Non ho capito bene cosa abbia detto
o fatto o mostrato di recente Chiara Ferragni, e perché sui social, ancora, se
ne stia battibeccando, ma qualsiasi cosa mi sembra giusta a prescindere. Giusta
come è giusta la taglia di un abito mentre la commessa irrompe nel camerino,
trovandoti in mutande. Oppure la musica, non troppo invadente, da accompagnare
all'happy hour. Il corpo da rivestire è ovviamente quello del nostro tempo, e
noi coloro che pescano un'olivetta sul bancone mentre con l'altra mano
impugnano il mojito d'ordinanza.
Ma facciamo un passo indietro, anzi
una maratona. Correva infatti l'anno 1961 quando Umberto Eco pubblicava Diario
minimo, dove è inclusa la celebre Fenomenologia di Mike Bongiorno.
Il successo del presentatore viene attributo alla più comune delle premesse:
essere un uomo medio, o più propriamente mediocre. Così il filosofo
alessandrino: "Mike Bongiorno
convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore
della mediocrità."
Una trionfante mediocrità che
ritroviamo nel suo modo di vestire, muoversi, parlare e scegliere il taglio dei
capelli, di cui si è discusso a lungo se non fossero invece una parrucca. No,
erano più modestamente capelli parruccati. Quindi sventolare gli
occhiali mentre pronuncia il saluto per cui viene ricordato: ALLEGRIA! Uno
stato d'animo che contraddistingue le persone semplici e i grandi saggi, ma,
con ragionevole convinzione, escludiamo pure la seconda ipotesi. Semplicità
e una mente non propriamente brillante, con cui si possono però fare anche cose
meritevoli, tipo partecipare alla resistenza al nazifascismo. E mi sembra
doveroso ricordarlo anche per questo.
Se generalizziamo il caso di Mike
Bongiorno, potremmo ipotizzare che negli anni successivi al boom economico si
sia passati da un immaginario collettivo fondato sulla dialettica mitica
tra uomini e dèi, al rispecchiamento laico che segue all'epitaffio
nietzschiano sulla morte di Dio, di cui lo slogan del Movimento 5 Stelle è
sintesi sbiadita: uno uguale uno. La servetta trace, che vede Talete cadere nel
pozzo e ne ride, è dunque da considerarsi uguale al grande filosofo, ed
entrambi ad Apollo ed Ermes. Poco importa che questi prendessero le sembianze
di Clark Gable e Vittorio Gassman, i quali giganteggiavano su uno schermo
proverbialmente grande. Ma era per l'appunto prima.
In quel dopo che chiamiamo adesso
abbiamo sempre bisogno di derivati mitici – sulle riviste dei barbieri dobbiamo
pur stampare qualcosa – ma come per l'aurea mediocritas del presentatore
non devono essere abbarbicati sull'Olimpo, per conservare l'illusione di poter
prendere un giorno il loro posto. In altre parole, Chiara Ferragni c'est moi.
Ha solo una chioma più folta e denaro sul conto, a seno mi batte, seppur di poco, e
in quanto ad anni e peli superflui vinco io. Per il resto siamo intercambiabili. Ma
avremmo potuto dire Flavio Briatore è mio fratello, Fabrizio Corona il cugino
scapestrato, la famiglia queer non è quella di Michela Murgia, ma composta dai tronisti di Maria de Filippi o
dai naufraghi dell'Isola dei famosi. Gli esempi non mancano e
ciascuno scelga il proprio, mentre io torno a Chiara Ferragni.
Ferragni, come il marito, è bella
ma non bellissima, intelligente ma non geniale, capace di moltiplicazione di
pani e pesci senza avere appreso nessuna tecnica di pesca: abboccano
spontaneamente all'amo. Se pure possiede un qualche talento naturale non ne
siamo a conoscenza, non è stato fatto fiorire con anni di studio e duro esercizio. Tempo perso. È semplicemente giovane e bionda, come sono giovani e
bionde milioni di ragazze. Mica bionda come lo era Monica Vitti, che, con tutta
la nostra buona volontà, qualsiasi cosa facesse la faceva meglio di noi, riusciva
a sopravanzarci pure nel sonno.
Da lì in poi è stata una progressiva miniaturizzazione degli orizzonti psichici, fino ad arrivare all'attuale scenario lillipuziano: la statura di John Wayne, un metro e novantatré, sul display dello smartphone viene scorciata alla dimensione di un'unghia. Perfino gridare voglio una donna è diventato più agevole, se l'albero su cui arrampicarsi è in formato bonsai (Tinder, Meetic, Badoo, c'è solo l'imbarazzo della scelta). Lo stesso termine influencer possiede una sfumatura di compressa orizzontalità: un principe, un re e appunto una divinità non influenzano nessuno, ma lo sovrastano.
Si tratta forse della riduzione generalizzata dell'aura di cose e persone, Benjamin l’attribuiva alla riproducibilità tecnica; in fondo anche le relazioni su internet sono riproduzioni, scambi tra avatar. Ferragni è solo una statuetta in scala tra infinite altre, solo più esposta. Ma un passaggio in vetrina non viene negato nessuno, e da qui il passo è breve ai famigerati cinque minuti di notorietà che fanno da optional alla condizione di moderni – se non sempre nel reale, almeno nell'immaginario con cui ci affrettiamo a condividere il nostro pensiero su Facebook, certi dell'interesse che susciterà.
Con questo spirito ci affidiamo allo specchio di Grimilde, è anch'esso diminuito di proporzioni, uno specchietto per le ciglia, che continuiamo a interrogare speranzosi: Specchio specchio delle mie brame, qual è l'argomento del giorno su cui scornarsi nel social-reame...? La risposta, amico mio, soffia nel vento. Quando i sette nani stanno già tutti nella domanda.
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