Per promuovere la vendita di una t-shirt – io l’ho acquistata, il cotone è
molto buono – Amazon pubblica la fotografia di un ragazzo che indossa
l’indumento. Fin qui tutto normale, è quanto avviene d’abitudine. La
particolarità dell’immagine sta nel fatto che al giovane manca una gamba, un
dettaglio del tutto eccentrico rispetto all’intento commerciale. Al posto
dell’arto naturale una protesi meccanica, messa in evidenza – i perni, gli
snodi, le vitine – dai pantaloni corti a bermuda.
L’handicap fisico sfacciatamente esibito, non so se per contrasto o analogia, mi ha fatto tornare alla mente un vecchio manifesto pubblicitario, a realizzarlo furono Oliviero Toscani ed Emanuele Pirella nel 1973. Sopra a un sedere femminile di proporzioni praticamente perfette (apparteneva all’attrice e modella americana Donna Jordan) infilato a fatica dentro a jeans logorati dall’uso che si arrestano all’attaccatura delle cosce, campeggiava enorme la scritta: “CHI MI AMA MI SEGUA”, e più sotto a caratteri ridimensionati il logo del produttore.
Nell’ingegnosa macchinazione degli autori era prevista la seguente
metonimia, ovviamente inconscia: se compro i jeans di questa marca, Jesus, lo stesso nome di Gesù detto il Cristo, mi iscriverò di diritto a un’umanità irriverente e priva di
superstizioni religiose, che al paradiso in cielo preferisce quello mondano di
un bel culo. Nel caso di acquirente femminile, per emularlo: anche a me verrà
un sedere così; mentre il sogno\promessa maschile sarà quello di carezzarlo,
possederlo.
A Pasolini diede molto fastidio la campagna pubblicitaria di Toscani e
Pirella, e ne scrisse con la consueta appassionata veemenza sulle pagine
del Corriere della Sera. Ma questa è un'altra storia. Torniamo
dunque alla mia bella e nuova t-shirt, e alla gamba monca che ne fa da
testimonial. In che modo potremmo riformulare, nel caso, il sotto testo, a
configurarsi come esca per l’acquisto?
Non mi sembra proprio che possa essere esteso il richiamo implicito nella pubblicità dei jeans Jesus: se acquisti una maglietta Tommy Hilfiger, nella fattispecie si trattava del noto marchio americano, perderai anche tu una gamba… No, certo che no! E neppure avrai un uomo, privo di una gamba, ad allietare le tue notti. Direi piuttosto qualcosa del genere: tu, che vesti Tommy Hilfiger, sei una persona fondamentalmente buona, non discrimini le persone in base a razza, colore della pelle e neppure integrità fisica.
Insieme all’indumento, io ti vendo
allora la ratifica della tua bontà. Ma attenzione: se qualcosa deve essere
acquisito, confermato, significa che al fondo non ne esiste la certezza, piuttosto il dubbio. Ne scrive Platone nel Simposio a proposito della filosofia, letteralmente amore per la sapienza, concludendo che ciò
che si desidera per amoroso slancio sta di necessità fuori di noi.
Possiamo a questo punto tentare un primo bilancio. Se quarant’anni fa si entrava in un negozio di indumenti a chiedere i jeans di quella marca lì… massì dai, quella dei manifesti col sedere, che un sedere così col cavolo che potevi averlo nella vita reale – problema superabile attraverso una restituzione immaginaria –, la bontà guadagna ora una scorciatoia altrettanto illusoria, a fare da sfondo alla nuova e altrettanto religiosa fiducia (chi mi ama mi segua!) nel politically correct.
Formula che, anche a tradurla nell'idioma nazionale, politicamente corretto, non significa
essere buoni, ma della bontà indossare l’abito, il brand; una postura virtuosa ad accrescere il valore sociale, ciò che i sociologi chiamano status. E infatti io ho acquistato subito la t-shirt Tommy Hilfiger, di un bel blu oltremare.
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