mercoledì 31 agosto 2022

Una Prinz color crema, o sul linguaggio inclusivo


Quando frequentavo gli ultimi anni delle scuole elementari e i primi delle medie ci si passava le suore. Per farlo bastava pronunciare la parola fatidica tua, accompagnandone il suono con un leggero tocco della mano, posata sul corpo dell'amico a cui era indirizzata la transizione.

Tua, già. Un aggettivo possessivo che, ovviamente, non si riferiva alla suora in sé, ma alla sventura che si immaginava accompagnata all'apparire improvviso del suo abito inconfondibile, come avviene con i gatti neri quando ci attraversano la strada. Pensiero magico insomma, e per mezzo della magia di quella formula, tua, si ripristinava la buona sorte.

Più tardi si iniziò a farlo anche con gli omosessuali, o, meglio, con le persone che si vociferava ne avessero inclinazione; in provincia il pettegolezzo è un sale con cui si condiscono giornate sciape, e ci sembrava un gioco simpatico, uno scherzo privo di conseguenze. Era fondato sull'analogia: una cosa vista, per scarto analogico, può trasferirsi a noi. Contaminarci.

Da qui il passo è breve a individuare dei cosiddetti oggetti magici. Se ad esempio un omosessuale o, di nuovo, presunto tale, possiede una certa autovettura, quella può finire col rappresentare il possessore, la linguistica chiama tale ribaltamento metonimia.

Un caso teorico che divenne ben presto reale. Un uomo alto con la barba, non aveva amici e fu più volte visto fare il bagno al fiume completamente nudo e rivolgere la parola ai ragazzini, possedeva una Prinz; automobile economica prodotta dalla NSU e allora piuttosto diffusa, l'aveva anche mio padre. Così presto fatto il nuovo gioco: alla vista di una Prinz si prese a dire tua, come si faceva con le suore e con gli omosessuali. Prinz uguale omosessualità, in altre parole.

E però come la mettiamo col fatto che per andare a trovare i nonni a Busteggia dovevo salire anche io su una Prinz? Se mio padre aveva una Prinz e le colpe dei padri ricadono sui figli per sette generazioni, cavolo, ero fregato, ero colpevole, impuro. L'intero spettro della prinzità, per dirla con Aristotele, finiva col decretare una sorta di ostracismo sociale. E io facevo parte della deiezione.

Fu in quell'esatto momento che realizzai che gli omosessuali – e anche le povere suore – sono persone come me, a cui forse non fa piacere essere "passati". E cominciai a trovare cretino quel modo scanzonato di ingannare il tempo: Tua... Ma che cazzo dici?

Ripenso all'episodio in rapporto all’attuale e diffusa discussione sui generi. Tra cui quello delle desinenze del linguaggio, con uno slancio inclusivo a cancellare ogni differenza, o per contro glorificare il particolare a scapito dell'universale; il passato prossimo del pensiero femminista della differenza si oppone a una nuova cultura dell’indifferenziato.

C'è molta filosofia in tutto ciò, nello specifico il retaggio del decostruzionismo della scuola francese, ha perfettamente ragione Walter Siti che ha scritto un bell'articolo sull'argomento. Parte da lontano, dalla Francia, Parigi, la Sorbonne, l'attuale suscettibilità di alcune minoranze; in particolare quelle che si rifanno alla composita galassia che passa sotto un acronimo che acquista ogni giorno nuovi vagoni alfabetici: da gay a LGBT a LGBTQIA+ e così via.

Ma la filosofia ha finito col rendere tutto più confuso e astratto, non sta aiutando, come dovrebbe, a mettere ordine tra parole mondo. E se provassimo allora ad affidarci nuovamente al pensiero magico?

Intendo. Ci sarà pure qualcosa che somigli alla Prinz, ma su scala più ampia. Ad esempio il respiro. Un gay, una lesbica, un transgender ma anche un bassotto o una giraffa, sono creature viventi che respirano. L’empatia nei loro confronti – ammesso che vi sia, ma credo che sia opinione diffusa che senza empatia non può esserci neppure democrazia – si fonderà così su quel respiro. Siamo tutti uguali nell'atto di inspirare ed espirare.

Dunque attenzione a passarceli quando vediamo una chiassosa e variopinta baraonda di respiranti al Gay Pride. Qualche venusiano, privo di polmoni, potrebbe infatti fare un giorno lo stesso con noi: Abitante del pianeta Terra, tuo!

Ma se tanti respiri fanno un vento, ce ne sono altri che soffiano in direzione opposta: allontanandoci, differenziandoci. Ad esempio non tutte le Prinz erano color crema come l'auto di mio padre (quella dell'uomo nudo al fiume era grigia) e non vedo perché io debba cancellare questa sfumatura cromatica dalle parole che pronuncio, secondo una malintesa idea di inclusione. Non c'è nulla di offensivo nel preferire le auto color crema a quelle grigie, basta non sputare sopra ogni auto grigia a cui passiamo accanto.

Io, ad esempio, stravedo per le ragazze con un abitino di cotone a fiori, e non per gli uomini vestiti come Damiano dei Maneskin, con i pantaloni di pelle con due fori per le chiappe. Che a me fanno pure un po' ridere quei pantaloni lì, ma va benissimo che Damiano li indossi e ci siano persone che emettono gridolini di piacere alla vista dei suoi glutei. A me manco piacciono le canzoni che canta, preferisco di gran lunga Sergio Endrigo, e dire che i Maneskin mi fanno schifo trovo sia un diritto sacrosanto.

Tutto ciò che possiamo chiedere a un linguaggio realmente democratico è dunque questo: includere ciò che è davvero comune, come il respiro, e separare ciò che per esperienza (esperienza non natura, che è un concetto manipolabile e sfuggente) appare separato.

Una riflessione seria e profonda sulle forme dell'unità, che per un apparente paradosso sono plurime, rende difficile scagliarsi su ciò che divide, separa come giusto i diversi. È il principio della dialettica, dell'identità come relazione; prima ancora che dal pensiero moderno lo ricaviamo dal simbolo del Tao, dove un puntino di bianco sopravvive nell'ampia porzione di nero, e viceversa. Quel puntino è il respiro. Che non cancella però il fatto che il bianco è bianco, e il nero è nero.

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