Il cortile, al principio, fu qualcosa a cui guardare. Guardare e non
toccare, come viene scritto nei musei. Solo dopo viene l’esplorazione, devono
averlo pensato anche gli ingegneri spaziali della Nasa, prima di spedire
l'Apollo 11 sulla luna. Era il 21 luglio del 1969 e solo lo zio Franco e il
papà erano rimasti svegli a osservare quel piccolo passo per un uomo, quel
grande passo per l’umanità. Io dormivo già da un pezzo in un letto della
pensione Aurora di Rimini.
Ci correvano, in un cortile lungo e stretto racchiuso da contrafforti in cemento, come era anche il suolo, bambini che mi sembravano ometti: quattro, cinque anni più dei miei che stavano sulle dita di una mano. I più piccoli dei grandi già andavano a scuola, io ancora all’asilo. Non ero pronto. Potevo solamente invidiarli incollato alla finestra della cameretta dove giocavo a Lego con Pierantonio.
Fu con i più
vicini di età, quando i miei genitori mi consentirono di scendere per la prima
volta da solo, che cominciai a stabilire contatti, a cui seguirono quelli con
miniature umane che sbocciavano in cortile senza alcun preavviso. Anche loro
con la mia stessa cautela arrivavano per singole epifanie; uno aveva i capelli
rossi e le lentiggini, un altro le ginocchia sbucciate e la zeppola. Il giorno prima non c'erano ed eccoli apparire all’improvviso dal
nulla. Ci sarebbero rimasti per un bel po' di tempo, fino quando si abbandonava
il cortile, all'inizio delle superiori, per esplorare porzioni più ampie di una
città comunque minuscola.
Per quanti segni di pace e posture di sottomissione che ciascuno era tenuto ad assumere per essere accettato, non mancava lo scotto da pagare ai bulli; ai
bulletti, meglio. Ricordo un tizio di nome Andrea. Eravamo alti uguali ma l'ombra di baffi incipienti marcava la distanza tra noi, un vero campione nelle impennate con la
bicicletta di tipo Graziella. Di tanto in tanto afferrava me o un altro dei piccoli e ci faceva
un buffetto sulla guancia. In teoria avrebbe dovuto essere un gesto affettuoso,
ma lui stringeva forte, sempre più forte, ahi mi fai male! A quel
comportamento, già di per sé aggressivo, accompagnava le parole: "Te pias
la Coca Cola, eh? E la Fanta e la gassosa?"
Tutti ridevano e, con una domanda apparentemente priva di senso, otteneva
la riconferma del suo status di cucciolo alfa, mentre alla vittima di turno
scendeva qualche lacrima, subito occultata con la manica della felpa. Altre
volte le gerarchie venivano ribaltate con reciproca sorpresa. Un ragazzino
lungo lungo mi sferrò senza ragione né preavviso un pugno in faccia; credo
volesse fare colpo su una bambina di nome Adele, piaceva un po' a tutti. In
quel caso reagii. Replicando le mosse che avevo appreso seguendo gli incontri
di Muhammad Ali – non ho ancora capito come facessi a cogliere i singoli gesti
del suo corpo flessuoso, riprodotti da un minuscolo televisore in bianco e nero
che impiegava cinque minuti per accendersi – la vittoria fu mia. Anche se Adele
poi si prese amorevolmente cura dei numerosi lividi che avevo procurato al
lungagnone, secondo quel principio universale per cui Ettore possiede più
fascino di Achille.
Ci furono molti altri episodi simili, ma diluiti nel tempo e tutto sommato sporadici. Dopo gli scontri prevalevano lunghi armistizi, i nuovi equilibri di forze
dirottavano l’esubero di energia verso partitelle a calcetto, tornei di biglie o con
i tappi a corona delle bottigliette di Coca Cola ("te pias la Coca Cola,
eh..." ancora mi risuona odiosa la frase), da sospingere con un colpetto
delle dita entro i confini di una pista tracciata con la vernice rossa. Infine
una specie di prova iniziatica, trasformata presto in baraonda a metà tra
il rugby e la caccia al tesoro, da eseguire nel corsello che conduce ai box interrati; l’avevamo chiamata palla buio perché la palla veniva calciata
all’interno senza accendere le luci. Quindi, muovendosi a tentoni, andava
ritrovata e riportata in superficie, ci si divideva in due squadre e valeva
tutto. Anche mordersi come faceva un mingherlino che non ne combinava una giusta. Di cognome, ironia della sorte, faceva Lapsus.
Dalle tenebre dei garage qualcuno usciva vincente, altri sconfitti, ma
c'era sempre una seconda occasione. Prima o poi eri tu a scovare la palla, e
con l'aiuto di alleati e sfuggendo gli agguati dei nemici, venivi infine
baciato dai raggi del sole e dalle labbra di Adele. Mi chiedo così quali siano
le prove iniziatiche – faticose per definizione, a volte umilianti come i buffetti di Andrea – a cui uno debba sottostare in quell'immenso cortile che
sono i social network. Ammesso che sia prevista una sfida, un climax e una
trasformazione successiva, come in ogni storia che fa diventare grandi. E non solo un lento inesorabile declino.
I pugni in faccia nemmeno li puoi nominare, pena ritrovarti l'account
sospeso, e a ogni attacco verbale si risponde bannando l’avversario, equivalente 2.0 della formula pronunciata dai figli di papà: "La palla è mia,
nessuno gioca più." Quelli, i signorini, già allora non li potevamo
digerire; noi con le t-shirt della Standa, loro già in Lacoste. Non sto nemmeno
dicendo che l'equilibrio darwiniano del cortile fosse giusto – alla fine, come
tutte le cose umane e in fondo disumane, si fondava sulla ratifica di
asimmetrie di potenza. Natura, insomma.
Ma possiamo ancora considerare naturale l’immagine di una neo umanità imbelle e svigorita che ci proviene dal cortile dei social, in cui ogni attrito viene risolto attraverso una progressiva compartimentazione? Ti banno, non rispondo, vattene via!
L’esisto configura un fenomeno sociale sempre più diffuso, lo scrittore Fulvio Abbate l'ha battezzato amichettismo. Non corrisponde alla formalizzazione su larga scala dell'amicizia, ma a una sua caricatura di cui i social rappresentano una sintesi plastica, quando in ogni ambito viene rimossa l'emergenza del conflitto, la sua manifestazione che increspa la superficie dei rapporti. Salvo poi, espulso dalla porta, il conflitto rientra dalla finestra, lo fa in scala maggiorata. Bisogna però che caschi una bomba sul capo per nominare il reale, il resto è ancora finzione da infotainment. Così nella piscina delle nostre vite pende floscia una bandiera bianca, c'è calma di vento e l'acqua è tiepida e balneabile. Ma solo da chi possiede la tessera del club.
Potremmo intenderlo anche come un gioco di specchi tra consimili; gli
stessi libri letti e fotografati, gli stessi amici di amici, la stessa, in
sintesi, medesimità, assurta a valore assoluto mentre si biasima come intollerante
la controparte che vota per Salvini, e non vuole extracomunitari a rovinare
l’idillio biondo del banchetto. E anche in questo caso l'amicizia non c'entra
nulla, è piuttosto una solidarietà contro il comune nemico. Il diverso avverso.
L’amichettismo politico.
Anche io li banno i rompicoglioni, intendiamoci, come a suo tempo avrei
volentieri fatto scomparire Andrea dalla mia vista, e soprattutto dalla mia
vita. D'altronde, è l'unica forma di ecologia concessa sui social, altra forma
di difesa non ne abbiamo. Sono le regole a cui ci si dispone entrando nel gioco, che però mi sembra a somma sotto zero: cui prodest direbbero i latini,
cosa ci guadagno ad avere attorno a me solo una minima coorte di amichetti
plaudenti, e a essere snobbato da tutti gli altri, da cui a mia volta mantengo
sgombro l'orizzonte non solo relazionale, ma percettivo? Divento forse più sano
più temprato più intelligente, o consapevole dei miei punti di forza (ad
esempio il rapido alternarsi di jab sinistro e diretto destro al volto, come
scoprii nel mio primo incontro pugilistico con lo spasimante di Adele) quanto
delle mie manchevolezze, che mi venivano puntualmente rinfacciate nel cortile di via Parolo? Ok, lo
ammetto, a biglie ero una frana, e a calcio quando la palla mi finiva sul
piede sinistro diventavo incerto e balbettante.
E poi non è vero che i tempi della giustizia siano quelli del desiderio, un
clic veloce sul mouse e la persona sgradita scompare, opplà, bacchetta magica.
Anche senza aver letto i Promessi sposi la
vita offre riparazioni postume a chi possiede la virtù della pazienza. Così,
raggiunta la soglia trent'anni, sentii suonare il campanello della mia abitazione;
non era cambiata, si sporgeva sempre su quel minimo fazzoletto di cemento,
ormai sbiadita ma non scomparsa la traccia della vernice rossa che faceva da
pista per i tappi. Strano pensai, non aspetto nessuno. Le quattro di un
pomeriggio invernale in cui la luce scompare presto, come quando ci si
immergeva nei box per ritrovare il Sacro Graal di gomma. Davanti alla porta
spalancata trovo due adulti e un bambino, sono vestiti in modo decoroso. Non
eleganti, non casual. Quasi triste.
“Buongiorno” mi dice l'adulto più basso, non mi arrivava neppure alle
spalle, “siamo Testimoni di Geova. La fine è vicina, li vede i segni, ma siamo
qui per tenderle una mano. L’accetti se vuole salvarsi.” Guardai bene e a fondo
quell'uomo, il tono della voce, c’era qualcosa… Massì, era lui! E così gli
risposi con un sorrisetto sornione e un buffetto sulla guancia: “Andrea Andrea... te pias la Coca Cola, eh? E la
Fanta e la gassosa?”
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