Una quindicina di anni fa mi trovavo in un ristornate di Rio Marina,
all'Isola d'Elba. Pochi tavoli più in là sedeva Paolo Villaggio. Terminata la
cena, Villaggio che era già vecchio e con evidenti difficoltà nel camminare –
veniva sorretto da una ragazzona bionda e riccioluta, immagino fosse la figlia
– passò accanto al nostro tavolo. Fu raggiunto da una donna mingherlina con un
pareo variopinto, che con voce acuta gli strillò: "Un autografo, mi faccia
un autografo signor Fantozzi!"
Ero talmente vicino a lui che ho potuto osservare i minimi mutamenti sul
suo volto, a comunicare disappunto e irritazione e stanchezza; tutto desiderava
in quel momento (ad esempio sdraiarsi per riposare) tranne che fare un
autografo a chi lo confondeva con il suo celebre personaggio. Ha però subito
cambiato espressione con un impulso della volontà, rispondendo alla donna:
"Con immenso piacere!"
Non solo sì, non solo con piacere, ma con IMMENSO piacere. Un aggettivo che
restituisce una colossale bugia, e però come si dice "a fin di bene”. Mi
capita di ripensare all’episodio quando entro in un social. Non so perché, ma
ci ripenso. Con una nostalgia che non riguarda solo i meravigliosi calamari che
lì ho mangiato.
Tre giorni fa ho letto un post di una scrittrice abbastanza conosciuta, forse non famosa ma con un suo seguito meritato. Scriveva di un argomento
che mi interessava e ho lasciato un commento (il tono non era offensivo, oserei direi
pertinente), dando una scorsa anche a quelli degli altri lettori. Mi sono
così accorto di una cosa: la scrittrice rispondeva solo alle persone di pari
status, e cioè altri scrittori – evidentemente considera una professione di
prestigio essere scrittori, opinione bizzarra guardando le statistiche di
lettura, ma tant'è – oppure a coloro che erano inclusi in una cerchia di prono
consenso e complicità, a cui Fulvio Abbate ha dato il nome di
"amichettismo". Io non ne faccio parte e non ho ricevuto risposta o
altri segni di attenzione. Che so un like, o un dislike.
Non scrivo di questo fatto per recriminazione personale, e continuo a
considerarla una brava scrittrice. C'è però un aspetto che mi appare
emblematico nel suo comportamento, ossia di carattere universale. La giro sotto
forma di domanda: c’è ancora qualcuno che, con fatica, stando in piedi a
stento, sui social si fermi e dica a uno sconosciuto con immenso piacere,
come uno sfinito Paolo Villaggio in un ristorante di Rio Marina?
Una semplice forma di degnazione, d'accordo, ma anche di riconoscimento.
Nello specifico, ciò che viene riconosciuta è la domanda implicita nelle parole
dell'altro, a cui sentirsi vincolati da un sorta di dovere civile: rispondere.
Risposta che in un certo senso è già ricompresa nella domanda, per quanto in
stato potenziale come il campo quantistico descritto dai fisici. Non importa se
sarà sì, no, forse, ma nello spettro della domanda già sonnecchiando tutte le
infinite possibili risposte. Anche vaffanculo no, non ti faccio l'autografo!
Il filosofo Giorgio Agamben chiama tale vincolo giuramento. In un tempo senza tempo, senza luogo e senza neppure
bisogno di aprire bocca, per fare parte di una comunità bisognava pronunciare
le seguenti parole: giuro di rispondere, di mantenere viva la fiaccola della conversazione che mi viene passata, aggiungendo la mia fiammella. Guai a fare spegnere quel fuoco! È l'equivalente sul piano linguistico del famigerato patto sociale.
Ma in fondo il dizionario della lingua italiana già comprende una parola
che lo dice in modo più semplice, i filosofi hanno questo vezzo di parlare
difficile. La parola è responsabilità. Letteralmente, sento che una mia
risposta sia dovuta, non importa la forma, basta un gesto, o l’autografo che è
la traccia verbale del nome. Quello a cui si risponde quando la maestra fa
l’appello. Un suono che procurava un brivido familiare nella schiena, a distogliere lo sguardo dalle ciliegie alla lettera C dell'abbecedario.
Una responsabilità, un giuramento, è rimasto in tacito vigore fino a pochi
decenni fa, quando il web è subentrato a sparigliare i giochi. Dunque nessuna
accusa, e per quanto Flaubert non abbia mai pronunciato la celebre frase, tocca ribadire che Madame
Bovary c’est moi, anche io faccio di tanto in tanto orecchie da mercante. Ho
cominciato come tutti da internet, ma poi la mia irresponsabilità si è estesa a ogni ambito. Per dirla con le parole di Giorgio Gaber: "non
mi interessa Berlusconi in sé, ma il Berlusconi in me", ossia la scrittrice con
la puzza sotto il naso in cui mi trasformo di giorno in giorno. Mi interessa la mutazione in corso. Che i
social, oltre a generare, riflettono come lo specchio di Grimilde: chi è il più
stronzo del reame? Ma tu, mio caro.
Citazioni da cui ricavo che chiunque, non solo gli scrittori con la loro
coorte di amichetti, fa benissimo a considerare la parola di uno sconosciuto al
pari di una mosca posata sul proprio tavolo; nemmeno serve muovere una mano
perché voli via, è come se non fosse mai esistita. Sono io che, di tanto
in tanto, mi chiedo se abbia ancora voglia di partecipare a un discorso
collettivo la cui pronuncia somiglia al ronzare delle mosche, con qualche
moscone a cui prostrarsi ossequiosi.
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