In questi anni è divenuto di uso corrente il termine anglosassone autofiction. Stiamo parlando di letteratura, naturalmente. La traduzione letterale, autofinzione, o meglio ancora autofinzione biografica, ne restituisce il senso senza alcuna distorsione. Ma l’inglese è l’inglese, e ormai solo Diego Fusaro pronuncia Nuova Iorche, come faceva Ruggero Orlando nei suoi collegamenti da Big Apple, erano gli anni settanta o giù di lì.
In realtà la parola, e anche il concetto, provengono dalla Francia, quale reazione alla poetica della morte dell'autore propugnata da Roland Barthes. Fu Serge Doubrovsky a parlare di autofiction per la prima volta negli anni settanta, ma poi la pallina del flipper rimbalzò negli Stati Uniti, che già si cimentavano nel genere attraverso un movimento chiamato New Journalism (Truman Capote, Norman Mailer, Hunter Thompson ecc.) e a noi è ritornata con la pronuncia anglofona; come il termine latino media, plurale di medium, che ormai i più pronunciano "midia". A essere pignoli dovremmo così dire: "otofixion".
Quanto ci sia di finzionale e quanto di biografico,
ovvero di reale, non è importante stabilirlo, essendo altamente variabile.
L’autofiction funziona se il lettore crede che le cose siano andate a quel modo
lì, scritto sulla pagina, e ne viene coinvolto, entrando in una risonanza
altrettanto biografica con le parole del testo.
Ho fatto esperienza del funzionamento del meccanismo
proprio ieri, dopo aver pubblicato un racconto su Facebook. Scrivevo di un
viaggio a Milano per una visita medica, in cui avrebbe dovuto accompagnarmi un
amico che all’ultimo momento mi ha però dato buca. Ho così dovuto disdire la
visita; in questo periodo la mia salute è malandata, cinque ora alla guida dell'auto sono troppe. Ma il medico, uno di
quei professori blasonati con il nome composto, ha comunque preteso
il compenso. La disdetta, aggiungevo, è avvenuta con 29 ore e 30 minuti di anticipo
sull’appuntamento, e questa cosa ha suscitato la reazione indignata di molti
lettori. Un vero stronzo, hanno concluso.
Ma la reazione di una lettrice è stata diversa. Nel
mio amico, di cui non menzionavo il nome, le è parso di riconoscere una persona
che anche lei conosce bene, lo chiama addirittura "un santo”, e forse
davvero lo è. Ma di quale amico stiamo parlando: di quello di Guido Bussoli, il
mio nome di battesimo, o di Guido Hauser, la voce che dice io nel testo? Ossia
dell’autore o del punto di vista in cui si focalizza internamente la
narrazione, un personaggio a tutti gli effetti. E così anche il suo amico, il
mio amico, l’amico del personaggio e dell'autore… Ma amico di chi, alla fin fine: di chi stiamo davvero
parlando?
Un dubbio da cui la lettrice non è stata
attraversata – e per fortuna, altrimenti il mio testo avrebbe fallito nel suo
intento di essere creduto quale biografia, la parte fiction dell’iceberg deve
sempre rimanere sommersa – e mi ha accusato di avere messo quella meravigliosa
persona in cattiva luce, anzi, e testualmente, “in croce” – non si fa così!
Cosa è accaduto mi sono chiesto allora, perché una
reazione tanto forte e risentita?
In fondo, nel racconto io non parlavo male del mio
amico, mi limitavo a dire che mi ha dato buca, cosa effettivamente accaduta
anche nella realtà, per quanto nel farlo ho forzato un po’ la mano a fini
narrativi; l’amico di Guido Bussoli, il mio “vero” amico, aveva detto che mi avrebbe
dato conferma due giorni prima dell’appuntamento, quello di Guido Hauser no.
Inoltre, il setter della storia ha preso un infarto dopo aver udito una
fucilata, mentre il cane posseduto dal mio amico ha avuto il
coccolone traversando la strada. Piccole differenze, slittamenti, ma comunque
sufficienti a istituire un mondo diverso, che si chiama narrativa.
Intendendo col termine lo scarto, più o meno marcato, tra l’accadere e la sua
rappresentazione, o quando lo scarto si allarga: invenzione.
Io ho provato a difendermi, a spiegare la
distinzione dei piani, ma più lo facevo più lei insisteva (non si tratta così un amico,
vergogna!), fino a quando non ho compreso che aveva ragione lei: l’autore non
possiede mai l’ipoteca sulle reazioni emotive del lettore, e tanto più sono
accese tanto più l’inganno narrativo è andato a buon fine, il cosiddetto “patto
di sospensione dell’incredulità” è stato sottoscritto; poco male se ha poi
imboccato la via imprevista della ripulsa ringhiosa.
L’effetto principale della finzione autobiografica,
per come ne ho fatto esperienza, sta dunque nell’istituzione di simili reazioni
di rispecchiamento; magari e se possibile più concilianti, per quanto ci siano
autori che hanno di mira proprio il disagio del lettore. Un solo
nome: Michel Houellebecq.
O detta in altre parole, attraverso l’autofiction,
quando il dispositivo va a segno, si realizza un grado superiore di tensione
tra lettore e testo di quanto avviene, di norma, nella narrazione puramente
finzionale, in cui negli anni si è progressivamente allentata la stessa
dinamica; il sospetto è che un ruolo decisivo l’abbia avuto l’avvento del
cinema, in cui le emozioni primarie vengono veicolate con maggior forza
persuasiva. Non è forse un caso che, tranne rarissimi episodi (mi viene in mente
Caro diario di Nanni Moretti), nel cinema non si fa ricorso all’autofiction.
L’illusione sullo schermo funziona sempre alla grande, mentre sulla pagina scritta
ha perso molti colpi.
Ma se riusciamo a ripristinarla attraverso la strategia autofinzionale, dobbiamo essere consapevoli che corriamo dei rischi. Come in ogni altra forma d'illusionismo si deve infatti prestare attenzione all’esecuzione del trucco, già che si possono ottenere degli effetti di ritorno non previsti; quelli, sì, pienamente reali, come viene mostrato da Stephen King nel romanzo Misery; il cinema, avvoltoio di specchi ed emozioni, ne ha subito colto le potenzialità, nella bella trasposizione che in italiano prende il titolo di Misery non deve morire (ma a King pare non piacque).
Nel mio caso, con le debite proporzioni, Guido
Hauser ha ottenuto 63 like su Facebook, ma Guido Bussoli si è guadagnato una
persona in più che lo guarderà in tralice, lo guarderà con sospetto e disprezzo
(hai tradito il tuo amico, hai tradito il tuo amico!) tutte le volte che lo incontrerà sul giro degli
stupidi di Sondrio.
Ecco la differenza tra facebook e blog. Prova a postare questo gioiellino su facebook e i tuoi 63 like subiranno una drastica riduzione. E comunque io, al netto della mia personale sospensione dell'incredulità, ancora non ho capito perché tu debba bonificare quel fenomeno di pseudo professionista.. ;)
RispondiEliminaIn realtà, anche su Facebook, in proporzione ai miei contatti non mi si fila nessuno, e questo mi sembra del tutto coerente al mezzo, che prevede testi per così dire più smart. La mia media di like è di circa 15. Ma avevo una quindicina di like anche quando avevo solo 100 contatti; ora ne ho più di 3000. Se avessi dunque di mira solo il consenso - e grazie a Dio non è così, almeno in termini quantitativi, già che comunque si deve scrivere per qualcuno, fosse una persona soltanto - la mia scelta stilistica avrebbe solo un nome: masochismo. (PS - quanto al blog, funzionavano, in genere, 10/15 anni fa. Adesso è una forma morta, uccisa dai social. Come nella canzone Video Kills the Radio Star.)
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