Lo spiegano molto bene gli
antropologi, che chiamano questo codice cultura;
ma anche e per disambiguare il termine dal cumulo di nozioni che affollano le
biblioteche, campo. Alla prospettiva
antropologica si aggiunge la speleologia clinica che proviene dalla psicologia
del profondo, il cui maggior contributo, in questo senso, viene probabilmente
offerto da Lacan.
Per il grande psicanalista francese lo slancio anarchico e potenzialmente
distruttivo del desiderio, incarnato già per Freud e Jung dalla figura
mitologica di Dioniso, trova nel linguaggio la sua prima barriera, il suo
necessario contenimento. Lacan gli attribuisce il nome di simbolico, generando qualche contorsione semantica; ma sappiamo che la
chiarezza non era il suo forte…
Chiunque abbia confidenza con tale prospettiva dovrebbe in ogni caso avere sperimentato come il genere – a differenza del sesso biologico, la
genitalità – in natura non esiste, ma è solo il frutto dell’iscrizione degli
individui all’interno del simbolico lacaniano; o se si preferisce e in forma
più intuitiva, della cultura e del campo. E non esiste, il genere, tanto nelle
coppie omosessuali quanto in quelle etero. Punto e a capo, dunque?
Purtroppo no, la questione è più complessa e sfumata. Noi infatti non
abitiamo la natura, i fatti naturali, e piuttosto le interpretazioni che a essi offriamo, come vuole un altro illustre precedente filosofico. Ma forse è
più chiaro se ci affidiamo a un’immagine terra terra. La gabbietta con il
canarino all’interno. Se la spalanchiamo all’improvviso, è improbabile che
l’uccelletto spicchi il volo. Le sue ali non l’hanno mai fatto, mancano i
muscoli, l’abitudine all’assenza di confini del cielo, e da qui la volontà.
Gabbietta spalancata e canarino che non esce, fin qui ci siamo?
Bene, è esattamente quanto accade a noi, e che possiamo osservare con
particolare chiarezza proprio nei matrimoni omosessuali, più che in quella sessualità
liquida e pervasiva che sta guadagnando legittimo consenso. Con l’affermarsi
delle sacrosante rivendicazioni del movimento prima solo gay e, poi, LGBT,
abbiamo in effetti un timido protendersi col becco fuori dalla gabbietta, una benefica ventata
di libertà a scompigliare i cappellini impagliati di certe anziane vedove
inglesi; ogni volta che portano la tazzina di porcellana alla bocca per prendere una sorsata di tè, gli si alza il mignolino della mano destra.
Ma in seguito, cosa ne abbiamo fatto della libertà?
Il sospetto è che anche le donne e gli uomini il cui desiderio non si
riconosce nel conformismo borghese, dopo avere sperimentato le infinite
possibilità che gli si spalancavano attraverso la denegazione di tutti i codici
– un mondo di piaceri e dispiaceri da inventarsi –, abbiano avvertito un sottile
capogiro, una nostalgia d’ordine. Massì, sposiamoci!
Prima di farlo, avrebbero però dovuto addentrarsi nelle magnifiche pagine
che ci ha lasciato in dono Ingerborg Bachmann, tra i racconti de Il trentesimo anno ce n’è uno che parla di matrimonio. Molti
si sposano pensando di essere "più forti del matrimonio", sono
convinti di poterlo plasmare, assegnargli la propria immagine scapigliata,
scrive la grande scrittrice nata a Klagenfurt nel 1926 e arsa a Roma
quarantasette anni dopo. E invece no, il matrimonio è tanto più forte di noi.
In fondo, il desiderio di sposarsi non corrisponde a un desiderio del corpo,
ma della psiche di trovare un riconoscimento dentro la comunità, che gli sposi
a loro volta dichiarano tacitamente di riconoscere e legittimare. Per questo la
forza soverchiante del matrimonio va ricercata dentro a un segno, un segno che
giorno dopo giorno il matrimonio imprime sulla pelle degli amanti, fino a
conferirgli la propria forma, letteralmente li informa. Ma quale segno?
Lasciando provvisoriamente da parte il problema della reversibilità della
pensione e altre importantissime questioni burocratiche e civili, il movimento
LGBT nasce all’insegna di una festosa baraonda in cui tutti segni d’ordine
sessuale vengono trascesi o, ancora più radicalmente, destituiti di valore
attraverso le forme parodistiche del travestimento, del cross-dressing. Nel matrimonio si deve però scendere a patti, è un compromesso in cui si accetta per essere accettati.
Ed è precisamente qui che rispunta il fantasma del genere, che gli sposi
prendono a prestito dal guardaroba eterosessuale, non avendo nel proprio
alcuna pars costruens da indossare; fino a ora la sartoria LGBT ha prodotto solo pars destruens. “Con questo segno vincerai” sussurra allora il matrimonio,
offrendogli la propria ritualità affinata nelle numerose messe in scena.
Spettacolo che ha successo non si cambia.
Se dico dunque che Francesca Pascale era con tutta evidenza il maschio
nella coppia, sto solo dicendo che il re è nudo, non ha alcun abito per
l’occasione e agguanta il primo che trova offerto dalle nostre gentilissime mani; quindi siamo noi ad accompagnarla all’altare, cerimonioso è il contegno. Un gioco
delle parti, di ruolo, di genere, chiamatelo anche qui come vi pare, che
culmina nel folclore.
Quello stesso folclore matrimoniale a cui abbiamo già assistito nel primo
matrimonio tra persone dello stesso sesso, avvenuto in Italia il 21 ottobre del
2002, quando furono introdotti i Pacs. A sposarsi, dicendo “oui” invece di sì,
erano Alessio De Giorgi e Christian Panicucci, ora impantanati nelle beghe
legali del divorzio (the dark side of the
marriage). Si congedarono dagli invitati a bordo di una carrozza scoperta
trainata da un bel cavallo baio, uno degli sposi indossava la cravatta bianca e
l’altro rosa, il colore del fiocco che si esibisce alla nascita di una bambina. Ed è stato osservando la fotografia che avrei voluto
abbracciarlo, stringerlo forte e chiedergli scusa.
No, non sto parlando dello sposo, ma del cavallo, abbracciarlo come fece
Nietzsche a Torino oltre un secolo prima. Già che solo i cavalli riescono a
vivere al di fuori di ogni segno, codice, simbolo. Noi vi sfuggiamo, ma per ritornarvi
nella mesta caricatura del folclore.
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