Son tutte belle le mamme del mondo, lo cantavano Giorgio Consolini e Gino Latilla al Festival di Sanremo del 1954, da loro vinto con Tutte le mamme. Che non sono solamente belle, ma, continua la canzone, “grandi tesori di luce e bontà \ che custodiscono un bene profondo \ il più sincero dell'umanità.”
Forse dovremmo iniziare a considerare la canzone popolare, insieme a quel generatore di figure gigantesche e luminose che irradia a partire dalle colline di Hollywood, l’equivalente su scala collettiva dei sogni e dei lapsus freudiani, a fare da specchio segreto in forma più attendibile che non nell’arte colta, troppo sorvegliata per poter mostrare la nudità del re.
Ma allora tocca prendere in considerazione anche una canzone del 1928, Balocchi e profumi, fu scritta da Giovanni Ermete Gaeta e da principio interpretata dal tenore Fernando Orlandis, a cui sono seguite decine di versioni – più celebre quella di Luciano Tajoli, ma strepitosa la maniera con cui Peppe Barra la trasformò in un pezzo di teatro d'avanguardia. Qui pure si parla di una mamma, ma non propriamente un tesoro di luce e di bontà, e poco importa che nel finale avvenga il cattolico pentimento, per renderla compatibile all'Italietta con rosario e moschetto. A rimanere in testa è il refrain: “mamma, mormora la bambina \ mentre pieni di pianto ha gli occhi \ per la tua piccolina \ non compri mai i balocchi \ mamma, tu compri soltanto i profumi per te."
Un’immagine di madre opposta e complementare a quella che emerge dalla canzone di Consolini e Latilla: vanitosa, egoista, o come suggeriva Lacan una madre coccodrillo che ingoia i propri figli, e per occultarne gli appetiti sparge profumo sopra al gesto di cannibalismo. Per la psicoanalisi la madre è questa e quella, non diversamente dal padre, a un tempo Crono e Odisseo, in un arco teso che coniuga gli opposti psichici, per quanto i singoli individui possano protendere da uno dei due lati.
Ma allora non è vero che i social network, almeno quelli di vecchia generazione come Facebook, sono un luogo in cui poter finalmente vuotare il proprio sacco, non possedendo un padrone (come nella stampa tradizionale) che stabilisce la linea editoriale ed è pronto alla censura. Sono piuttosto l’equivalente di un’altra funzione psichica che Jung chiamava persona, ossia maschera, dal nome che prendevano le maschere indossate dagli attori nel teatro greco. Io almeno non ho mai letto il post di una madre che scriva qualcosa del genere: “Ieri avrei dovuto acquistare i libri scolastici per mia figlia. Ma poi sai cosa ho pensato: ha già troppi libri, sta tutto il tempo a leggere. Massì, al diavolo, con gli stessi soldi mi sono presa l’ultimo profumo di Chanel – una vera favola!”
Anche Chiara Ferragni e Fedez, che pur nella separazione continuano a essere uniti dalla menzogna spettacolare, quando ci sono di mezzo i figli sono pieni di amorosa sollecitudine. La progressiva perdita di interesse dei giovani per i social orientati alla parola credo dipenda in buona parte da questo: attraverso la scrittura è più facile travestire le emozioni primarie (sedurre, essere sedotti, ossia transitare tra le opposte polarità di un desiderio che non ammette interferenze, quali i figli rischiano di essere), in una messa in scena del privato che è più scena che privato; e questo non è necessariamente negativo, mantenere delle zone psichiche in ombra evita la dispersione del nucleo centrale con cui ci identifichiamo. Un paravento chiamato discrezione, un tempo era la virtù borghese per eccellenza.
Ma borghesia e gioventù non sono mai andati troppo d’accordo, ed è tratto comune alla gioventù l’essere devoti a ciò che viene percepito come vero – la propria verità, ovviamente. Loro la cercano, e a volte la trovano, più nelle immagini che nei testi; nei selfie ad esempio, secondo l’antico adagio che il corpo non mente. Ma anche nelle parole delle canzoni indirizzate al mercato giovanile ci sono verità a cui noi abbiamo smesso di prestare ascolto, considerandole oscene. Nel tormentone musicale dell’estate, Tony Effe ci comunica che “vengo da Roma centro, è pazza del mio accento \ vuole un figlio con me solo per farlo ricco e bello \ sto contando milioni, mi dispiace, non ho tempo.”
Viene un dubbio… non sarà l’equivalente attualizzato e coniugato al maschile di Balocchi e profumi?
Se anche Tony Effe avesse un figlio – certamente fatto ricco e bello come la matrice originaria, nel rap ogni pensiero deve trovare piena espressione, non sono ammessi impliciti e giri di parole, al bando la discrezione – ci dice che non avrebbe tempo per lui, per lei, per nessuno. Come la mamma del 1928, impegnata ad acquistare profumi e non balocchi per la propria bambina, il padre virtuale che si impone sull'estate 2024 è impegnato a contare milioni. Non mi pare sia cambiato molto.
Poi possiamo anche dire che tutto ciò ci fa schifo, ma se non altro è uno schifo vero, uno schifo autentico, basi ritmate nuove per vecchi sentimenti. O per essere più precisi: il riflesso di quel composto di luci e ombre che da sempre va a comporre l’umanità; più ombre che luci in effetti, almeno nei tempi ombrosi in cui per nominare una borsa da donna si usa la metonimia del brand – "seh, metti tutto nella Prada" continua Tony Effe, "ti porto con me in una villa a Copacabana." Ed è qui che incontriamo lo scarto epocale con la cassettina in periferia, da combinare con una mogliettina giovane e carina, agognate da Gilberto Mazzi in un'altra canzone del ventennio.
Al primo dubbio ne segue a questo punto un altro, e cominicio a sospettare che quella che incontro verbosa sui social (e di cui faccio parte) non è l’umanità, ma una sua versione riveduta e corretta a fin di bene, ben figurare nella fattispecie, come i baci tagliati nei cinema parrocchiali durante gli anni Cinquanta. Un rimosso che emerge e travolge il protagonista nella sequenza finale di Nuovo Cinema Paradiso. La nuova domanda così diventa: quanti baci rubati dal parroco ci stiamo perdendo perdendo tempo sui social? Speriamo che anche a noi, prima o poi, qualcuno li restituisca…
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