martedì 23 agosto 2022

Un abitino di cotone a fiori, o sul perché, in letteratura, il meglio è nemico del bene


Ho sempre pensato che se fai qualcosa è preferibile farla bene. Non benissimo, semplicemente bene. Credo di essere stato influenzato nella mia convinzione da un proverbio: il meglio è nemico del bene. Lo ripeteva mia nonna ai suoi nipoti, io ero il secondo per età e per statura. Primo mai, sempre secondo. Fedele all’adagio di nonna Celeste.

Mia nonna conosceva numerosi proverbi. Alcuni erano in dialetto milanese, come can magher se taca' i muschi, al cane magro si attaccano le mosche, oppure ofelè fa' el to mesté, anche se non ricordo mai se il mestiere che deve fare l'ofelè sia ol pasticciere oppure il calzolaio. Purtroppo, di molti altri proverbi, mi sono scordato. Non di quello, che vuole il meglio subordinato al bene.

Nel tempo ho cominciato a dubitare che sia adatto a ogni circostanza. La matematica, ad esempio. O gli scacchi, gli sport in generale, e in particolare il pugilato. Se sei un pugile che se la cava benino ma salì sul ring con uno migliore di te, vai giù. Come quando, nei film di Sergio Leone, l'uomo con il fucile incontra l'uomo con la pistola – e l'uomo con la pistola è morto. Lo dice Clint Eastwood a mezza bocca, nell'altra metà pende il sigaro spento. Poi per tre quarti d’ora non dice più nulla.

Ci sono però attività in cui proverbio di mia nonna calza a pennello. La letteratura, per dirne una. Diffido dei miglioristi in letteratura. L’idea che tutto si risolva in uno stile che deve ogni volta superare sé stesso, lo fa per il tramite della lingua, è sempre una questione di lingua ti dicono le persone che hanno fatto del meglio letterario il loro credo. Preferibile non ribattere, solo annuire con postura di gravità (se proprio, potete canticchiare a mente il refrain di una canzone di Drupi, per fagli dispetto) perché quelle persone hanno letto tutti i libri. Come Mallarmè – “j'ai lu tous les livres” – che però aggiungeva: “La chair est triste, helas.”

Al contrario i benisti sono perlopiù gente allegra, vitale. Ma non sciocca. Sanno che la letteratura non può limitarsi a riflettere la vita in modo neutrale, serve un poco di artificio che la vita per definizione non possiede. Pensiamo ai dialoghi. Se provassimo a registrare di nascosto una conversazione comune, quindi a trascriverla e a confrontarla, mettiamo, con un dialogo di Hemingway, sarebbe il secondo ad apparire più realistico. Può sembrare un paradosso, ma un eccesso di realtà possiede qualcosa di falso, stonato. Credo dipenda dal fatto che la nostra mente, per orientarsi, ha bisogno di riconoscere degli schemi. Chiamiamo dunque e provvisoriamente bene questa correzione che viene impressa alla vita per potere essere interpretata e quindi agita. Un’interpret-azione che avviene facendo risaltare le sue strutture profonde, architravi che un demiurgo distratto ha lasciato incompiute. E allora rimbocchiamoci le maniche e subentriamo nel lavoro, come suggerisce lo psichiatra e filosofo austriaco Viktor Frankl, reduce dai campi di sterminio nazisti e fondatore della logoterapia.

Io non ho letto tutti i libri come Mallarmé, ma qualcuno sì. Diversamente, ciò che sto provando a dire, con molti dubbi e incertezze, finirebbe con l’essere un discorso populista, in cui si presume che il bene sia una specie di telecomando, sempre a portata di mano sul bracciolo della poltrona. Nessuno sforzo, studio, lettura. Quelle sono attività da professorini. Basta sentire qualcosa e poi pronunciarla con il cuore, va' dove ti porta il cuore, dai, va', sei ancora qui? È quanto viene fatto sui social network, in cui trionfa la facilità sentimentale dell’opinione. Che si colloca al lato opposto del meglio, i due estremi di un ideale pendolo, ma è ugualmente nemica del bene.

Tra i libri che ho letto ci sono quelli dello scrittore svizzero Peter Bichsel. Si tratta perlopiù di racconti brevi, a volte quasi stenografici, una pagina o due. Sono scritti bene e però non benissimo, non meglio; ed è comunque più che sufficiente per raccontare in forma sintetica e un po' stralunata il bene. Quello che prova, ad esempio, una donna vecchia per una coetanea, da bambine andavano a scuola assieme. Quando passa di fronte al suo palazzo le lascia delle foglie di lattuga nella cassetta delle lettere, le ha appena colte nell'orto. Non sale perché fatica a fare le scale. Trovando la lattuga, pensa, l’amica si ricorderà di lei, come chi riceva una cartolina dall'altro capo del mondo. Una storia piccola piccola, chissà perché mi commuovo sempre quando ne parlo... E poi nelle cassette delle lettere io non vedo mai foglie di lattuga. Forse anche Bichsel ha corretto un poco la vita, ha illuminato le possibilità del bene, o ancora meglio l’ha rivelato, che è ancora una volta un'azione con ricadute concrete. Quelle possibilità, leggendo il racconto, io avverto infatti come reali, e così credo alle sue parole.

La misura umile ma non modesta del bene, fare le cose bene prima ancora che volere astrattamente bene a qualcuno, impegnarsi in ciò che si fa, a me appare più interessante di un sistema letterario rivolto su sé stesso come la risacca di un’onda, un meglio-mondo che parte dalle parole da cui è composto per ritornarci senza curarsi della vita – di più: sostituendosi a essa attraverso la perfezione della forma. Lo so che ci sono grandi scrittori che hanno perseguito questa titanica utopia verbale. Un solo nome, anzi, sei: Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo. Ma i più lo chiamavano soltanto Borges.

Nel meglio, in altre parole, è implicita un’idea laica di trascendenza, andare oltre il proprio limite (katà métron, secondo misura, dicevano i greci), che è anche quello del mezzo che si sta utilizzando. Ma ci sono appunto campi in cui questo sforzo è sconveniente. Pensiamo a una bella ragazza che esce di casa in una giornata di primavera, è vestita bene: un abitino di cotone blu cobalto con piccoli fiori chiari, i capelli sono raccolti, le scarpe basse. È vestita bene ma potremmo certamente fare di meglio. L’abito di seta, invece che di cotone. Naturalmente firmato: Armani, oppure Dolce & Gabbana, Rei Kawakubo, Gianni Versace o chi vi pare. Quindi facciamole indossare gioielli costosi e così via, fino a che quel semplice bene venga convertito in qualcos’altro, qualcosa che non c’entra più nulla con l'immagine da cui siamo partiti. Ecco, il miglioramento della ragazza a primavera a me non interessa. Lo trovo brutto. E penso che uno scrittore dovrebbe cercare di evitarlo.

Mentre scrivevo della ragazza che indossa un abitino blu cobalto con piccoli fiori chiari, mi è venuta in mente un'altra cosa. Se la scrivevo all'inizio forse era meglio, ma, ormai credo si sia capito, il meglio mi procura diffidenza e va bene pure adesso. Mi è venuto in mente l'amore. Come fai ad amare meglio una persona? Forse con performance sessuali da film porno, di quelle che i maschi, in genere mentendo, raccontano al bar. Può darsi. Io però non la vorrei una donna con tali abilità, che pratica la fellatio appesa a testa in giù al lampadario mentre risponde ai messaggi su WhatsApp. Mi basterebbe una donna che mi vuole bene, e a cui io voglio bene.

Tutti gli errori, gli inciampi, le imperfezioni che ci starebbero nel nostro sentimento reciproco non avrei timore che togliessero qualcosa, e anzi forse l'aggiungerebbero. A patto che non si traducano in sciatteria, che è nemica del bene al pari del meglio. E questo perché tra due persone e l'amore ci deve essere la vita, tanta vita ma secondo misura. Katà métron, di nuovo.

Diversamente, il sentimento si perverte in noia, oppure in ossessione. Quindi, tra un bacio e l'altro, si dischiude lo spazio per abitini di cotone con piccoli fiori chiari, partite a bocce, zucchero filato, attesa che il pesce abbocchi, 3x2 all'Esselunga, vernissage con aperitivo incluso, sedute dal dentista, collari anti zecche per il cane ecc. La letteratura, come abbiamo visto, non può essere uno specchio fedele a tutto ciò, e piuttosto una sonda che ne perlustra le scaturigini facendo selezione. La parola che ti abbaglia per splendore sintattico, virgole rutilanti, punti e virgola come bengala in una notte senza luna, mi ricorda invece proprio l'ossessione, nella forma di quei tizi che percorrevano l'intera via Mazzini impennando con la Vespa. Io a sedici anni ci ho anche provato, ma non rimpiango di non esserci riuscito.

È insomma la banalità del bene, quanto quella del male, che può restituire una letteratura disinteressata all’autotrascendenza ossessiva; sempre che riesca a mantenere viva l'attenzione nel lettore. Poco? Tanto? Non lo so. Robert Louis Stevenson lo diceva facile: la letteratura serve a comprendere le lezioni della vita. Lezioni che, senza letteratura, cinema, teatro, fumetti, serie TV, possiedono tempi morti e digressioni inutili, chiassose distrazioni. Così alla fine uno ci non capisce più nulla. Mentre un altro scrittore, Raul Montanari, suggerisce la misura del bene narrativo attraverso un paragone icastico: la letteratura somiglia al tennis, non al sollevamento pesi.

Poi se continua a interessarti il meglio, c'è sempre la matematica, gli scacchi, il pugilato e i film di Sergio Leone. Oppure, meglio ancora, potresti fare il critico letterario. E spiegare agli scrittori troppo ambiziosi perché un abitino a fiori a primavera è meglio di tutti i cappellini della regina Elisabetta.

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