martedì 9 luglio 2024

Alice Munro e i pensionati del Bar Corona

 

Sotto casa mia c’è un bar, piuttosto sciatto, su cui campeggia un'insegna luminosa rossa con la scritta Bar Corona. È gestito da una giovane donna cinese separata che si fa chiamare Monica; ho provato a chiederle il vero nome, ma ho capito che non ha tanta voglia di dirlo.

In ogni caso, Monica è molto simpatica. Ogni volta che la incrocio mentre porto il cane a fare pipì ai vicini giardinetti, riesce a fare, contemporaneamente, due cose per le quali gli snodi mandibolari caucasici non sono attrezzati. Mi sorride e intanto dice: “Ciao calo, ciao calo, salutami la mamma”, che ogni tanto si ferma lì a bere un caffè con la sua amica Luisa. Un giorno le ho chiesto se potevo fare recapitare al bar i pacchi di Amazon, almeno quando sono fuori casa. “Celto calo, celto calo, salutami la mamma” ha risposto Monica.

Questa mattina sono passato al Bar Corona a ritirare un paio di ciabatte ordinate su Amazon, trovando i soliti clienti: quattro pensionati, giocano a scopone divisi in coppie, consumano poco; un tizio sempre incazzato e vagamente tossico infila monete a ripetizione nel video poker; due ventenni kosovari al bancone, si dividono con millimetrica precisione una Ceres. Più in là, Lorenzo sorseggia il suo immancabile bianco, ride da solo, mentre un terzo kosovaro sta seduto fuori a fumare assieme al Venezia, così ovviamente chiamato per la sua provenienza.

Colgo i loro discorsi, stanno parlando – pensionati compresi – di quello che è successo ieri sera al bar. La moglie di un medico si è chiusa in bagno con uno dei kosovari, non ho capito quale, e gli ha fatto un lavoretto. Usano proprio questa espressione, lavoretto, a parte il Venezia che dice ghe te ta sboro. Lorenzo lo sente e inizia a ripetere: “Ghe te ta sboro, ghe te ta sboro”, e continua a ridere da solo.

Domani immagino che al Bar Corona ci sarà un nuovo argomento del giorno, ma oggi è questo, ghe te ta sboro. Come sono diversi da me, penso. Come sono uguali a me è il pensiero successivo. Il mio Bar Corona si chiama Facebook e oggi si parla di Alice Munro. Cosa faccio, non partecipo, non aggiungo la mia goccia di nulla al mare di niente? Massì, qualcosa mi inventerò… e comincio a scrivere.

Non credo che al Bar Corona, quello vero, sappiano chi sia Alice Munro, e cosa è successo alla figlia. Ugualmente, dubito che tutti i miei contatti Facebook conoscano il piacere clandestino offerto dal lavoretto della moglie matura di un medico, un noto nefrologo se non sbaglio. Ognuno dentro il suo mondo, ognuno con le proprie carte da giocare, Settebello, scopa! O in alternativa, costruire castelli che al primo soffio il vento spazzerà via.

A renderci simili e umani il gusto nel farci i cazzi degli altri. Non c’è niente di male, è così che nasce il senso di appartenenza a una comunità: nel pettegolezzo di cui la letteratura è solo una forma più articolata e dotta, mentre per altri il luogo in cui fondare la propria individualità. È l’una e l’altra cosa, lo so che sono in contraddizione, la letteratura sta forse nell’arco testo tra questi opposti inconciliabili.

Poi ritiro il pacco con le mie ciabatte dalla suola in sughero – “Ciao calo, ciao calo, salutami la mamma” ripete Monica – e rientro a casa con il cane.

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