sabato 6 luglio 2024

L’età dell’oro

La mamma e il papà erano entrambi maestri elementari, li immagino adocchiarsi – prima e più sfacciato il maschio, quindi la ragazza ne ricambia maliziosa lo sguardo – nei corridoi a volta dell’Istituto Magistrale di Sondrio, la vecchia sede sprovvista dei mosaici astratti di Emilio Tadini. Siamo nella prima metà degli anni Cinquanta, le gonne scampanate e i maglioncini a vi dai colori discreti, grigio o beige perlopiù, i più vezzosi indossano cappotti con gli alamari al posto dei bottoni. Lui proveniva da Milano dove era stato in classe con un jazzista poi divenuto famoso, quando venne in tournée a Sondrio lo accompagnai al concerto, al termine ci fece una dedica sulla copertina dell'ultimo disco: "Al mio compagno... come ti chiami già? Ah, sì, Francesco, al mio compagno Francesco e a suo figlio Guido." Una dedica che papà si rigirava tra le mani, ma non ascoltava mai il disco; gli era sufficiente parlarne con quella punta di orgoglio di chi ha sfiorato il mantello di un santo, e, per metonimia, ne riflette la virtù. Al contrario, svicolava sul proprio rendimento scolastico, non si capisce se e quante volte fosse stato bocciato. Poi si era messo di buzzo buono e iscritto al concorso per diventare direttore didattico, era già sposato e con un figlio che sarebbe rimasto unico; quale surrogato di un fratellino mi era stato donato il Big Jim. In televisione davano lo sceneggiato su Sandokan con Philippe Leroy e Kabir Bedi e, soprattutto, Carole André, di cui mi innamorai immediatamente. Credo abbia contribuito il realismo dello schermo a colori dell'apparecchio Grundig: TEDESCO aveva sottolineato il venditore con il tono di papà quando parlava del compagno jazzista; finalmente l’agognata televisione a colori, nel condominio già la possedeva solo la famiglia Ciccozzi. Con le gemelle Kessler, in bianco e nero, non era scoccata la stessa scintilla, eppure anche loro erano tedesche. Visto l'immediato successo della serie, la Panini realizzò l’album delle figurine che io cercavo di completare, ma procedevo a rilento dividendo le mancette dei nonni con le figurine dei calciatori. Quando il papà era tornato da Roma dove aveva dato l’esame di Stato ("È andato tutto bene!" gridava al telefono alla mamma per sovrastare il trambusto della stazione Termini, poi erano finiti e gettoni e non avevo fatto a tempo a salutarlo) trovai una cinquantina di pacchetti sparsi sulle piastrelle in graniglia del nostro appartamento: metà appartenevano a Sandokan, l'altra metà ai calciatori. Io le raccoglievo a carponi, e a ogni nuovo ritrovamento seguivo la pista come un cercatore del Klondike; dopo anni di vane ricerche aveva finalmente trovato il filone giusto. La mamma invece continuava a insegnare, terminata la stagione delle supplenze in paesini abbarbicati sulle vette, aveva trovato anche lei il filone giusto, la cornucopia del ruolo fisso. Le fu assegnata la sede di Buglio in Monte, 577 metri di altitudine, sul versante retico, in auto quaranta minuti di viaggio con la sua Fiat 500 Super; rispetto al modello standard aveva solo i parafanghi più ampi, cromati. Ma altre volte veniva una sua collega a prenderla, la Titta, possedeva una Citroen Dyane dalla carrozzeria dorata, ricordava i carri di carnevale da cui lanciano i coriandoli e fanno le scoregge sedendosi su un cuscino gonfiabile. Condividevano il viaggio così da risparmiare sulla benzina e fare qualche pettegolezzo lungo la strada, anche il termos con il caffè veniva preparato a turno. Un giorno le accompagnai, non ricordo se fu con la 500 o la Dyane della Titta, solo che era in programma una gita a un vecchio mulino del luogo, mia madre voleva assolutamente che lo vedessi. Un autentico spirito da maestra presente tanto alla cattedra quanto nelle faccende private, persino adesso che ha ottantasette anni pedagogizza le amiche con cui si ritrova tutte le mattine al bar Meetic; loro annuiscono anche quando le pile dell'Amplifon sono scariche, avendo forse intuito che basta poco per farla contenta. Gli alunni della mamma avevano la mia età, si trattava di una quarta elementare, mentre quelli della Titta frequentavano la quinta, ma legai con i maschi di entrambe le scolaresche quasi subito, dopo una prima naturale diffidenza nei miei confronti; ero pur sempre il signorino venuto dalla città, il figlio della maestra. Non ci fu invece verso di approcciare le bambine, anche se ce n’era una che mi piaceva molto; aveva una treccia che raccoglieva i lunghi capelli allo stesso modo di Carole André, sigillata da un fiocco in tinta con la Dyane della Titta. Durante il tragitto a piedi dalla scuola al mulino mi ero preparato qualche frase da rivolgerle: Ciao, preferisci Sandokan o Zorro? Ce l’hai la Barbie? Io ho il Big Jim che sferra un colpo di karate se pigio con un dito sulla schiena. Vuoi sposarmi? Ma alla fine non le dissi nulla, e poi a chi, confondo il suo viso con i lineamenti generici e minuti dell'infazia, non so quale nome avesse (Roberta e Patrizia andavano sempre per la maggiore, ma iniziavano a comparire le prime Deborah), men che meno se i suoi occhi fossero azzurri come quelli di Carole André, o magari portava gli occhiali con una pecetta a coprire una lente, serviva a stimolare l’occhio pigro di cui si era verificata un'epidemia tra i bambini degli anni Settanta, ogni classe prevedeva come minimo un Moshe Dayan. Mi limitai a camminare per tutto il tempo alle sue spalle, lo sguardo fisso alla lunga treccia che oscillava a ogni passo, partivo dalla testa e poi scendevo giù, sempre più giù seguendo i fili dei capelli che si intrecciavano, confondevano restituendomi un leggero capogiro, fino allo strangolamento del fiocco del colore scintillante dell’oro.

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