Torno sul tema del medico che mi ha richiesto 200 euro
per una visita non effettuata, e disdetta 29 ore e 30 minuti prima dell'orario
convenuto. L'episodio mi ha fatto ricordare una conoscente che ha un negozio di
abbigliamento in un paese vicino a dove vivo. Di recente e come si dice scoprendo una vocazione tardiva, ha
pubblicato un paio di libri; non ne conosco la qualità, ma le informazioni e
soprattutto il tono del risvolto ("una storia di legami che restano
scritti dentro, radici che trattengono segreti, dolori non cercati che ci
conducono a ritrovare noi stessi in radure luminose") mi hanno indotto a
credere che non fossero nelle mie corde, ma magari mi sbaglio. Parlando di una
scrittrice con cui avevo avuto una polemica su Facebook, la mia conoscente,
immagino in forza dei due libri con il suo nome bene in vista sulla copertina,
non credo per via degli abiti di un famoso brand venduti nel suo negozio, l'ha
chiamata collega, "mi informerò sul lavoro della collega".
Confesso che è una cosa che mi ha fatto molto ridere.
Collega, quando detto a proposito di uno scrittore, suggerisce il paragone con un
dermatologo, il quale aggiunga al termine dell'ispezione a un brutto neo:
"Mi saluti il collega", riferendosi al medico curante che ti ha
inviato da lui per una visita specialistica. Ma tra scrittori è buffo, dai. E
invece no. Dovremmo piuttosto ridere quando sono proprio i medici (come i
poliziotti, come i questurini) a chiamarsi colleghi tra di loro, utilizzando
una parola sintomo che tradisce una complicità occulta, corporativa. Non
importa l'intenzione di chi la pronuncia: alle sue spalle, dietro il sipario
della bocca, ci sono quinte profonde, sedimenti di senso; Lacan li chiamava
"le Grand Autre", il Grande Altro. Ed è spesso questo altro, in
forma di linguaggio, a scrivere i copioni di quel che diciamo, a parlarci mentre
parliamo.
Il termine collega, a uno sguardo non distratto dallo
stetoscopio che gli pende dal collo, lo sfigmomanometro che ci attende
minaccioso, dice allora qualcosa di ulteriore al contesto, rivelando
un atteggiamento opposto a quell'apertura all'uomo e alle sue sofferenze che
dovrebbe provare chi professa la cura, prima ancora di essere un
professionista. Collega, caro collega, consegni il referto al collega, un tic linguistico che finisce col collegare tra loro i medici in un gruppo ristretto e sempre più saldo,
un insieme, ma scollegandoli da quell'insieme maggiore chiamato mondo.
È una conseguenza della semantica, prima ancora che dell'etica.
Non mi stupisce dunque una notizia che ho letto di recente, nella quale gli africani laureati in medicina – sempre più di frequente li ritroviamo nei nostri pronto soccorso, a tutti gli altri medici ci si rivolge con il Lei e solo a loro con il tu – vengono giudicati tra i migliori. Non mi stupisce perché è un popolo ancora capace di provare stupore e curiosità ed empatia; forse perché il collegamento con il tutto, in loro, non è ancora stato reciso da quello con la parte. Quando l'estensione nominale da collegamento si contrae a collega, abbiamo invece questo cortiletto avido e pettegolo chiamato Occidente, in cui il simile non viene più riconosciuto dallo sguardo ma dalla targhetta sulla porta, sulla copertina, sull'etichetta dei vestiti. Tutte cose da vendere, prescrizioni mediche comprese.
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