sabato 27 maggio 2023

Dopo

Da quando è subentrato un desiderio del dopo, ho cominciato a provare le vertigini. Prima non ne avevo mai sofferto. È una vocina, il mio desiderio del dopo, che sussurra all'orecchio con il tono di chi racconta pettegolezzi, ogni giorno sempre più pettegolezzi a sfondo sessuale: quello c'ha le corna, deve abbassare la testa quando passa dalle porte, lo sai, vero, come la moglie ha fatto carriera... Di notte la vocina si moltiplica in un coro di sconcezze senza ritegno. Finita anche l'ultima serie su Netflix e spento il televisore posato davanti al letto, nel dormiveglia il desiderio si precisa. Vedo il mio corpo afferrato da una forza che sono e non sono io, lo solleva da terra come fosse leggerissimo, quindi lo scaglia nel vuoto successivo a uno strapiombo, dove sosta per un tempo che mi appare irragionevolmente lungo. Il corpo che porta il mio nome non è però spaventato, semmai possiede quello spregio verso la gravitazione di Willy Coyote: per l'ennesima volta ha pasticciato con la dinamite, ed è rimasto sospeso sul cornicione di un canyon. È solo dopo, quando realizza che canyon e cornicione sono ormai definitivamente separati, che comincia a precipitare, e con lui precipito anch'io. Ma qualcuno, evidentemente non coincide con me, si è intrufolato da clandestino nella stiva del mio desiderio, e continua a vedere anche dopo, sempre dopo. Forse si tratta dello spettatore di una sequenza cinematografica girata con il dolly che si abbassa lentamente, fino sondare nel dettaglio i brani carnali sparsi al suolo – la rotula che esce dal ginocchio, lo sterno fratturato, i denti, quanti denti da frantumare ci stanno dentro una bocca? – disarticolati su una superficie da immaginare la più dura possibile. Meglio sarebbero cubetti di porfido maculati, vengono accostati stretti stretti come fanno i giocatori di basket prima di entrare in campo, e quando si sciolgono lanciano un urlo che non si capisce mai cosa dicono. Quando giocavo a pallacanestro mi inventavo ogni volta parole diverse, cuccuruccucu, ahpperò, ciapalchelghè, bastava pronunciare velocemente e mettere l'accento sull'ultima vocale. Oppure schiantarsi su bitume raffreddato dall'inverno  non gli inverni miti di adesso, ma quelli in cui si contavano i giorni che mancano a Natale. Il sangue, dopo qualche ora dall'impatto, si raggruma, ed è difficile da lavare, ci vogliono detersivi speciali e olio di gomito mal remunerato – guarda che lavori mi tocca fare… pensa la donna ucraina delle pulizie. Non è diverso dal sangue di un gatto malaccorto nel traversare la strada (il proprietario del SUV scende per vedere se la carrozzeria si è ammaccata) o un piccione colpito da un monello con la fionda, bel colpo gli dice l'amico con i capelli rossi e le lentiggini. A terra lo stesso corpo, gli stessi abiti perfino: la felpa color carta da zucchero con la cerniera da sostituire, i jeans diventati troppo larghi per via di un continuo dimagrimento, la t-shirt con la scritta "ricerco un bene / fuori di me / non so chi 'l tiene / non so cos'è"... Massì, sono proprio io, mentre mi affaccio sul balconcino al quarto piano dove vivo da sempre, ma subito dopo mi ritiro scosso da quei capogiri che dicono induca un eccesso di bellezza. È forse per questo che la sposa si aggrappa al braccio che le porge l'orgoglio di un padre: non per le foto ricordo da inserire in una cornice d'argento, ma per rimanere ritta nell'approssimarsi all'altare, evitando di afflosciarsi nella navata dove sostano le bare durante i funerali, mostrando a tutti le mutande. Un destino di obliquità che ho incontrato per la prima volta a otto anni, e giunto senza neppure affanno alla cima, dopo i proverbiali 294 gradini, salutavo la zia con un fazzoletto bianco come avevo visto fare da un giapponese; ricambiava, piccola piccola, da sotto il gesto la moglie, che non era voluta salire sulla Torre. Vai tu deve avergli detto in una lingua tutta spigoli e gargarismi, io devo fare la pipì, ci rivediamo dopo. Intanto la zia mi strillava Allontanati, allontanati!, ma delle sue parole mi arrivava solo lo sbracciarsi con cui le accompagnava, che interpretavo in forma di saluto e continuavo ad agitare il fazzoletto. Si rivolgeva allora allo zio: Franco, tira via il bambino da lì, si sta sporgendo troppo, e poi si copriva gli occhi per non guardare quello che avrebbe potuto accadere dopo. Io ridevo della sua paura delle altezze, che l'aveva fatta rimanere, senza nemmeno la scusa di una pipì, ad aspettarci sul prato di un verde innaturale, chimico, di Piazza dei Miracoli, tra la moglie del giapponese, un uomo grasso in camicia hawaiana che leccava un enorme cono di gelato, tre paracadutisti dal passo sincronizzato come cavalli viennesi e una comitiva di suore, si scambiavano con una specie di inchino una bottiglietta di Oransoda da bere a canna. La zia nel frattempo aveva riaperto gli occhi. Chissà se anche lei, in una sua parte sommersa, desiderava ciò che in superficie al contrario tutti temiamo, alla maniera dei tennisti che fanno doppio fallo arrivati al match point. Tra vincere subito e perdere dopo, non è infrequente la seconda scelta. E comunque se e quando sarà, non mi infilerò un Tampax nel buco del culo come ha fatto Mishima, per evitare la poco marziale fuoriuscita dell'ultimo fiotto di merda.

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