Da quando ho smesso di leggere mi capita di chiedermi
perché prima lo facessi. E anche abbastanza spesso: sia leggere, in passato,
prima di avere problemi agli occhi, sia interrogarmi ora sulle ragioni che mi
spingevano farlo.
Mi aspetto sempre delle risposte complesse, tortuose e
lambiccate come quelle che certi miei amici pronunciano con una convinzione che
sfiora la minaccia (ok ok, non arrabbiarti, beviamoci una camomilla assieme).
Lo stile, ad esempio. Lo stile è tutto dicono quei
miei amici intellettuali, il modo in cui le parole vengono selezionate e,
quindi, ricomposte sulla pagina. Che un po' forse hanno ragione: ma tutto,
tutto tutto...?
Lo specchio a cui porgo la domanda mi restituisce uno
scuotere laterale del mento, che in Bulgaria significherebbe sì ma a Sondrio,
dove sono nato, no. Decisamente ciò che mi portava a leggere non era lo stile.
Le storie piuttosto, direi più che altro per via delle storie, almeno quando si
trattava di scrittura narrativa. Quanto alla saggistica la risposta è semplice:
per imparare qualcosa.
Ma anche le storie sono sempre le stesse, tre o
quattro al massimo, volendo essere generosi non più di dieci. È quanto
sostengono i miei amici di prima; a essere precisi sono amici per modo di dire,
sono infatti così chiamati i contatti sui social. Ma accidenti, questa è
forse una traccia!
Io chiamo amici uomini e donne di cui nemmeno
conosco il colore degli occhi – in un romanzo è un particolare che in genere
conosco –, e ciò per il semplice fatto di averne letto e a volte condiviso le
parole. Se le parole sono sintomi, la lettura crea dunque un'amicizia
surrogata.
Ma oltre che sui social network, con chi, con cosa,
avverto un legame tale da chiamare amicizia, per quanto non mi sfugga
l'elasticità un po' stiracchiata del termine. Con lo stile, con le storie?
Manno dai, l'amicizia si può instaurare solamente con i personaggi.
Se questa mia intuizione fosse vera, anche nel caso di
tre o quattro solo possibili storie (e continuo a non esserne mica tanto
convinto), l'esperienza di lettura cambia profondamente a seconda di chi le
interpreta. Ma prendiamo un esempio concreto.
Una persona si candida alla presidenza della nazione
più ricca e potente del mondo. Viene eletta, un po' fortunosamente, la
differenza di voti con l'antagonista è minima, ma viene eletta. Passano quattro
anni in cui avvengono svariate peripezie, e alla fine torna a casa con
un'immagine mutata per chi legge (ed elegge) rispetto all'incipit.
Bene, adesso proviamo ad associare a questa storia dei
nomi: Biden, Trump, Obama, Bush, Clinton... A me sembrano storie completamente
diverse, nonostante la medesima cornice narrativa. Certo, si potrebbe
ribattere, smentendo la teoria delle tre o quattro storie, che a essere diverse
sono qui le vicende interne, la polpa narrativa.
Ma se il vero punto di discrimine non fosse invece il grado di amicizia, che ciascun lettore ha nel frattempo sviluppato... Come io non mi sento equidistante tra Trump e Obama, verosimilmente – e infatti è ciò che provo – non lo sarò neppure tra Emma Bovary e il Corsaro Nero. Molto più simpatico il secondo, ovviamente.
In altre parole, una storia è determinata dalla somma tra uno o più gesti e uno o più personaggi. Qualsiasi variazione, anche minima, nel rapporto tra questi costituenti, modifica il risultato finale. Quando arriviamo alla resa stilistica abbiamo dunque già infinite possibili storie; potremmo dire che i personaggi sono i mattoni, il plot l'ingegneria narrativa e lo stile la sua architettura.
Certo, confesso di avere mollato la lettura, in alcune
tediose circostanze, perché infastidito dalle scelte formali dell'autore. Ma è
più frequente che io abbia continuato a leggere una storia intrigante
scritta male, che non una storia scritta divinamente le cui pagine però
giravano a vuoto, sempre più pesanti da girare.
Ma in quest'ultimo caso, se il personaggio era
riuscito a guadagnarsi la mia amicizia ero capace seguirlo in interminabili capitoli in cui non avveniva quasi nulla: sbocconcellava madeleine, girovagava
per Dublino, cercava di smettere, senza riuscirci, di fumare. Posso essere
irretito in una relazione amichevole anche da animali e perfino oggetti,
umanizzando un edificio scolastico come fa Sally, la sorellina di Charlie
Brown (e il bello è che l'edificio le risponde).
La letteratura sembra così smentire la radice
filosofica del pensiero occidentale, che trova sintesi in una frase attribuita,
e probabilmente mai pronunciata, ad Aristotele: "amicus Plato sed magis
amica veritas" (sono amico di Platone ma sono ancora più amico della
verità).
Macché, proprio il contrario. Come lettore o, meglio,
ex lettore, io sono amico della verità formale dello stile, ma la mia amicizia
più vera e profonda è rivolta ai personaggi, il cui modo di vivere le vicende
narrate determina storie sempre diverse. C'è dunque tempo prima piangere la fine
della letteratura.
(paro paro da facebook..) Non credo proprio che le storie siano tre o quattro..smetterei di legger(l)e anche io. In realtà si susseguono, moltiplicano, dividono (sottraggono mancherebbe) creando sempre del nuovo alla nostra famelica voglia di sorprenderci. Ma forse è questo il problema: quando finiamo di sorprenderci finiscono tutte le storie. Quindi la novità reale siamo noi.
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