sabato 27 luglio 2024

Travestimenti del nulla

Mi sono sempre accostato alle immagini come a un sistema organizzato di segni, segni da decifrare, un testo composto di sole figure. Per dire: se vedo la fotografia di un gruppo di studenti che fa il saluto romano, è successo nei giorni scorsi all'Istituto superiore Pirelli al Tuscolano, non penso, come il professore, che sia solamente una postura gogliardica connaturata all'età, senza provare nessun imbarazzo nell'essere incluso nello scatto. No, penso che sia apologia di fascismo.

Ugualmente, se una ragazza prosperosa posta un selfie su Instagram, la fotocamera dello smartphone è puntata sulla linea che discrimina i seni, la camicetta sbottonata quanto basta, sono portato a credere che stia cercando di provocarmi sessualmente, e lei ciò che i francesi riassumono con il termine di allumeuse (accenditrice).

La differenza è che l’apologia di fascismo, oltre a essere un reato, mi fa schifo, al contrario delle tette che mi piacciono molto – ma quando vengono usate come strumento di potere sul desiderio maschile, mi piacciono meno. Tutto ciò, in ogni caso, lo pensavo fino ieri. Oggi mi è tornato alla mente un vecchio saggio di Jean Baudrillard (Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, 1979), in cui assimilava la cultura postmoderna al sistema della moda; un’associazione ripresa da Roland Barthes, se non sbaglio.

Sulle passerelle della settimana milanese moda, ci dice Baudrillard, si consuma la scissione definitiva tra significante e significato, forma e sostanza. Sfilano con lunghe falcate le modelle mentre il senso si defila. Chi ha rivestito i loro corpi filiformi cita il casto perbenismo degli anni Cinquanta, scarpe basse, abiti scampanati con stampe floreali, oppure lo spirito sbarazzino e libertario della Swinging London, stivaloni in pelle, mini gonna, o ancora lo stile dark punk underground, che non si capisce cosa diavolo voglia dire. A ogni tornata – avanti indietro, avanti indietro, e anche questo muoversi senza direzione è probabilmente sintomatico – la narrazione cambia involucro, ma a ben vedere si tratta solo di ornamento, o come dice Baudrillard di simulacro. Il simile si è però convertito nel medesimo, non c'è un altro a cui il segno rimandi, è il tripudio dell'intransitivo.

Un falso movimento, un gattopardesco mutare di continuo per essere qualcosa – l'antropologo Ernesto De Martino la chiamava crisi della presenza, ma forse è più chiaro con Stan Lee e la sua Donna Invisibile dei Fantastici Quattro – qualsiasi cosa di cui i social possano farsi riflesso. Forse solo Facebook ha ancora un piede nel vecchio mondo del significare, ma con quello che avanza si è sbarazzato da ogni cascame realistico, ha ragione lo sciocco a guardare il dito e non la luna da esso indicata. Ed è così che il segno incontra sé stesso, si auto segnala, dice guardami cazzo, la mia quota di realtà è proporzionale agli sguardi che ricevo, mettimi un like! Scriveva Osip Mandel'Stam in una poesia del 1923:

Minimo con minime ali

un corpicino ruota nel sole,

minuscola nell’empireo

brilla una lente ustoria.

 

Un niente di zanzara

allo zenith sibila in pianto

e, fioco ronzare di càribi,

geme una scheggia nell’azzurro.

 

«Non dimenticarmi, puniscimi,

ma dammi un nome, dammi un nome!

Si sta meglio, sai, con un nome

nel profondo, gravido azzurro!»


Quel nome è l'ultimo residuo di realtà a cui oggi abbiamo accesso, un nome che si è convertito in forma, in emoticon, ribaltati i tradizionali ruoli a nascondino: ci si sbraccia per essere visti, sono qui, ehi sono qui!, nella speranza che qualcuno, nominandoci, faccia tana, pazienza se al prossimo giro dovremo stare sotto. Perciò mi dispongo a una maggiore indulgenza anche verso chi fascisteggia o allumeggia sul web, intuendo che sono entrambi travestimenti di un tautologico nulla.

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