lunedì 27 settembre 2021

Autofiction


In questi anni è divenuto di uso corrente il termine anglosassone autofiction. Stiamo parlando di letteratura, naturalmente. La traduzione letterale, autofinzione, o meglio ancora autofinzione biografica, ne restituisce il senso senza alcuna distorsione. Ma l’inglese è l’inglese, e ormai solo Diego Fusaro pronuncia Nuova Iorche, come faceva Ruggero Orlando nei suoi collegamenti da Big Apple, erano gli anni settanta o giù di lì.

In realtà la parola, e anche il concetto, provengono dalla Francia, quale reazione alla poetica della morte dell'autore propugnata da Roland BarthesFu Serge Doubrovsky a parlare di autofiction per la prima volta negli anni settanta, ma poi la pallina del flipper rimbalzò negli Stati Uniti, che già si cimentavano nel genere attraverso un movimento chiamato New Journalism (Truman Capote, Norman Mailer, Hunter Thompson ecc.) e a noi è ritornata con la pronuncia anglofona; come il termine latino media, plurale di medium, che ormai i più pronunciano "midia". A essere pignoli dovremmo così dire: "otofixion".

Quanto ci sia di finzionale e quanto di biografico, ovvero di reale, non è importante stabilirlo, essendo altamente variabile. L’autofiction funziona se il lettore crede che le cose siano andate a quel modo lì, scritto sulla pagina, e ne viene coinvolto, entrando in una risonanza altrettanto biografica con le parole del testo.

Ho fatto esperienza del funzionamento del meccanismo proprio ieri, dopo aver pubblicato un racconto su Facebook. Scrivevo di un viaggio a Milano per una visita medica, in cui avrebbe dovuto accompagnarmi un amico che all’ultimo momento mi ha però dato buca. Ho così dovuto disdire la visita; in questo periodo la mia salute è malandata, cinque ora alla guida dell'auto sono troppe. Ma il medico, uno di quei professori blasonati con il nome composto, ha comunque preteso il compenso. La disdetta, aggiungevo, è avvenuta con 29 ore e 30 minuti di anticipo sull’appuntamento, e questa cosa ha suscitato la reazione indignata di molti lettori. Un vero stronzo, hanno concluso.

Ma la reazione di una lettrice è stata diversa. Nel mio amico, di cui non menzionavo il nome, le è parso di riconoscere una persona che anche lei conosce bene, lo chiama addirittura "un santo”, e forse davvero lo è. Ma di quale amico stiamo parlando: di quello di Guido Bussoli, il mio nome di battesimo, o di Guido Hauser, la voce che dice io nel testo? Ossia dell’autore o del punto di vista in cui si focalizza internamente la narrazione, un personaggio a tutti gli effetti. E così anche il suo amico, il mio amico, l’amico del personaggio e dell'autore… Ma amico di chi, alla fin fine: di chi stiamo davvero parlando?

Un dubbio da cui la lettrice non è stata attraversata – e per fortuna, altrimenti il mio testo avrebbe fallito nel suo intento di essere creduto quale biografia, la parte fiction dell’iceberg deve sempre rimanere sommersa – e mi ha accusato di avere messo quella meravigliosa persona in cattiva luce, anzi, e testualmente, “in croce” – non si fa così!

Cosa è accaduto mi sono chiesto allora, perché una reazione tanto forte e risentita?

In fondo, nel racconto io non parlavo male del mio amico, mi limitavo a dire che mi ha dato buca, cosa effettivamente accaduta anche nella realtà, per quanto nel farlo ho forzato un po’ la mano a fini narrativi; l’amico di Guido Bussoli, il mio “vero” amico, aveva detto che mi avrebbe dato conferma due giorni prima dell’appuntamento, quello di Guido Hauser no. Inoltre, il setter della storia ha preso un infarto dopo aver udito una fucilata, mentre il cane posseduto dal mio amico ha avuto il coccolone traversando la strada. Piccole differenze, slittamenti, ma comunque sufficienti a istituire un mondo diverso, che si chiama narrativa. Intendendo col termine lo scarto, più o meno marcato, tra l’accadere e la sua rappresentazione, o quando lo scarto si allarga: invenzione.

Io ho provato a difendermi, a spiegare la distinzione dei piani, ma più lo facevo più lei insisteva (non si tratta così un amico, vergogna!), fino a quando non ho compreso che aveva ragione lei: l’autore non possiede mai l’ipoteca sulle reazioni emotive del lettore, e tanto più sono accese tanto più l’inganno narrativo è andato a buon fine, il cosiddetto “patto di sospensione dell’incredulità” è stato sottoscritto; poco male se ha poi imboccato la via imprevista della ripulsa ringhiosa.

L’effetto principale della finzione autobiografica, per come ne ho fatto esperienza, sta dunque nell’istituzione di simili reazioni di rispecchiamento; magari e se possibile più concilianti, per quanto ci siano autori che hanno di mira proprio il disagio del lettore. Un solo nome: Michel Houellebecq.

O detta in altre parole, attraverso l’autofiction, quando il dispositivo va a segno, si realizza un grado superiore di tensione tra lettore e testo di quanto avviene, di norma, nella narrazione puramente finzionale, in cui negli anni si è progressivamente allentata la stessa dinamica; il sospetto è che un ruolo decisivo l’abbia avuto l’avvento del cinema, in cui le emozioni primarie vengono veicolate con maggior forza persuasiva. Non è forse un caso che, tranne rarissimi episodi (mi viene in mente Caro diario di Nanni Moretti), nel cinema non si fa ricorso all’autofiction. L’illusione sullo schermo funziona sempre alla grande, mentre sulla pagina scritta ha perso molti colpi.

Ma se riusciamo a ripristinarla attraverso la strategia autofinzionale, dobbiamo essere consapevoli che corriamo dei rischi. Come in ogni altra forma d'illusionismo si deve infatti prestare attenzione all’esecuzione del trucco, già che si possono ottenere degli effetti di ritorno non previsti; quelli, sì, pienamente reali, come viene mostrato da Stephen King nel romanzo Misery; il cinema, avvoltoio di specchi ed emozioni, ne ha subito colto le potenzialità, nella bella trasposizione che in italiano prende il titolo di Misery non deve morire (ma a King pare non piacque).

Nel mio caso, con le debite proporzioni, Guido Hauser ha ottenuto 63 like su Facebook, ma Guido Bussoli si è guadagnato una persona in più che lo guarderà in tralice, lo guarderà con sospetto e disprezzo (hai tradito il tuo amico, hai tradito il tuo amico!) tutte le volte che lo incontrerà sul giro degli stupidi di Sondrio.

2 commenti:

  1. Ecco la differenza tra facebook e blog. Prova a postare questo gioiellino su facebook e i tuoi 63 like subiranno una drastica riduzione. E comunque io, al netto della mia personale sospensione dell'incredulità, ancora non ho capito perché tu debba bonificare quel fenomeno di pseudo professionista.. ;)

    RispondiElimina
  2. In realtà, anche su Facebook, in proporzione ai miei contatti non mi si fila nessuno, e questo mi sembra del tutto coerente al mezzo, che prevede testi per così dire più smart. La mia media di like è di circa 15. Ma avevo una quindicina di like anche quando avevo solo 100 contatti; ora ne ho più di 3000. Se avessi dunque di mira solo il consenso - e grazie a Dio non è così, almeno in termini quantitativi, già che comunque si deve scrivere per qualcuno, fosse una persona soltanto - la mia scelta stilistica avrebbe solo un nome: masochismo. (PS - quanto al blog, funzionavano, in genere, 10/15 anni fa. Adesso è una forma morta, uccisa dai social. Come nella canzone Video Kills the Radio Star.)

    RispondiElimina