mercoledì 24 maggio 2023

Queer sì o queer no?


È curioso che a nessuno sia ancora venuto in mente di rintracciare le premesse della famiglia queer, di cui parla Michela Murgia dichiarando di farne parte, nel Giardino degli epicurei, che in esso si ritrovavano in comunità aperte e solidali; diversamente da quelle monastiche erano comprensive di entrambi i sessi, oltre che molto meno rigide e bacchettone.

Lasciando provvisoriamente perdere l’aggettivo anglofono – lo trovo anche un po’ fuori luogo: l’eccentricità, la bizzarria a cui si riferisce non sono caratteristiche intrinseche di tali legami – mi sembra interessante concentrarsi sul sostantivo famiglia, non certo per difenderlo da presunti agguati al modello patriarcale. Al contrario, quel modello fa schifo. Già Gesù ammoniva: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Luca 14-26).

Ma a ben vedere, anche Gesù ci propone un modello di famiglia queer ante litteram, composto da dodici persone, più sé stesso, che girano per la Palestina condividendo pani, pesci, giorni e notti. Pure molto vino, non essendo ancora informati da Antonella Viola della sua nocività. Per il sesso non sappiamo, su ciò i vangeli sono omertosi. In ogni caso: prima sciogliere e poi coagulare, come recita la famosa formula alchemica.

Provando dunque a mettermi nei panni di un bambino che appartiene a una famiglia queer: chi devo odiare, come posso identificare Laio per ucciderlo, quanto tutto è così confuso e indifferenziato, o perlomeno è quanto ho inteso dalle parole di Murgia? Non ruoli fissi ratificati da una struttura sociale a cui rimandano (il papà, la mamma, il nonno e lo zio strambo che si arrampica su un albero, da cui gridare voglio una donna!), ma funzioni relazionali plurime, mobili come mattoncini di Lego. Che così a pelle mi piace molto di più, per quel gusto che avevo fin da ragazzo di scambiarci le felpe tra amici.

Oppure si può diventare ciò che si è senza odiare nessuno, aggiungendo un posto a tavola, questa sì che sarebbe una notizia, lo dico senza ironia. Davvero la famiglia queer potrebbe rivelarsi una soluzione pedagogica. L’esempio evangelico mi porta però a sospettare che il tempo della scelta – di coppie più o meno aperte, percorsi duali o collettivi – e quello della crescita siano momenti separati. Non dico, attenzione, che un bambino abbia diritto a una madre e a un padre, con preciso e distinto genere sessuale. Ma mi chiedo se quello della famiglia queer non sia un sogno adulto, che potrebbe rivelarsi un incubo infantile.

Questa è per l'appunto solo un'interrogazione: non è certo, non lo so io e immagino nessun altro. Sarebbero così interessanti degli studi in materia, approfondimenti cognitivi, ulteriori distinzioni tra queer e queer, che mi sembra il vero punto. Ad esempio, sia quella di Charles Manson sia quella di Mowgli, nel Libro della Giungla, erano famiglie queer, con esiti ben diversi. O per dirla con Dino Risi “il razzismo finirà quando si potrà dare dello stronzo a un negro” (lui pronunciava proprio negro, non nero, e le citazioni non si correggono, a costo di essere sanzionati dal web).

Mentre noi abbiamo la tendenza a entusiasmarci per le parole straniere, specie se ammantate da un’aura di esotismo libertario. Non è dunque una critica alla famiglia queer di Michela Murgia, che, per quel poco che intuisco della persona, sarà certamente virtuosa, ma al modo spensierato con cui accogliamo ogni novità. Novità? Ma se, come abbiamo visto, è pratica vecchia di più di duemila anni.

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