E poi, ecco, mi torna all'improvviso in mente una vecchia storia di tronchi e pagliuzze, da non vedere – i primi – nei propri occhi, mentre giganteggiano le seconde in quelli degli altri.
Era il 1988, io avevo ventidue anni e una relazione con una donna di sette anni più vecchia di me. La cosa mi inorgogliva parecchio, e nel parlare con i miei coetanei cercavo di introdurre quel dettaglio anagrafico: "Sto con una donna matura" rispondevo a chi mi chiedeva se fossi fidanzato; in realtà lo dicevo anche a chi non chiedeva – sotto testo: "Non come voi che andate a letto con ragazzine scipite."
Ci vedevamo raramente, al termine di un intenso amore estivo lei era tornata nella città lontana dove aveva un lavoro, io frequentavo ancora l'università. Oltre allo scambio di lettere scritte su carta rosa o azzurrina, svelte telefonate in teleselezione, mi raggiungeva a Sondrio almeno una volta al mese, magari aggiungendo qualche giorno per i ponti festivi. Durante una di queste visite mi aveva portato un profumo appena uscito, era contenuto in una boccetta color porpora e odorava di mirra, violetta e buco del culo di castoro.
“Grazie grazie” avevo detto sbrigativamente, lei forse si attendeva maggiore entusiasmo – se non altro per rispetto verso i castori, da cui veniva estratta una preziosa essenza chiamata castoreum – ma ero tutto preso dall'organizzazione di uno spettacolo tratto da un testo di Cechov; non recitavo ancora, ma mi ero improvvisato nel ruolo di impresario teatrale.
La sera della prima, oltre alla mia compagna, erano venuti a teatro anche mia madre e l'uomo che frequentava; un bell'uomo devo riconoscere, somigliava un poco a Raul Gardini, e come lui consapevole dei denti bianchissimi da esibire come il gran pavese sul veliero. Unico problema, era sposato. Io stavo dunque tra le quinte, e Manuela, così si chiamava, si era seduta in platea assieme a mia madre e a Raul Gardini. Lui aveva voluto pagare per tutti, anche se io avevo offerto tre biglietti omaggio.
Il giorno successivo Manuela mi prende in disparte, e dice con voce grave: "Sai cosa ha fatto ieri sera quel porco?"
“Quale porco?”
“Il trombamadri, dai, hai capito…"
"Cosa ha fatto?"
"Durante lo spettacolo mi ha infilato una mano tra le cosce."
"Ma sei sicura che voleva fare proprio quella cosa lì?"
"No, stava cercando l'accendino.”
"Ok ok, scusa. E tu?"
"Gli ho cacciato le unghie e rispedita sul
bracciolo. Non volevo che tua madre si accorgesse di nulla."
Ho scordato cosa risposi alle ultime parole,
probabilmente feci come con il profumo. Qualche anno dopo venni a sapere che il
porco, sì, insomma, l'uomo di mia madre, aveva molestato due minorenni; i
giornali locali non davano dettagli, ma parlavano di bambine con meno di dieci
anni. L’età della figlia di Alice Munro quando è stata violentata dal patrigno.
Fortunatamente, la relazione con mia madre era già
terminata da un pezzo, e anche quella con Manuela. A parte una generica
sensazione di nausea, non dissi nulla. Solo un altro piccolo colpetto di scopa
a nascondere la polvere sotto al tappeto.
Però oggi mi chiedo: se quando qualcuno – un
intruso, un imbucato alla festa senza invito –, aveva cercato l’accendino tra
le cosce della mia donna io mi fossi comportato diversamente? Avrei potuto
affrontarlo, magari dargli due schiaffoni, non sarebbe stato meglio? Certo, in
quel caso non c'era stato stupro, Manuela non aveva nove anni ma, come vantavo
di fronte ai miei amici, era una donna matura, la lingua pronta e
svelta dei toscani. Eppure rimane questo desiderio di rimuovere il perturbante,
girare lo sguardo dall'altra parte.
In fondo, cosa c'è di più bello del difendere la dignità delle persone a cui si vuole bene? Tra l'altro, a quel tempo mi allenavo in palestra, praticavo arti marziali, avrei potuto infrangere il suo sorriso da copertina di Class, affondare il veliero con cui pensava di poter solcare qualsiasi mare. E invece niente.
Non voglio dire che quegli schiaffoni avrebbero dissuaso l’uomo dalle successive molestie, ma era la cosa giusta da fare, do
the right thing, come dicono gli anglosassoni. O forse no. Avrei così
rovinato l'amore tardivo di mia madre, poco importa se illusorio: di quale
amore possiamo dire con certezza che sia pienamente realistico?
E poi anche Manuela – colpo di scena! – era a quel
tempo sposata, ecco la ragione di telefonate sempre brevi e furtive, mai che
fossi io ad andarla a trovare nella casa dove viveva con il marito. Una storia
piena di ombre e compromessi, dove bene e male, giusto e sbagliato non
raggiungono mai un punto di equilibrio (ci sono cattivi più cattivi di altri, e
buoni più buoni), ma nemmeno si separano nitidamente come avviene nelle
pellicole hollywoodiane.
A volte, nei titoli di coda di quei film è presente un espediente simile al tasto che nel pianoforte prolunga la nota, e alla parola fine si accompagnano brevi indicazioni sulle sorti dei personaggi. Partiamo dunque dal
porco, che è morto dopo pochi anni di tumore alla prostata. Morta anche
Manuela, a cinquant'anni, di infarto. Mia madre ora va tutte le mattine al bar
Meetic con le sue amiche e le loro badanti, il resto del tempo lo trascorre a
vedere i politici che litigano in tivù; non sono certo che capisca tutto ciò
che dicono, anche se il volume è a palla.
Quanto a me, a parte tentare di curare una
neuropatia che ha deciso di trasferirsi nel mio corpo – il nostro corpo dunque,
più suo che mio – mi sento come un personaggio dello spettacolo che avevo
organizzato nel lontano inverno del 1988, si era appena concluso il Festival di
Sanremo celebrando la vittoria di Massimo Ranieri con Perdere l’amore. Prima che cali il sipario c’è sempre qualcuno che apre o chiude un ombrellino, dicendo La vita se
ne è andata...
Penso così alla vicenda della figlia di Alice
Munro con infinita pena. Come allora non seppi alzare la mano per dare uno
schiaffo, ora non riesco, di più, non voglio levare il mio indice accusatorio e
puntarlo contro la scrittrice canadese. Mi limito a osservare la polvere emersa
da sotto il tappeto dei ricordi, concludendo che forse solo la donna cannone è
riuscita buttare il suo enorme cuore tra le stelle, e a farlo scintillare di
fronte ai maligni e ai superbi.
Ma era una canzone, era fiction, come le parole
che scriveva Alice Munro, di cui i fatti ora emersi non intaccano il valore. Il
punto non consiste infatti nell’impresa impossibile di separare la vita
dall’opera, e piuttosto nel riconoscere una biforcazione: l’autore va verso la
vita come può, il racconto come deve. Ma la sostanza è la medesima – ambigua,
vischiosa, disperata. In una parola: umana.
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