giovedì 11 agosto 2022

Amichettismo, o sul cortile dei social

Il cortile, al principio, fu qualcosa a cui guardare. Guardare e non toccare, come viene scritto nei musei. Solo dopo viene l’esplorazione, devono averlo pensato anche gli ingegneri spaziali della Nasa, prima di spedire l'Apollo 11 sulla luna. Era il 21 luglio del 1969 e solo lo zio Franco e il papà erano rimasti svegli a osservare quel piccolo passo per un uomo, quel grande passo per l’umanità. Io dormivo già da un pezzo in un letto della pensione Aurora di Rimini.

Ci correvano, in un cortile lungo e stretto racchiuso da contrafforti in cemento, come era anche il suolo, bambini che mi sembravano ometti: quattro, cinque anni più dei miei che stavano sulle dita di una mano. I più piccoli dei grandi già andavano a scuola, io ancora all’asilo. Non ero pronto. Potevo solamente invidiarli incollato alla finestra della cameretta dove giocavo a Lego con Pierantonio.

Fu con i più vicini di età, quando i miei genitori mi consentirono di scendere per la prima volta da solo, che cominciai a stabilire contatti, a cui seguirono quelli con miniature umane che sbocciavano in cortile senza alcun preavviso. Anche loro con la mia stessa cautela arrivavano per singole epifanie; uno aveva i capelli rossi e le lentiggini, un altro le ginocchia sbucciate e la zeppola. Il giorno prima non c'erano ed eccoli apparire all’improvviso dal nulla. Ci sarebbero rimasti per un bel po' di tempo, fino quando si abbandonava il cortile, all'inizio delle superiori, per esplorare porzioni più ampie di una città comunque minuscola.

Per quanti segni di pace e posture di sottomissione che ciascuno era tenuto ad assumere per essere accettato, non mancava lo scotto da pagare ai bulli; ai bulletti, meglio. Ricordo un tizio di nome Andrea. Eravamo alti uguali ma l'ombra di baffi incipienti marcava la distanza tra noi, un vero campione nelle impennate con la bicicletta di tipo Graziella. Di tanto in tanto afferrava me o un altro dei piccoli e ci faceva un buffetto sulla guancia. In teoria avrebbe dovuto essere un gesto affettuoso, ma lui stringeva forte, sempre più forte, ahi mi fai male! A quel comportamento, già di per sé aggressivo, accompagnava le parole: "Te pias la Coca Cola, eh? E la Fanta e la gassosa?"

Tutti ridevano e, con una domanda apparentemente priva di senso, otteneva la riconferma del suo status di cucciolo alfa, mentre alla vittima di turno scendeva qualche lacrima, subito occultata con la manica della felpa. Altre volte le gerarchie venivano ribaltate con reciproca sorpresa. Un ragazzino lungo lungo mi sferrò senza ragione né preavviso un pugno in faccia; credo volesse fare colpo su una bambina di nome Adele, piaceva un po' a tutti. In quel caso reagii. Replicando le mosse che avevo appreso seguendo gli incontri di Muhammad Ali – non ho ancora capito come facessi a cogliere i singoli gesti del suo corpo flessuoso, riprodotti da un minuscolo televisore in bianco e nero che impiegava cinque minuti per accendersi – la vittoria fu mia. Anche se Adele poi si prese amorevolmente cura dei numerosi lividi che avevo procurato al lungagnone, secondo quel principio universale per cui Ettore possiede più fascino di Achille.

Ci furono molti altri episodi simili, ma diluiti nel tempo e tutto sommato sporadici. Dopo gli scontri prevalevano lunghi armistizi, i nuovi equilibri di forze dirottavano l’esubero di energia verso partitelle a calcetto, tornei di biglie o con i tappi a corona delle bottigliette di Coca Cola ("te pias la Coca Cola, eh..." ancora mi risuona odiosa la frase), da sospingere con un colpetto delle dita entro i confini di una pista tracciata con la vernice rossa. Infine una specie di prova iniziatica, trasformata presto in baraonda a metà tra il rugby e la caccia al tesoro, da eseguire nel corsello che conduce ai box interrati; l’avevamo chiamata palla buio perché la palla veniva calciata all’interno senza accendere le luci. Quindi, muovendosi a tentoni, andava ritrovata e riportata in superficie, ci si divideva in due squadre e valeva tutto. Anche mordersi come faceva un mingherlino che non ne combinava una giusta. Di cognome, ironia della sorte, faceva Lapsus.

Dalle tenebre dei garage qualcuno usciva vincente, altri sconfitti, ma c'era sempre una seconda occasione. Prima o poi eri tu a scovare la palla, e con l'aiuto di alleati e sfuggendo gli agguati dei nemici, venivi infine baciato dai raggi del sole e dalle labbra di Adele. Mi chiedo così quali siano le prove iniziatiche – faticose per definizione, a volte umilianti come i buffetti di Andrea – a cui uno debba sottostare in quell'immenso cortile che sono i social network. Ammesso che sia prevista una sfida, un climax e una trasformazione successiva, come in ogni storia che fa diventare grandi. E non solo un lento inesorabile declino.

I pugni in faccia nemmeno li puoi nominare, pena ritrovarti l'account sospeso, e a ogni attacco verbale si risponde bannando l’avversario, equivalente 2.0 della formula pronunciata dai figli di papà: "La palla è mia, nessuno gioca più." Quelli, i signorini, già allora non li potevamo digerire; noi con le t-shirt della Standa, loro già in Lacoste. Non sto nemmeno dicendo che l'equilibrio darwiniano del cortile fosse giusto – alla fine, come tutte le cose umane e in fondo disumane, si fondava sulla ratifica di asimmetrie di potenza. Natura, insomma.

Ma possiamo ancora considerare naturale l’immagine di una neo umanità imbelle e svigorita che ci proviene dal cortile dei social, in cui ogni attrito viene risolto attraverso una progressiva compartimentazione? Ti banno, non rispondo, vattene via!

L’esisto configura un fenomeno sociale sempre più diffuso, lo scrittore Fulvio Abbate l'ha battezzato amichettismo. Non corrisponde alla formalizzazione su larga scala dell'amicizia, ma a una sua caricatura di cui i social rappresentano una sintesi plastica, quando in ogni ambito viene rimossa l'emergenza del conflitto, la sua manifestazione che increspa la superficie dei rapporti. Salvo poi, espulso dalla porta, il conflitto rientra dalla finestra, lo fa in scala maggiorata. Bisogna però che caschi una bomba sul capo per nominare il reale, il resto è ancora finzione da infotainment. Così nella piscina delle nostre vite pende floscia una bandiera bianca, c'è calma di vento e l'acqua è tiepida e balneabile. Ma solo da chi possiede la tessera del club.

Potremmo intenderlo anche come un gioco di specchi tra consimili; gli stessi libri letti e fotografati, gli stessi amici di amici, la stessa, in sintesi, medesimità, assurta a valore assoluto mentre si biasima come intollerante la controparte che vota per Salvini, e non vuole extracomunitari a rovinare l’idillio biondo del banchetto. E anche in questo caso l'amicizia non c'entra nulla, è piuttosto una solidarietà contro il comune nemico. Il diverso avverso. L’amichettismo politico.

Anche io li banno i rompicoglioni, intendiamoci, come a suo tempo avrei volentieri fatto scomparire Andrea dalla mia vista, e soprattutto dalla mia vita. D'altronde, è l'unica forma di ecologia concessa sui social, altra forma di difesa non ne abbiamo. Sono le regole a cui ci si dispone entrando nel gioco, che però mi sembra a somma sotto zero: cui prodest direbbero i latini, cosa ci guadagno ad avere attorno a me solo una minima coorte di amichetti plaudenti, e a essere snobbato da tutti gli altri, da cui a mia volta mantengo sgombro l'orizzonte non solo relazionale, ma percettivo? Divento forse più sano più temprato più intelligente, o consapevole dei miei punti di forza (ad esempio il rapido alternarsi di jab sinistro e diretto destro al volto, come scoprii nel mio primo incontro pugilistico con lo spasimante di Adele) quanto delle mie manchevolezze, che mi venivano puntualmente rinfacciate nel cortile di via Parolo? Ok, lo ammetto, a biglie ero una frana, e a calcio quando la palla mi finiva sul piede sinistro diventavo incerto e balbettante.

E poi non è vero che i tempi della giustizia siano quelli del desiderio, un clic veloce sul mouse e la persona sgradita scompare, opplà, bacchetta magica. Anche senza aver letto i Promessi sposi la vita offre riparazioni postume a chi possiede la virtù della pazienza. Così, raggiunta la soglia trent'anni, sentii suonare il campanello della mia abitazione; non era cambiata, si sporgeva sempre su quel minimo fazzoletto di cemento, ormai sbiadita ma non scomparsa la traccia della vernice rossa che faceva da pista per i tappi. Strano pensai, non aspetto nessuno. Le quattro di un pomeriggio invernale in cui la luce scompare presto, come quando ci si immergeva nei box per ritrovare il Sacro Graal di gomma. Davanti alla porta spalancata trovo due adulti e un bambino, sono vestiti in modo decoroso. Non eleganti, non casual. Quasi triste.

“Buongiorno” mi dice l'adulto più basso, non mi arrivava neppure alle spalle, “siamo Testimoni di Geova. La fine è vicina, li vede i segni, ma siamo qui per tenderle una mano. L’accetti se vuole salvarsi.” Guardai bene e a fondo quell'uomo, il tono della voce, c’era qualcosa… Massì, era lui! E così gli risposi con un sorrisetto sornione e un buffetto sulla guancia: “Andrea Andrea... te pias la Coca Cola, eh? E la Fanta e la gassosa?”

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