È curioso che a nessuno sia ancora venuto in mente di
rintracciare le premesse della famiglia queer, di cui parla Michela Murgia
dichiarando di farne parte, nel Giardino degli epicurei, che in esso si
ritrovavano in comunità aperte e solidali; diversamente da quelle monastiche erano
comprensive di entrambi i sessi, oltre che molto meno rigide e bacchettone.
Lasciando provvisoriamente perdere l’aggettivo
anglofono – lo trovo anche un po’ fuori luogo: l’eccentricità, la bizzarria a
cui si riferisce non sono caratteristiche intrinseche di tali legami – mi
sembra interessante concentrarsi sul sostantivo famiglia, non certo per
difenderlo da presunti agguati al modello patriarcale. Al contrario, quel
modello fa schifo. Già Gesù ammoniva: “Se uno viene a me e non odia suo padre,
sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria
vita, non può essere mio discepolo” (Luca 14-26).
Ma a ben vedere, anche Gesù ci propone un modello di
famiglia queer ante litteram, composto da dodici persone, più sé stesso, che
girano per la Palestina condividendo pani, pesci, giorni e notti. Pure molto
vino, non essendo ancora informati da Antonella Viola della sua nocività. Per
il sesso non sappiamo, su ciò i vangeli sono omertosi. In ogni caso: prima
sciogliere e poi coagulare, come recita la famosa formula alchemica.
Provando dunque a mettermi nei panni di un bambino che
appartiene a una famiglia queer: chi devo odiare, come posso identificare Laio
per ucciderlo, quanto tutto è così confuso e indifferenziato, o perlomeno è
quanto ho inteso dalle parole di Murgia? Non ruoli fissi ratificati da una
struttura sociale a cui rimandano (il papà, la mamma, il nonno e lo zio strambo
che si arrampica su un albero, da cui gridare voglio una donna!), ma funzioni
relazionali plurime, mobili come mattoncini di Lego. Che così a pelle mi piace
molto di più, per quel gusto che avevo fin da ragazzo di scambiarci le felpe
tra amici.
Oppure si può diventare ciò che si è senza odiare
nessuno, aggiungendo un posto a tavola, questa sì che sarebbe una notizia, lo dico
senza ironia. Davvero la famiglia queer potrebbe rivelarsi una soluzione
pedagogica. L’esempio evangelico mi porta però a sospettare che il tempo della
scelta – di coppie più o meno aperte, percorsi duali o collettivi – e quello
della crescita siano momenti separati. Non dico, attenzione, che un bambino
abbia diritto a una madre e a un padre, con preciso e distinto genere sessuale.
Ma mi chiedo se quello della famiglia queer non sia un sogno adulto, che
potrebbe rivelarsi un incubo infantile.
Questa è per l'appunto solo un'interrogazione: non è
certo, non lo so io e immagino nessun altro. Sarebbero così interessanti degli
studi in materia, approfondimenti cognitivi, ulteriori distinzioni tra queer e
queer, che mi sembra il vero punto. Ad esempio, sia quella di Charles Manson sia
quella di Mowgli, nel Libro della Giungla, erano famiglie queer, con
esiti ben diversi. O per dirla con Dino Risi “il razzismo finirà quando si
potrà dare dello stronzo a un negro” (lui pronunciava proprio negro, non
nero, e le citazioni non si correggono, a costo di essere sanzionati dal web).
Mentre noi abbiamo la tendenza a entusiasmarci per le
parole straniere, specie se ammantate da un’aura di esotismo libertario. Non è
dunque una critica alla famiglia queer di Michela Murgia, che, per quel poco
che intuisco della persona, sarà certamente virtuosa, ma al modo spensierato
con cui accogliamo ogni novità. Novità? Ma se, come abbiamo visto, è pratica
vecchia di più di duemila anni.
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