venerdì 12 agosto 2022

La realtà semplificata


Pasolini ha scritto e detto molte cose. Io avevo nove anni quando è morto Pasolini. Nove e mezzo, per la precisione.
Ricordo le copertine de L’Espresso col suo volto scavato, nelle pagine interne le foto del corpo tumefatto, nudo, violato. Stavano in casa del mio amico Daniele; i miei genitori, meno politicizzati, leggevano Epoca.
Pasolini ha detto e scritto molte cose, ma ho dovuto risalirle a posteriori come fanno i salmoni nuotando verso la sorgente. Sono stato per nove anni e mezzo, la lunghezza media della vita di un boxer, coevo di Pasolini. Un minuscolo abitante della stessa terra, respiravamo la stessa aria inquinata ma ero troppo piccolo per comprendere la sua "disperata fame d'amore, amore di corpi senza anima". A volte proveniva da film, altre volte da immagini, severi moniti del corpo asciutto e in posa, non mancava mai una certa componente di astuzia. E poi tante, tantissime parole.
Senza saperlo, ho applicato nei confronti delle parole di Pasolini la tecnica che Tolstoj suggeriva nella lettura dei vangeli: segna con una matita rossa tutto ciò che comprendi, che ti risuona. Il resto lascialo perdere. Dopo avere sottolineato con una matita rossa le parole di Pasolini che mi risuonavano, le trasferivo su un quadernetto di uguale colore.
Non vi ha mai trovato posto l’invito a ridurre l’età scolare, per non corrompere la (presunta) saggezza arcaica del sottoproletariato. Mi appariva – e tutt’ora appare – come una postura estetizzante, l'ennesimo no per distinguersi dalla muta latrante che corre dietro a una lepre di pezza, scambiandola per la vita.
Mi capita però di ripensarci leggendo alcuni status su Facebook. Proprio questa mattina ho trovato una poesia di una ragazza che conosco, abita in un paese vicino a dove sono nato, era nove anni e mezzo prima che il boxer concludesse il suo ciclo, la carcassa abbandonata sul litorale di Ostia. È una cara persona, non voglio fare polemica né parlarne male. Semplicemente, non mi piacciono le sue poesie. Di più: le trovo brutte. Si può essere belle persone e scrivere brutte poesie. Ne trascrivo una a caso:
Abbiamo cuori che pesano tantissimo.
Come tutte le vite che si sono soffermate dentro.
Oppure un’altra:
Ho sognato trasparente.
Ho sognato che c’eri tu e che mi abbracciavi tantissimo, anche se la valle era scura, fredda e misteriosa.
E io sentivo arrivare tutta la tua luce.
E tu la mia.
E un'altra ancora:
Manca amore.
Lo dicono gli animali.
Lo dicono gli alberi.
Lo dicono i bambini.
Lo dicono gli anziani.
Li teniamo tutti rinchiusi da qualche parte.
Come la bocca.
Come il cuore.
L’ho anticipato, non voglio fare polemica o suscitare ironia, ammiccamenti saputi. Ognuno scrive come può e come sente. Mi soffermo solo sul dato che mi ha più colpito: una di queste poesie aveva 451 like, e le altre poco meno.
Mi è tornato alla mente il poeta potentino Beppe Salvia, morto suicida a Roma a trentuno anni. Poeta schivo, delicato e profondo, fautore di una parola che ricerca la purezza delle origini, la meraviglia infantile. Ma anche animatore culturale, fondatore della rivista Braci, a cui collaboravano Marco Lodoli, Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Paolo Del Colle e molti altri. In seguito vennero ospitate poesie di Andrea Zanzotto, Carlo Betocchi e Amelia Rosselli. Grandi poeti, insomma. Tra i più grandi del periodo.
Ma quante persone leggevano Braci?
Non lo so esattamente. Secondo Aldo Nove, che ha fatto una ricerca al riguardo, questa fioritura di riviste poetiche aveva comunque tirature limitatissime, per quanto abbia segnato la poesia degli anni a venire. Possiamo dunque immaginare che Beppe Salvia e i suoi compagni di viaggio non arrivassero a 451 lettori. Cosa che fa invece la mia simpatica conoscente – non solo lettori ma estimatori, nel suo caso – con poesie in cui si parla di anziani, alberi, bambini. E soprattutto cuore, tanto cuore.
C’è una morale in tutto ciò? Forse sì. L’aumento della scolarizzazione avvenuta nel nostro Paese a partire dagli anni Cinquanta, non ha portato a un incremento proporzionale di lettori attenti e consapevoli. Al mondo, estetizzante fin che si vuole, rimpianto da Pasolini, è subentrato un sistema di pensiero altrettanto estetizzante, il sociologo e filosofo americano Dwight Macdonald l'ha chiamato midcult. Una nozione contigua a quella di kitsch, a significare “l’emulazione semplificata di modelli alti”.
I 451 like alla poesia della mia conoscente possono essere letti come reazione idiosincratica alla complessità, a cui viene opposta una cartolina rassicurante, una cartolina semplice dai colori pastello. Che non va confusa con la parola innamorata di Beppe Salvia, l’amore è una cosa complessa da maneggiare in parole, specie se si cerca di farlo rimare con cuore ("la rima più difficile del mondo" aggiungeva Umberto Saba). Questi sono invece testi di Umberto Tozzi, ma al netto delle sue belle melodie che ci spensieravano le estati uscendo da un juke-box.
Alla semplificazione del reale che proviene da persone comunque istruite, persone che emulano modelli alti, ovviamente non è una soluzione la proposta di Pasolini: riduciamo l’età scolare, torniamo a un medioevo di primitiva e feroce bellezza. Anche lui in fondo era consapevole della natura di provocazione. Una risposta sbagliata a una domanda giusta.
Intanto, i poeti che hanno partecipato alla formidabile avventura di Braci si sono trasferiti anche loro su Facebook. Non più in gruppo ma per singoli impacciati tentativi di comunicazione – che può fare un poeta, se non comunicare? “Morire, per me, è smettere di comunicare”. Questa è una frase di Pasolini sottolineata in rosso che stava sul mio quadernetto rosso.
Sono così andato a frugare sulla pagina di Paolo Del Colle, un poeta, e una persona, che sento vicina e amica. Vi ho trovato una poesia di Raymond Carver. Secondo lui, e anche secondo me, una delle sue più belle. Sotto ci stavano cinque like, sei più il mio che ho aggiunto all’istante. Trascrivo la poesia e non dico più niente:
Stamattina mi ha svegliato una voce della mia infanzia
che dice È ora di alzarsi e io mi alzo.
Per tutta la notte, nel sonno, ho cercato
un posto dove mia madre potesse vivere
ed essere felice. Se vuoi che vada fuori di testa,
diceva la voce, va bene. Altrimenti
portami via da qui! Insomma, è colpa mia
se si è trasferita in questa città che detesta. Se ho affittato
per lei questa casa che detesta.
Se le ho messo accanto quei detestabili vicini.
Se le ho comprato i mobili che detesta.
Perché, invece, non mi hai dato i soldi da spendere da sola?
Voglio tornare giù in California, dice la voce.
Se resto qui muoio, vuoi farmi morire?
Non c’è risposta a questa o a qualunque
altra cosa, stamattina. Il telefono non fa altro
che squillare. Neanche mi avvicino per paura
di sentire un’altra volta il mio nome. Lo stesso nome
a cui mio padre ha risposto per 53 anni.
Prima di andare a ricevere il premio finale.
È morto subito dopo avere detto: “Porta questo
di là in cucina figliolo.”
La parola figliolo pronunciata dalle sue labbra.
Tentennò nell’aria perché tutti l’ascoltassero.

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