"Le parole sono importanti" strillava un giocatore di pallanuoto alla giornalista che lo stava intervistando a bordo vasca. La scena sta in un film, è diventata talmente famosa che non occorre specificare il titolo. Le parole funzionano allo stesso modo. Prima scappano dalla bocca di un tale, qualcuno le sente e pensa: Chissà cosa vuole dire...? Così le ripete per comprendere, ma intanto si diffondono (si fa sempre la propria porca figura a pronunciare vocaboli inusuali) fino a diventare automatismi di massa.
Pensiamo al termine empatia. Alla fine della partita tra Manchester City e Real Madrid, la commentatrice bionda dice che Guardiola, allenatore della squadra inglese, durante il gioco ha trasmesso empatia ai propri giocatori e al pubblico sugli spalti. "Chi parla male pensa male e vive male", continuava il dialogo nel film. Più spesso però non pensa affatto, ricalca suoni e figure per guadagnare un pixel nel selfie: ecco, mi vedi, sono quello lì! Possiamo dunque assolvere la graziosa commentatrice.
Dire empatia al posto di simpatia, compassione, amore, pietà non è però lo stesso. L'etimologia in questo caso non soccorre, la sua radice greca (en-pathos) rimanda a una sofferenza interiore. In seguito l'espressione ha finito con l'indicare la disposizione raccomandata ai terapeuti: cerca di sentire cosa prova il paziente – il suo patire interno, appunto – senza però condividerlo per non esserne travolto, altrimenti non riusciresti ad arrivare a fine giornata.
In un bell'intervento su Facebook, lo scrittore Raul Montanari suggerisce che la diffusione del termine non è innocente, ma come quasi sempre accade fotografa un mutamento della società: siamo parlati dalle parole, siamo empatici ma, in quell’interiorità bel lungi dall'essere appaltata alla sofferenza dell’altro, come uno psicoanalista già pensiamo al prossimo cliente, o alle fialette antipulci da acquistare per il cane che ieri sera si grattava. Sentire ma non condividere, questo l'implicito su larga scala.
Ha proprio ragione Raul, ho pensato al termine della lettura. E mi è venuto in mente un esempio concreto. La mia ex fidanzata, un rapporto anche quello scivolato dall'amore all'empatia, ha smesso da qualche anno di pagare le rate del mutuo. Non guadagna abbastanza, semplicemente. Si è dunque avviata l'esecuzione giudiziaria, una formula burocratica per dire: portiamole via la casa così rientriamo del prestito. Il resto sono cazzi suoi, si arrangi.
Che è quanto lei ha fatto, si è arrangiata, ma un attimo prima del fatidico marciapiedi, sui cui stava per finire. Ha quindi trovato una ventina di persone che, chi pochi spiccioli chi diecimila euro, le hanno prestato il denaro per trattare la procedura di saldo e stralcio con la banca, l'ho gestita io per suo conto. Ma arrivati al punto – pare sia necessario per la legge antiriciclaggio – in cui andava specificata la provenienza del denaro, quelli della banca non capivano: Come i soldi glieli hanno dati i suoi amici...? Si spieghi meglio, non ci è mai capitata una cosa del genere.
Questa forma di solidarietà, di simpatia autentica, diciamo pure affetto tra persone non legate da vincoli formali, era per loro inaudita, non rientra nell'esperienza contemporanea in cui il denaro produce altro denaro. Il resto è fatica e lavoro in nome proprio.
Eppure ai tempi anche solo di mio nonno le cose andavano in modo diverso. Quando le prime foglie cominciavano a cadere e gli acini d'uva diventavano belli grossi, si organizzava la vendemmia. Tutta la contrada veniva mobilitata, un giorno si andava tra i filari di uno, il giorno successivo ci si spostava da un altro senza venire compensati, se non attraverso questa forma spontanea di do ut des. E se non possedevi una vigna? Non importa, uguale.
Come quando uno partiva per l'Australia. Si organizzava una colletta con cui racimolare il denaro necessario al biglietto per il vapore, che i suoi magri risparmi non erano sufficienti a ricoprire – altrimenti cosa andava in Australia a fare? E prima dell'imbarco un abbraccio forte e qualche salame da infilargli in tasca: Ciao, mandaci una cartolina con un canguro, ammesso che già esistessero le cartoline. I canguri penso proprio di sì.
Dopo molti anni ritornava vestito da signore e con uno strano accento, il portafogli gonfio; ma prima di sera si sarebbe assottigliato, banconote mai viste fuoriuscivano per ripagare i debiti. Oppure non tornava, si diradavano le lettere scritte da qualcun altro più avvezzo, nemmeno un canguro in cartolina, chissà che fine ha fatto... C'est la vie, che tradotto nel dialetto valtellinese diventava: l'è andada inscì.
Ora tutti sono empatici con tutti, addirittura con uno stadio intero, come fa Guardiola, ma guai a farsi carico delle pene altrui, prima viene la compensazione sul libro mastro tra dare e avere. D'altronde anche il terapeuta va pagato a fine seduta, per ottenere quell'espressione assorta e comprensiva alla Lupo de Lupis: un lupo, sì, ma pure tanto buonino.
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