Stefano Brugnolo, docente di Teoria della letteratura alla facoltà di Pisa, li chiama critici teppisti, recuperando da Javier Cercas l’arguta intuizione. Gente che quando commetti un errore te le canta sul muso, come si dice da queste parti. Ma alcuni di loro, e penso al più celebre, almeno in Italia, e cioè Matteo Marchesini, oltre che coltissimi sanno essere acuti e sferzanti, per quanto manca sempre quell’elemento interlocutorio che ne fa appunto dei teppisti.
Faccio un esempio. Ieri Matteo Marchesini ha pubblicato su Facebook una lunga e dotta analisi (ne fa risalire le premesse ermeneutiche addirittura a Milan Kundera) sul recente conflitto israelo-palestinese, schierandosi senza esitazione dalla parte dei primi. È difficile sintetizzarne il contenuto, invito a recuperare l’intero testo sul suo profilo, la lettura di Marchesini offre sempre interessanti spunti di riflessione, anche quando le parole prescelte sembrano confezionate apposta per farti sobbalzare sulla sedia. Ad esempio quando scrive:
"...lo stato di Israele, fragile democrazia
circondata da dittature che la temono soprattutto per le sue istituzioni non
autoritarie".
Fragile democrazia… le sue istituzioni NON autoritarie… la temono solo per questo… Ma davvero? Davvero davvero?!
Sì, sta scritto proprio così, testuale. Si potrebbe ribattere che la colossale cantonata qui presa da Marchesini rappresenta una fortuna (una
fortuna per gli ebrei israeliani, se non altro), già che se quella fragile
democrazia non fosse, al contrario, fortissima grazie ai suoi arsenali atomici e alle alleanze militari, a quest’ora non ci staremmo nemmeno lambiccando su
quale aggettivo utilizzare. Israele, semplicemente, non sarebbe più, spazzata
via dalla ripulsa islamista.
Tocca quindi ricordare che la presenza di libere
elezioni è condizione necessaria ma non sufficiente alla democrazia, altrimenti anche la Germania nazista sarebbe stata una democrazia. Nemmeno la presenza di una stampa libera, divisione dei poteri,
giornaletti porno nelle edicole: non basta ancora. Ci sono gli elementari diritti delle
minoranze e quelli dei civili in un conflitto militare, il rispetto delle risoluzioni degli organismi di diritto internazionale, l'insediamento dei coloni in territori a tutti gli effetti stranieri. Tutti argomenti non pervenuti, per dirla con le previsioni del tempo di Campobasso negli anni Settanta, a cui Marchesini preferisce squisite citazioni da Brecht a Savinio.
L'alterità democratica di Israele in confronto alle tementi dittature che gli fanno da contorno si trasforma, così, in una foglia di fico in stagione tardo autunnale, e più che nudo il re si rivela oscenamente intento. Possiamo comprenderne le premesse da reperire in una condizione di obiettiva minaccia unica al mondo, una condizione extra-ordinaria, senza avallare il passaggio logicamente vizioso che fa di tali premesse delle ragioni operative, sorta di salvacondotto morale come quello in possesso dell'agente 007, con licenza di uccidere.
Giusto, piuttosto, il richiamo di Marchesini a ritrovare una cornice simbolica in cui collocare gli eventi – quella dei sensi di colpa post-coloniali dell'Occidente sconta un elementarismo inaccettabile, buona solo per le manifestazioni di pacifica protesta dei nipoti impoveriti della società affluente –, a patto che non faccia da velo al realismo politico, dove non ci sono buoni e cattivi ma solo precario equilibrio di forze.
Ed è così che si arriva al punto da lui eluso in una sfilza di parole dotte: la forza, è proprio la forza e non la piena ragione, non il pieno torto a pendere dal lato di Israele nel confuso e drammatico presente. Se pendesse dal lato palestinese non avremmo di certo la pace, ma nuovi pogrom. Perciò in molti invocano un difficile punto d'equilibrio ancora da cercare, tentare, collaudare con quella disposizione delicata e paziente che si deve avere nella costruzione di un castello di carte, pronti a ripartire ogni volta da capo. Tra questi, dispiace prenderne atto, non è presente Matteo Marchesini.
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