Uno dei pochi vantaggi
dell'infelicità è che si vede la silhouette del suo doppio. Purtroppo solo a
posteriori, ma si vede con chiarezza: traccia bianca di gessetto che disegna un
preciso contorno al suolo, già rimossi i corpi dei morti ammazzati a cui fa da
sostituto. Quando erano ancora in vita facevano troppe cose. Correvano,
danzavano, rubavano dal banco delle prelibatezze e poi scappavano via; anche
nel sonno continuavano a rigirarsi inquieti. Davvero troppe per non sfocare
dentro la foto di classe. Eppure c'è stato un tempo in cui l’infelicità, o come
volete chiamare l'imbuto che non porta da nessuna parte, solo pareti scivolose
che si restringono nel progredire del flusso, in quel tempo si offriva
ribaltato in forma di cornucopia, a eruttare meraviglie con aspetto di
normalità. Io per certo ne ho afferrate e conservo almeno tre. La prima è la
figurina di Sandokan che con un balzo trafigge la tigre, a sua volta gli si sta
avventando contro in un movimento che ricorda l'abbraccio degli emigranti, sono
appena rientrati al paese dopo avere fatto fortuna in un'America a caso. O per
essere più precisi si trattava dell'ultima, da incollare sull'album, un po' di
sbieco ma pazienza, saturando ogni finestrella che si spalancava su un
desiderio di completezza, mai più realizzata con le figurine dei calciatori.
Mancava sempre qualcuno: Anastasi, Chinaglia, l'introvabile Pizzaballa non
veniva scambiato nemmeno per Mazzola e Rivera, da un famoso giornalista con la
pipa soprannominato l'Abatino. Un destino nominale che spetta ai maschi, chissà
perché, per chi ha avuto in sorte una piccola appendice di cui andiamo tanto
fieri, è così difficile coincidere con il proprio nome; mio nonno Alfredo ad
esempio, veniva chiamato Pinin. Lo rivedo. Indossa un cappelletto di velluto a
coste marrone e tiene in mano l'albo appena uscito di Topolino, me lo andava
prendere all'edicola delle due zitelle – si diceva fossero sorelle, o forse
amanti... non ho mai capito – ogni volta che rimanevo a casa da scuola con le
tonsille in fiamme. Quando mi ristabilivo venivo mandato il fine settimana in
campagna dai nonni, per ritemprarmi veniva detto. E dunque il luogo, non la location,
attenzione, solo luoghi, spazi fisici in cui ogni recita veniva esclusa da
semplici gesti, se proprio vogliamo essere forbiti l'ambientazione coincideva con la fattoria dei miei nonni materni, che si trovava appena fuori dai confini della città. Mucche,
Maiali, conigli, gatti, perfino un cavallo acquistato per me, ognuno aveva un
suo posto definito in quel minimo cosmo. Solo le galline andavano dove gli
pare, nella distribuzione delle carte a loro spettava la funzione di jolly; i
nonni non hanno mai voluto tenerle rinchiuse, sostenendo che il brodo viene più
buono così. Razzolavano per l'aia tutto il giorno e poi andavano a deporre le
uova dove capita capita. Ma a un occhio attento non sfuggivano delle precise
strategie evolutive: l'impervio è da preferirsi all'esposto, qui non scoverai
mai il mio frutto pensavano le galline con il loro proverbiale cervello da
gallina. Il compito di smentirle spettava a me, più simile a un gioco, una
caccia al tesoro, ecco, che a uno di quei lavoretti che si dice facciano
maturare, contribuendo a rendere i bambini di campagna degli ometti molto prima
dei loro coetanei inurbati. Io rappresentavo un ibrido, adesso si direbbe un
bambino bifuel. Uno degli sgravatoi prediletti dalle galline era il fienile,
dove la nonna faticava ad arrampicarsi; quanto a mio nonno Francesco, da tutti
chiamato Cechin, era zoppo, non se ne parlava proprio. Con una scaletta di
legno assemblata a mano risalivo quelle che mi apparivano vere e proprie pendici,
e raggiunta la vetta iniziava la quest, avvolto dall'odore intenso del fieno
che sa di fieno, non di morte come sarebbe forse logico considerata la fine dei
fili d'erba recisi. D'altronde, anche il latte, sa di latte, e la merda di
vacca di merda. Con eccezione dello spaventapasseri, nel mondo contadino le
esperienze sensoriali sono tautologiche, non esiste il principio di analogia
che appartiene alla complessità cittadina, dove un saldatore somiglia a un
guerriero acheo e un vigile urbano a un pupazzo di neve. E quando prima o poi
ne scorgevo uno, un uovo ancora tiepido nella conca soffice dove la gallina si
era accovacciata per partorire (allora facevo un po' di confusione tra la
fisiologia di mammiferi e volatili da cortile...), quando succedeva provavo una
sensazione strana dentro la pancia, a cui non riuscivo a dare un nome. Che
tante volte è meglio non avercelo, un nome con cui infilzare le cose e i
concetti più difficili, trigonometria, spinterogeno, acceleratore di particelle
subatomiche, e una volta che si pensa di averle acciuffate con un suono poterle
finalmente raccontare. Chiamarle piuttosto con un fischio, come facevo con il
cane; arrivava in un battibaleno e aiutava me e la nonna ad adunare le galline
la sera. Almeno la notte, diceva, andava trascorsa nel pollaio, per evitare
l'agguato della volpe mentre io venivo riportato in città con la Prinz di mio padre,
anche lui Francesco ma dagli alunni detto il Maestro. Le galline nel pollaio e
io in un letto tiepido a sognare la figurina di Pizzaballa, portiere di
Atalanta, Roma, Verona, Milan e infine di nuovo la sua Atalanta. Seguendo la
rotta circolare di Ulisse aveva voluto concludere la carriera dov'era
cominciata, vicino a casa. Un ritorno che, più di un tributo al figliol
prodigo, era forse parso a lui uno schermo in cui riflettersi. Gli esordi nei
campetti di Verdello, dove occupava lo spazio tra due maglie appallottolate e
posate al suolo. Poi una corriera blu su cui salire per fare il provino nella
grande squadra. Con il Milan due terzi posti in classifica, nel '75 e '76; si
poteva forse fare di più ma insomma, lui si limitava a contenere il danno e non
a trafiggere la porta degli avversari come Sandokan. Sullo schermo la pellicola però gira a ritroso, nell'illusione di ritrovare, alla fine, l'inizio in cui è
ancora intatto il futuro, in un intreccio di sudore, tendini e sogno che per
convenzione viene chiamato felicità. Ed eccolo il nome che era meglio non
conoscere, la silhouette tracciata con il gesso sul luogo del delitto, il
cadavere da portare via. Al suo posto ci sta ora un'impresa edile. Il titolare
ha acquistato la fattoria dei nonni a un'asta fallimentare, ogni tanto mi
capita di passarci davanti per accompagnare la mamma al fiume, ma c'è sempre
qualcosa che richiama lo sguardo di entrambi dall'altra parte, o un bruscolino
finito dentro l'occhio. Tanto cosa vuoi ci sia da vedere: uova e galline non ce
ne stanno più, non decideremo adesso chi è venuto per prima. Solo betoniere,
bancali di mattoni in calcestruzzo, qualche camion in sosta e una gru ingobbita
che si protende verso il basso, sempre più in basso e greve senza mai
riuscire a coincidere con il suolo, dove dai sacchi di cemento sono fuoriuscite
minuscole scie polverose, se non fosse per la cornice potresti confonderle con le
tracce lasciate da Pollicino nel bosco. Quando piove si raggrumano in
incomprensibili figure, che per Pollicino è poi impossibile decifrare.
domenica 21 maggio 2023
Uova, o sull'impossibile ritorno di Pollicino
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Scrivi poesie immense in prosa deliziosa. E comunque, anche se all'epoca della mia fissa per le figurine, gli introvabili erano altri, quello che mi faceva impazzire era Magherini, riserva laziale che non mi faceva finire l'album. Pensa tu il destino d'un calciatore..
RispondiEliminaGrazie! Magherini non lo ricordo. Della Lazio mi aveva fatto penare la figurina del povero Re Cecconi, scambiato - complice il suo scherzo - per un bandito dall'amico gioielliere, e freddato con un colpo di pistola. Ma in quel prima felice, anche Re Cecconi ancora correva avanti e indietro per il campo (e per le pagine del mio album) con la sua chioma bionda e lunga.
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