martedì 19 luglio 2022

Luca Serianni, cosa mi ha insegnato


Ho conosciuto Luca Serianni quattro anni fa a Poschiavo, un minuscolo borgo svizzero dove c'è grande attenzione per la lingua italiana, parlata in quel cantuccio italofono del Cantone dei Grigioni. È stata una conversazione intensa per quanto brevissima, e come giusto asimmetrica: lui sopra e io sotto; ma solo per mia disposizione, non perché mi venisse fatto pesare il suo status.

Ci ripenso, come naturale, in conseguenza al terribile incidente di cui è stato vittima. Segue un sottile senso di colpa per un intervento che ho pubblicato nei giorni scorsi. Non parlavo espressamente di lui, ma di fatto lo includevo nella categoria dei linguisti, di cui mi burlavo bonariamente. La questione a monte è però molto seria: di chi è la lingua, a chi appartiene?

La lingua è nostra sembrano rispondere alcuni linguisti, specie quelli che spopolano sul web; mi viene in mente una linguista di origini ungheresi che è severissima con le migliaia di follower, a cui distribuisce vigorose bacchette sul dorso della mano: questo non si dice, questo non si fa, io ho studiato con Tullio de Mauro che cazzo vuoi capirne tu! Impara piuttosto a usare la schwa.

Un atteggiamento che nel mio testo riscontravo anche nei traduttori; alcuni traduttori di nuovo, ma nemmeno questo specificavo. Probabilmente è la quotidiana lotta con la lingua (che conoscono meglio di me) a indurre in loro un sentimento quasi aristocratico di possesso, si manifesta in altezzoso fastidio verso i cliché più comuni e virali. Lo stesso aggettivo virale è divenuto un cliché, per non dire di espressioni erronee come carinissimo e attimino, in cui viene applicato un superlativo a un diminutivo e un diminuito a quella che già è un'unità minima e non più divisibile. I bravi traduttori questi errori non li compiono, e perciò dovremmo essergli grati.

Eppure eppure...

Eppure la lingua appartiene anche a chi dice carinissimo e attimino, in un'ideale frazionamento azionario la quota che gli spetta sarebbe pari a chi dice apotropaico. Anzi, se scattasse un'OPA per il controllo del pacchetto di maggioranza della lingua italiana, vincerebbero probabilmente coloro che ci travolgono con carinissimo di qua, carinissimo di là, aspetta un attimino; apotropaico viene ormai pronunciato solo da antropologi e snob. Certo, saremmo tutti più poveri senza il termine apotropaico, ma in mancanza di spiriti maligni a minacciarci dall’ombra, dobbiamo mettere in conto di vederne prima o poi svanire la parola.

Provando ad attualizzare il tutto con una metafora, ogni lingua è il selfie che una comunità umana fa a sé stessa in un luogo e in un tempo definiti – "sé stesso io preferisco scriverlo accentato" diceva ancora Serianni a Poschiavo, lo trovo più corretto. Subito aggiungendo con un sorriso bonario: "Però ognuno è libero di fare come gli pare". Libertà, segnamoci anche questa parola. Certo, il selfie del nostro liberissimo italiano attuale non dovrebbe renderci troppo orgogliosi. Tant'è, agli svizzeri piace ancora molto.

Ma il nostro italiano è davvero nostro, e qui torniamo al punto? No, la lingua è di tutti quelli che la utilizzano – poco importa se sei nato a due passi da Sanata Maria Novella o nel Cantone dei Grigioni –, la lingua è come la storia nella canzone di Francesco De Gregori: la lingua siamo noi. In ciò potremmo condensare l'articolato e dotto e flessibile pensiero di Luca Serianni.

Nel vivere una lingua bisogna dunque essere disposti a riconoscere e accettare i cambiamenti, cambiare parole per cambiare idea. Quindi chiedere scusa quando si rimane ancorati a vecchie fotografie, o a inquadrature troppo strette. Nel mio precedente intervento ho sbagliato a scrivere di linguisti e traduttori senza anteporre l'aggettivo determinativo alcuni, che qui ho sottolineato più volte: alcuni linguisti, alcuni traduttori.

Luca Serianni non è tra questi, linguisti e traduttori (ma anche giornalisti e scrittori e professori) che pensano alla lingua come “cosa nostra”. Purtroppo i dispacci medici sulle sue condizioni lasciano poco spazio alla speranza, ma poco è sempre più di niente; in fondo è anche questo un lascito che proviene dal magistero linguistico. La speranza è di poterlo risentire un giorno a Poschiavo o in qualsiasi altro luogo dove le parole sono importanti, "chi parla male pensa male e vive male". Ma comunque pensa, vive, non possiamo decidere per lui. È ciò che distingue una disposizione democratica dai linguaggi autoritari e di potere. Serianni non è uomo di potere, e mi ha insegnato ad amare e condividere la lingua con chi dice carinissimo e attimino.

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