La letteratura, si è appena concluso il Premio Strega con il titolo assegnato a Mario Desiati e la consueta coda di polemiche. La letteratura... Marianne Moore, poetessa e scrittrice statunitense attiva nel secolo scorso, scriveva con icastica ironia: “la letteratura è fatta da rospi veri dentro a giardini immaginari”.
Come tutte le affermazioni perentorie è utile collaudarla,
esponendola alla prova di un’esperienza vissuta. Prendiamo allora qualcosa che abbia carattere indubitabile di verità,
nel mio caso corrisponde all’interesse per il suicidio, quando leggo su un
giornale di qualcuno che si è suicidato corro subito a leggere: l’età, lo stato
di salute, la biografia; quel poco che ne viene accennato, perlomeno. Ma
soprattutto la procedura, e in che modo questa possa essere convertita in
segno, un messaggio infilato dentro una bottiglia a cui non è prevista alcuna risposta.
Eppure anche nella morte, o più propriamente nel gesto di morire per
propria scelta, è racchiuso un supplemento di vita (vita sottratta allo sguardo
che si nasconde per essere scoperta, come avviene nel gioco del nascondino), se è vero almeno quanto scrive Pasolini che “morire è smettere di comunicare”. E se ci pensiamo,
la comunicazione contenuta nel suicidio è massima, disperata la ricerca di un
contatto con gli altri ma, anche, con parti interne e non comunicanti di sé.
La modalità di suicidio lambito dalle mie fantasie sempre più frequenti –
sì, l’ho anticipato che il tema mi tocca personalmente, ne sono totalmente
irretito – è quella del precipitare, lanciare il corpo dalla finestra
come si faceva un tempo con le sigarette consumate, per vederlo infine e
finalmente schiantare al suolo; le viscere che si diffondono sul selciato
mescolandosi al sangue, la bile, i denti frantumati e la merda che esce dal buco del
culo, quando gli sfinteri si allentano nel prendere concedo dalla vita. Un
corpo che non è un corpo qualunque: è il mio corpo, posso vedermi nel
disfacimento carnale.
Trovando quest’ultima parte poco estetica, Yukio Mishima si era infilato un tampone di cotone dentro l'ano, prima di afferrare un’affilatissima spada da samurai e premerla con forza contro i muscoli del ventre; muscoli addominali ispessiti da ore e ore di esercizi ginnici, nella speranza di resistere, in tal modo, alla modernità e convertirsi in scultura antica. Ma non ci era riuscito, e così il suicidio rituale giapponese, il seppuku, gli apparve come l'unico modo per riaffermare la sua ossessione. Era questo il rospo vero che lo abitava, di cui aveva scritto in decine di libri di finzione. Mancava solo un explicit che ne fosse all'altezza.
E invece no, mi accorgo adesso componendo il pensiero in parole, tra le tante funzioni della scrittura c'è anche quella di scoprire ciò che si pensa, prima ancora di comunicarlo ad altri. Il suicidio non conclude un bel niente, almeno nella percezione di quel suicida potenziale che sento di essere. Piuttosto dispone – illusoriamente, beninteso – a un capitolo nuovo della propria vita: un inizio, un esordio, certamente una liberazione. Questo è invece il mio, di rospo vero.
Ma ci sono anche i giardini immaginari. Nella fattispecie, quando pochi
giorni fa ho scritto pubblicamente della mia fantasia di suicidio – e scrivendone diventava automaticamente
fiction, mi era da subito chiaro –, ho aggiunto i fiori del campo santo per passaggi successivi, pennellate di colore che si integravano
alla macchia di sangue centrale. In tal modo la scrittura si precisa in chiave narrativa attraverso una lieve dilazione, dopo averne offerto, come sempre faccio, una prima e goffa
versione su Facebook – il mio modello di scrittura è l’happening musicale: pubblico di getto così come viene, buona la prima. Poi faccio l’editing ottenendo che lettori diversi abbiano esperienze diverse. Della serie, beati gli ultimi.
Ciò che è successo in seguito l’ho trovato molto interessante. I lettori
della stesura originaria, chiamiamola “la brutta”, hanno in buona parte lasciato un
like o un cuoricino, mostrando di apprezzare con una partecipazione nei commenti che davvero non mi aspettavo e ho avvertito come autentica (un altro rospo vero), in taluni casi mi ha commosso. Ma appena si è iniziato, nelle versioni
successive, a scorgere una certa cura per
la forma, il ritmo, gli accostamenti onirici tra memoria e presente, insomma
una cornice narrativa che ricomponeva l'urlo sconnesso di dolore, quel testo ha
immediatamente perso di interesse.
Attenzione: non sto dicendo che i miei pochi lettori abbiano torto, anzi
hanno certamente ragione loro, ma mi pare che in questa preferenza per i rospi
veri sui giardini immaginari sia contenuta un’istantanea più allargata della nostra epoca, a rendere ormai
quasi del tutto pleonastica la letteratura così come è stata sperimentata nel
passato, e cioè nella forma ibrida suggerita da Marianne Moore.
Le possibilità associative offerte dai social, a cui si accompagna
l’offerta di media narrativi molto più accurati nel rimodulare l’immaginazione – cinema e televisione su tutti, ma anche
videogiochi –, richiedono alla letteratura un approccio molto più osceno e
immediato, un tutto e subito di sentimenti intimi come quelli esibiti da Fedez nel pubblicare gli audio delle sue sedute con uno psicologo. Il termine,
ormai ampiamente datato, di autofiction, non corrisponde a questa urgenza di
realtà senza tanti fronzoli e abbellimenti. E’ un’approssimazione per
difetto.
Un gesto letterario pienamente compiuto e all’altezza dei nuovi tempi, sarebbe dunque stato realizzare il mio suicidio in diretta Instagram. Cosa che però non ho nessuna intenzione di fare, mi dispiace, sto comunicandovi una brutta notizia. E se un giorno darò seguito agli incitamenti del mio demone – dai, fallo, fallo, buttati... –, sarà senza anticipazioni social, spoiler, ammiccamenti in direzione di camera. Sarà un suicidio vintage, ecco. In cui anche un rospo spiattellato su una strada provinciale viene ricoperto con il lenzuolo bianco del pudore.
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